Preferiti di Giugno 2020

Buongiorno o forse dovrei dire buonasera visto che sono passate le 14.
Voglio inaugurare oggi una rubrica che forse da settembre porterò su youtube, ma che per il momento, riserverò a Telegram, ovvero, i Preferiti del mese.

Nei miei preferiti ci saranno un po’ di cose sparse, tipo, un saggio storico, cho ho letto o che sto legendo, dei romanzi, una canzone con cui sono in fissa e boh, altre cose che hanno monopolizzato il mio mese.

A Ovest di Thule

La prima cosa che voglio consigliarvi tra i miei preferiti di Giugno è il romanzo “A ovest di Thule”, di Alberto Costantini è un romanzo ucronico, che raccona la scopera delle Americhe, da parte di un nobile romano, un tale Publio Valerio Hirpus, è un romanzo figo, il viaggio che racconta è avventuroso e ben critto, la fantasia (viaggio oltreoceano du un imbarcazione romana) si posa egregiamente con la realtà storica, la vita su una nave da gurra romana. L’imbarcazione che ci viene e fa da sfondo al viaggio è una via di mezzo tra una galera romana ed una caravella, con tanti remi ma anche grose e possenti vele.

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L’Infanzia dei dittatori

Secondo protagonista dei preferiti di giugno, è il saggio L’infanzia dei dittatori, di Véronique Chalmet, è un libro interessante, all’apparenza uno dei tanti saggi sui dittatori del novecento, ma che affronta la storia di questi uomini che, in un modo o nell’altro hanno efinito il secolo breve, in un modo nuovo, ovvero, raccontando non i loro regimi, non la loro crudeltà, ma la loro vita prima del potere, si tratta di una raccolta di brevi biografie, circoscritte ai primi anni della vita dei dittatori più celebri e spietati del novecento.

Il libro costa 16,15€ su amazon, ma è disponibile anche l’audiolibro su audible.

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Person of Interest

Tra fine maggio e giugno ho avuto modo di recuperare la serie Person of Interest, di Jonathan Nolan e diretta da J.J. Abrams, la serie è fighissima, i personaggi ben caratterizzati, e tocca temi interessanti e estremamente attuali (nonostante sia stata cancellata nel 2016, sembra scritta ieri).

Il BG della storia è questo, dopo l’11 settembre, il governo USA ha commissionato la creazione di una macchina per prevenire gli attentati e un genio dell’informatica ha creato una Intelligenza Artificiale a questo scopo, il governo quindi controlla e spia tutti, costantemente, la serie si interroga su quale sia il limite accettabile per la sicurezza, fin dove ci sipuò spingere, e nel farlo, dalla quarta stagione in poi, ci mostra il lato oscuro di ciò, mettendo in campo una seconda IA controllata da privati che ambiscono alla riorganizzazione dell’umanità.

La serie è fantascientifica, distopica, con una forte componente action, ed unisce alla trama orizzontale, delle trame verticali classiche delle serie tv thriller e poliziesche, che personalmente apprezzo.

La serie è ricca di citazioni a film e serie TV, da Matrix ad Inception, dal Padrino ad John Wick.

Personalmente l’ho apprezzata molto e ve la straconsiglio, la trovate sia su Netflix che su Amazon Prime Video.

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Nella Mia Testa

Voglio chiudere i preferiti di giugno consigliandovi una canzone con cui sono in fissa in questo periodo. Anche se non è il mio genere, praticamente da Marzo non faccio altro che riascoltare Nella mia testa di Marasco, non so perché, ma da quando l’ho ascoltata per caso al supermercato, citando canesecco, sto in fissa.

Anticipazioni

In questo momento sto leggendo il libro “La nuda” di Sabrina Marineo, è un romanzo strico, ma non mi ha ancora convinto del tutto, per ora è in forse, probabilmente ve ne parlerò nei preferiti di Luglio, in ogni caso, questi erano i miei preferiti del mese di giugno, in realtà maggio e giungo.

Voi cosa avete letto o state leggendo in questo periodo? quali serie state seguendo? e quale canzone non riuscite a smettere di ascoltare? Fatemelo sapere con un commento 😀

La storia del gioco della Scopa, un gioco da Pirati!

Il gioco della scopa è un gioco da pirati, e questa è la sua storia.

La storia del gioco della scopa ha origini antiche, nel mediterraneo del XV secolo. Il gioco era praticato inizialmente da marinai, contrabbandieri e pirati.

Il gioco della Scopa è, insieme alla briscola, il gioco di carte Italiano per eccellenza. Praticato nei circoli anziani, nei club politici, e nelle feste di natale per far passare le lunghe pause tra una portata e l’altra nell’attesa della mezzanotte. Ma il gioco della Scopa, ha una lunga ed interessantissima storia alle spalle, e voglio raccontarvela.

Faccio una premessa, in questo racconto, la differenza tra scopa e scopone scientifico, non esiste, oggi sono giochi differenti, ma in passato erano la stessa cosa, e non ci interessa più di tanto sapere quando si sono separati. Comunque, se proprio vi interessa, si sono separati agli inizi del novecento, ma come dicevo, questo è irrilevante, perché la storia della Scopa, inizia almeno quattro secoli prima.

Il contesto storico in cui è nata la scopa

Siamo in pieno rinascimento italiano, il medioevo è al tramonto e l’età moderna si affaccia sul mediterraneo, fino a quel momento il centro imperturbabile del mondo, in quelle acque per gran parte del medioevo e quasi tutta l’età moderna, pirati e corsari, europei e ottomani si sono affrontati in duri scontri per la supremazia.
Quando si parla di età moderna e di pirati, siamo abituati a pensare ai pirati caraibici, ma anche nel mediterraneo la pirateria era molto attiva, e oltre ad assaltare navi mercantili, era solita praticare anche numerose razzie terrestri, ma questa è un altra storia.

Se vuoi approfondire la storia dei pirati nel mediterraneo, ti consiglio il libro Pirati. Avventure, scontri e razzie nel Mediterraneo del XVII secolo di Adrian Tinniswood, se invece

In quel mondo fatto e popolato da marinai, corsari, pirati e contrabbandieri, qual’era il mediterraneo del XV secolo, nei porti delle grandi metropoli europee, il fronte del porto aveva tratti e panorami simili a quelli di città caraibiche, in quel momento Napoli era una delle tre città più grandi e popolose d’europa, seconda solo a Londra e Parigi, e nel suo porto, reso immenso dal golfo, vi erano ancorate decine e decine di navi battenti ogni sorta di bandiera e sulle sue banchine, e ancora di più nelle sue locande, pirati, corsari e contrabbandieri, facevano affari tra loro e con i mercanti locali. Qualcuno, un pirata, prova a rivendere ad un mercante il proprio bottino, conquistato con un assalto ad un’altra nave della stessa compagnia, qualcun’altro beve e scommette.

Il bottino dei pirati del mediterraneo era costituito principalmente dalle merci saccheggiate dalle navi depredate, ma spesso si componeva anche di oro e di schiavi, ovvero, marinai membri dell’equipaggio della nave assaltata.

Se vuoi approfondire il tema della schiavitù nel mediterraneo, in età moderna, ed il legame tra schiavitù e pirateria, ti consiglio il libro Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna di Giovanna Fiume.

Alcol e gioco, in questo momento storico, sono la rovina di pirati e corsari, perché divorano tutte le loro ricchezze e conquiste.

Molti pirati amano il gioco, amano scommettere, amano il rischio, hanno scelto quella vita per amore del rischio, rischiano in mare ogni giorno, e rischiano ai tavoli della taverna, puntando il proprio bottino ad una partita a carte contro altri pirati, mercanti e contrabbandieri.

I giochi dei pirati

I giochi in questo momento non sono tantissimi, ed hanno come protagonisti soprattutto i dadi, ma non tutti i pirati amano i dadi. Non quando sono in una taverna, con i dadi possono giocarci ogni singolo giorno della propria vita, nelle taverne invece, preferiscono le carte.

Ovviamente non sono carte moderne, sono molto grandi, molto simili ai tarocchi nella forma, ma hanno una particolarità, che le accomuna alle moderne carte italiane, hanno quattro semi e ogni seme conta dieci carte.

Uno dei più antichi giochi praticati dai pirati, nei porti italici, viene descritto con regole e meccaniche di gioco, molto simili a quelle del moderno gioco della scopa, anche se, per molto tempo, non gli viene attribuito un vero nome, in alcuni porti il gioco è chiamato in un modo, in altri porti è chiamato in modo differente, e non sempre si gioca con le stesse regole.

La Primiera e il Scarabucion

Sempre in questo periodo, nel XV secolo, mentre nei porti italiani si gioca una versione primordiale della scopa in cui i giocatori mettono sul tavolo le proprie carte e gli avversari possono prendere le carte con un punteggio pari a quello di una delle carte nella propria mano, in Spagna, si giocano altri giochi, come la Primiera, una sorta di poker primordiale in cui i punti si fanno collezionando 4 carte dello stesso valore numerico, o come il Scarabucion, un gioco in cui bisognava collezionare quante più carte di un seme specifico.

La primiera, di sette, ed eventualmente di sei, permette oggi ai giocatori di scopa di avere dei punti extra, così come permettono di ottenere punti extra le carte di denari, un seme specifico, come nello Scarabucion.

Quando è nato il moderno gioco della scopa?

Non sappiamo dove, come o quando, questi giochi, tutti praticati prevalentemente da marinai nelle taverne, siano stati fusi in un unico gioco, sappiamo però che nel XVII secolo, in Spagna, era praticato un gioco chiamato Escoba, le cui regole risultano essere un mix tra questi tre giochi. E sappiamo anche che, nel secolo successivo, l’Escoba è molto diffusa tra i militari spagnoli, e soprattutto, è ampiamente diffuso anche nell’italia meridionale, dove prende il nome, tradotto, di Scopa.

Purtroppo la storia di questo gioco non è molto documentata, ci sono documenti del XVII secolo che attestano il gioco dell’Escoba in spagna e documenti che parlano di un suo analogo nell’italia meridionale del XVIII secolo, e la più antica fonte sulla Primiera risale al XV secolo, questa fonte in particolare, è una nota, di un mercante ispanico, che annota un importante vittoria al gioco, anche se, purtroppo, non ci dice chi fosse il suo contendente e alcuni ipotizzano che il gioco, fosse in realtà solo un pretesto dei contrabbandieri, pirati e corsari, per “ripulire” un carico conquistato in battaglia.In ogni caso, questa era, più o meno la storia del gioco della scopa, spero l’abbiate trovata interessante.

La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento di Paul Larivaille

Se quello che cerchi è un libro che stravolga completamente tutto ciò che sapevi o credevi di sapere sulla quotidianità delle cortigiane nel rinascimento italiano e ti aspetti un saggio in cui si parla di sesso e sessualità nelle signorie dell’italia del XV secolo, questo libro, non fa al caso tuo. La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento di Paul Larivaille è un saggio storico di carattere divulgativo che, come ogni buon saggio storico, si basa prevalentemente sull’analisi e la comparazione delle fonti, in questo caso soprattutto fonti letterarie e documentarie classiche, dipinge un quadro ampio e dettagliato, degli aspetti sociali nelle corti italiane del XV secolo, alternando l’analisi e il racconto della società, ad aspetti della vita di una cortigiana dell’epoca.

L’Italia rinascimentale

Tra il XIV e il XVI secolo l’Europa attraversa il proprio rinascimento, andando alla riscoperta delle proprie origini e del proprio passato e in questo contesto storico di rinascita e di rielaborazione della società, l’Italia non è da meno, anzi, la penisola italica è in questo momento storico, in un certo senso, il centro del mondo, l’Italia rappresenta l’apice della civiltà europea, occidentale, che di li a poco si sarebbe diffusa a macchia d’olio in tutto il mondo. Del rinascimento italiano, della vita e le gesta dei grandi protagonisti di quest’epoca conosciamo tantissimo, è uno di quei momenti, rari, nella storia, su cui si ha una quantità di informazioni enorme, ma il rinascimento italiano vive di luci ed ombre, posto in un limbo tra il vecchio e il nuovo mondo, tra il medioevo e l’età moderna.

I grandi protagonisti di quest’epoca sono uomini e donne ancora legati e vincolati alle dinamiche della società medievale, ma, sono uomini moderni, che vivono ben oltre i confini del proprio tempo ed hanno la capacità di guardare avanti.

La vita di questi uomini e donne si consuma soprattutto in lussuosi palazzi, tra ricevimenti e incontri d’affari, ma anche e soprattutto nelle camere da letto.

Le camere da letto in quest’epoca, sono le vere stanze dei bottoni, ciò che accade in quelle stanze, tra quelle lenzuola, definisce la sagoma della società europea, e di conseguenza, il mondo che ne sarebbe seguito.

Nel libro la vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del rinascimento, di Paul Larivaille, si affronta proprio questo tema, e si da ampio spazio a personaggi apparentemente secondari, quella della cortigiana è una figura antica ma che in quest’epoca assume tratti nuovi e particolari e, facendosi spazio tra i salotti delle grandi famiglie, riesce a giungere nel cuore delle corti europee, nelle stanze dei bottoni, le camere da letto di re, principi, banchieri e signori della guerra.

Non è raro quindi imbattersi in documenti che ci parlano degli amanti e delle amanti di re e regine, di principi e principesse. Ci troviamo in un epoca in cui il matrimonio è, all’atto pratico, un contratto d’affari, siglato per ottenere favori e amicizia dell’una o l’altra famiglia, siamo in un epoca in cui l’amor cortese è ormai un mero retaggio artistico, e spesso, molto spesso, nei matrimoni, la passione e l’attrazione tra i consorti è totalmente assente, e per porvi rimedio uomini e donne, si concedono in un tacito accordo segreto, ai piaceri della carne e protagonisti del saggio dello storico francese Paul Larivaille, sono proprio le cortigiane di quest’epoca e di questo mondo, sono le cortigiane dell’italia del rinascimento.

Chi è Paul Larivaille?

Prima di cominciare con la guida voglio aprire una parentesi sull’autore del saggio edito in Italia da Bur editore. Larivaille è uno storico della letteratura italiana, che ha insegnato in Francia, per oltre trent’anni, dal 1955 al 1988 presso l’università di Paris-Nanterres, ed è membro dell’accademémie francaise, per poi diventare, nel 1988 Preside dell’Università di Paris-Nanterres.

Si tratta di un autore di altissimo livello, legato per vie traverse alla scuola delle annales, fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre.

Da storico della letteratura italiana, in particolare della letteratura rinascimentale italiana, Larivaille è un grande conoscitore del rinascimento e dei suoi protagonisti, e negli anni ha lavorato a diverse opere biografiche dei protagonisti di quell’epoca, come ad esempio Pietro Aretino, di cui ha pubblicato una biografia nel 1997 e che ad oggi rappresenta una delle opere più ampie e complete sulla vita del poeta aretino del XV secolo. Nel 1995 Larivaille pubblica anche un saggio di carattere generale, sulla vita quotidiana tra XV e XVI secolo, intitolando l’opera “la vita quotidiana in Italia ai tempo di Machiavelli” e, in tempi più recenti, nel 2017, pubblica un saggio dedicato alla letteratura Machiavelliana.

Larivaille si conferma con le sue opere e studi, un esperto, di altissimo livello, di quella che era la vita nell’italia Rinascimentale, conosce quel mondo alla perfezione, ne conosce ogni aspetto, ogni emozione, ogni dinamica sociale, conosce le abitudini dei suoi protagonisti, e conosce la vita nelle corti di questi uomini, corti in cui le cortigiane giocavano, come anticipavo, un ruolo importantissimo, e di conseguenza, rappresenta un aspetto che certamente Larivaille ha avuto modo di studiare e approfondire negli anni.

La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento

Il saggio “La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento” in realtà precede tutti i saggi citati durante la parentesi biografica, viene pubblicato per la prima volta nel 1983, e molto probabilmente si tratta di un opera collaterale, nato dall’ampliamento di uno o più paragrafi di altri contenuti a cui stava lavorando.

Il saggio è ricco di riferimenti letterari, fonti, documenti e testimonianze di vario genere, come lettere e pagine di diario. Il saggio mostra fin da subito l’attenzione dell’autore per le fonti letterarie, suo campo di studio privilegiato, e nel racconto generale della quotidianità delle cortigiane dell’Italia rinascimentale, si sofferma sulla vita di una cortigiana in particolare.

La narrazione che ci viene proposta potrebbe ricordare a qualcuno la narrazione proposta da Carlo Ginzburg nell’opera Il formaggio e i Vermi, pubblicato per la prima volta nel 1980, appena tre anni prima dell’uscita della vita quotidiana delle cortigiane, e non è da escludere una certa influenza dell’autore italiano, già docente di storia ad Harvard, sul lavoro di Larivaille.

Il saggio di Ginzburg, di cui ho parlato in più occasioni e a cui ho dedicato una guida alla lettura, è stato all’epoca un modello vincente, che ha contribuito a rilanciare anche in europa il filone della microstoria, filone cui appartiene l’opera di Larivaille.

Il contenuto del saggio di Larivaille

Protagonista indiscussa delle vicende narrate nella vita quotidiana delle cortigiane, è Nanna, una giovane donna, la cui storia personale viene utilizzata da Larivaille per raccontare il mondo in cui la donna viveva, e trarre conclusioni sul carattere generale della vita delle cortigiane dell’epoca.

Nel saggio ci viene raccontata, attraverso diverse fonti, la scalata al successo della giovane donna, una cortigiana di umili origini, che grazie alle proprie doti, riesce ad ottenere in breve tempo, una casa propria, del mobilio, abiti eleganti e denaro.

Per ottenere ciò Nanna, e come lei, le cortigiane dell’epoca devono apprendere i trucchi e segreti, per essere accettate in un mondo che non gli appartiene, così da irrompere in una cerchia sociale diversa dalla propria. Larivaille ci espone quindi, attraverso la vita di Nanna, i trucchi di base delle cortigiane, per essere accettate nell’alta società, trucchi in alcuni casi banali e alla portata di tutti, come lo schiarire i capelli e renderli morbidi, profumati e lucenti, sfruttando olio e vino, o la cura del sorriso, sbiancando i denti con un tovagliolo, in un epoca in cui l’igiene dentale non era alla portata, ne negli interessi, di tutti.

La cura dell’aspetto è solo uno dei rituali quotidiani cui si sottopongono le cortigiane del rinascimento italiano, e rappresenta forse il primo e più semplice passo da compiere, Larivaille ci mostra in quest’opera la complessità di quel mondo, in cui l’estetica da sola, non era sufficiente.

Le cortigiane, osserva Larivaille, non dovevano solo attrarre, ma dovevano sedurre e stregare uomini di alto rango, e per farlo avevano necessità di apprendere altre e più complesse strategie, vediamo quindi come Nanna si ritrova quasi costretta ad imparare intere opere a memoria, così da poter affrontare conversazioni e impara a suonare il liuto, abilità molto apprezzata dagli uomini benestanti dell’epoca.

Quello della cortigiana ci viene mostrato come un mestiere, molto complicato e non alla portata di tutti, un mestiere costruito attorno alla sottile arte della seduzione e ben diverso dal mestiere della prostituta, in cui la sessualità giocava un ruolo centrale.

La vita quotidiana delle cortigiane ci mostra come queste donne non fossero delle comuni prostitute, ma rappresentavano qualcosa di più, e giocavano un ruolo determinante nella vita e nella società dell’epoca.

Lo status di cortigiana, a differenza dello status di prostituta, garantiva dei diritti e dei privilegi, e permetteva alle donne di essere viste e guardate con dignità e rispetto, soprattutto dagli uomini con cui si intrattenevano e sui quali avevano un influenza tale da essere considerate da Larivalle, il motore reale della società.

Il capriccio di una cortigiana, in quell’epoca, poteva mettere fine ad un alleanza o addirittura far muovere una guerra.

Conclusione

Il saggio sulla vita quotidiana delle cortigiane del rinascimento italiano è a mio avviso un opera straordinaria, che ho apprezzato quasi quanto il saggio di Ghinzburg, il Formaggio e i Vermi, uno dei miei saggi storici preferiti.

La semplicità della narrazione lo rende adatto a chiunque, e, nonostante sia un libro di qualche anno fa, parliamo comunque di un libro che ha quasi quarant’anni, non sembra essere invecchiato. Probabilmente perché racconta un mondo poco studiato negli anni successivi.

Il saggio si sviluppa seguendo la narrazione di una storia in particolare, la storia di Nanna, ma arricchisce il racconto con una ricca e accurata analisi della società, e, almeno nell’edizione che ho letto io, prima dell’introduzione, è presentata una ricca cronologia del rinascimento italiano, utile a collocare nel tempo e fornire il giusto contesto alla narrazione, anche per chi non è addetto ai lavori.

Se devo trovare un difetto in questo saggio, non è facile, personalmente ne ho trovati pochissimi, ma, volendo fare uno sforzo e ostinarmi ad indicare un difetto, forse, indicherei l’elevata presenza di fonti letterarie, rispetto ad altro tipo di fonti documentarie, vengono citati e analizzati molti poemi e relativamente poche lettere. Non si tratta di un vero difetto, anzi, si tratta in questo caso di una scelta quasi obbligata, poiché la vita delle cortigiane non è oggetto di interesse per gli storici e i cronisti dell’epoca, ma trova, tuttavia, ampio spazio, nel mondo artistico che guarda alla vita amorosa e sentimentale.

Non troveremo quindi un estratto di Machiavelli in cui si parla di cortigiane, ma troveremo componimenti poetici in cui si esalta la figura della cortigiana sposata dal signore e diventata una nobil donna, madre degli eredi della signoria.

Se devo trovare un pregio in questo saggio, probabilmente è ancora più difficile del trovare un difetto, non perché non ve ne siano, ma perché ce ne sono tantissimi. Dalla semplicità con cui è scritto e l’immediatezza con cui i concetti vengono esposti, all’ampiezza del tema trattato e la profondità con cui viene analizzata l’intera società, partendo dalla vita delle cortigiane.

Dovendo scegliere un unico pregio, probabilmente mi soffermerei sull’attenzione posta dall’autore sul ruolo delle cortigiane nella società dell’Italia rinascimentale, un ruolo apparentemente marginale, e pure, un ruolo determinante.

Il saggio incarna il concetto di microstoria e della scuola delle annales, raccontando la storia delle classi subalterne, in questo caso delle cortigiane, che vivono e dimorano all’ombra delle signorie, apparentemente invisibili, ma all’atto pratico, come emerge da questo saggio, detengono un potere enorme, ed è il potere di poter influenzare le decisioni di quei pochi personaggi nella storia che hanno il potere di imprimere una direzione al mondo.

Non c’è quindi molto da aggiungere, vi consiglio la lettura di questo libro, personalmente l’ho trovato meraviglioso, ben fatto ed estremamente interessante, e spero di avervi dato abbastanza materiale in questa guida, da potervi aiutare nella lettura del saggio.

Trump dichiara ANTIFA un organizzazione terroristica, da non confondere con l’Antifascismo.

Washington DC erano le 18:23, (ora italiana) quando il presidente della prima democrazia al mondo, ha dichiarato che “Gli Stati Uniti d’America designeranno ANTIFA come organizzazione terroristica”, un tweet di Donald Trump che non lascia molto spazio all’immaginazione, ma che può può facilmente essere frainteso.

The United States of America will be designating ANTIFA as a Terrorist Organization.
-Donald Trump, 31 Maggio 2020…

Washington DC erano le 18:23, (ora italiana) quando il presidente della prima democrazia al mondo, ha dichiarato che “Gli Stati Uniti d’America designeranno ANTIFA come organizzazione terroristica”, un tweet di Donald Trump che non lascia molto spazio all’immaginazione, ma che può può facilmente essere frainteso.

Chiariamo una cosa quindi, Trump, non ha detto che gli USA tratteranno l’antifascismo come un organizzazione terroristica, ma ha ha scritto che gli USA tratteranno ANTIFA come un organizzazione terroristica.

Può sembrare la stessa cosa, ma non è assolutamente così, ANTIFA sta all’antifascismo come Al Qaeda sta all’Islam o come il KKK stava alla chiesa cattolica, sono cose diverse, sono cose diverse, la prima, ANTIFA, è una rete spontanea, la seconda, l’antifascismo, un Ideologia, e in quella rete spontanea, ci sono dei terroristi che, già in passato hanno compiuto attentati, così come ci sono persone con un ideale.

In ogni caso, Trump, non ha reso e non intende rendere l’antifascismo illegale, o considerare gli antifascisti dei terroristi, i soli che verranno considerati terroristi saranno coloro che, in nome dell’antifascismo, piazzeranno progetteranno o compiranno attentati.

Cerchiamo allora di mettere un po’ di ordine e capire cosa volesse dire Trump con quelle parole e perché le ha dette.

Che cos’è ANTIFA?

Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi, cos’è ANTIFA? e la risposta più semplice è che ANTIFA, abbreviazione di anti fascist action o meglio si tratta di un movimento politico, apartitico, che quindi non si identifica in nessun partito politico, generalmente associata a valori di sinistra o anarchici, anche se tra padri del movimento vi erano numerosi uomini appartenenti anche e soprattutto ad altri ambienti politici, come la destra liberale.

L’intento di ANTIFA questo movimento di ispirazione antifascista è fondamentalmente uno, impedire, denunciare e opporsi alla nascita di movimenti di estrema destra di ispirazione fascista, che, al di la del nome del partito politico italiano degli anni venti, identifica una ben precisa ideologia politica di estrema destra sovranista e conservatrice che presenta al proprio interno alcuni elementi di socialismo nazionalista.

ANTIFA e Antifascismo

ANTIFA è un organizzazione di matrice antifascista, che quindi si ispira al manifesto politico dell’antifascismo scritto in italia nel 1925, redatto da Benedetto Croce e firmato, tra gli altri, da uomini del calibro di Giovanni Gentile.

Tuttavia, tra l’ispirazione antifascista e ciò che ANTIFA è effettivamente, c’è un intero mondo. Insomma, ANTIFA non è l’antifascismo, così come il partito comunista dell’unione sovietica non è il comunismo. All’atto pratico ANTIFA è un organizzazione spontanea, un collettivo, riconosciuto ufficialmente in alcuni paesi, come gli USA, ma che non ha un proprio organico o una propria sede ufficiale e in particolare, negli USA, già dal 2017, ANTIFA è sotto l’attenzione di diverse agenzie federali.

ANTIFA negli USA

Negli USA il movimento ANTIFA ha tratti molto radicali, e vede tra i propri militanti numerosi simpatizzanti dell’estrema sinistra ed anarchici, uomini e donne mossi da precise idee politiche antifasciste, anticapitaliste e anticlassiste che, non trovano spazio nella politica ufficiale fortemente centrista incarnata dai due grandi partiti Democratico e Repubblicano.

Negli ultimi anni, in particolare dall’elezione di Donald Trump, il movimento ANTIFA negli USA ha denunciato uno slittamento della politica nazionale, soprattutto negli ambienti repubblicani, verso l’estrema destra, slittamento incarnato dal trionfo del sovranismo di Trump e una politica federale ed estera sempre più protezionista e aggressiva. Questo spostamento ha fatto si che il movimento di ispirazione antifascista aumentasse la propria attività e il proprio attivismo, organizzando numerose manifestazioni, e in alcuni casi ricorrendo ad azioni violente, che hanno attirato l’attenzione delle agenzie federali per la sicurezza interna, in particolare l’FBI.

All’apice dei disordini partiti da Minneapolis dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, causata da un agente di polizia, il movimento ANTIFA di Minneapolis, già noto ai federali per il proprio temperamento, si è reso protagonista delle manifestazioni, e degli scontri con le forze dell’ordine, provocando, tra le altre cose, atti vandalici e criminali, il tutto elevando una dialettica per cui la violenza della polizia contro le rappresaglie succedute all’omicidio di George Floyd, venivano associate al fascismo.

My 2 Cent

Ho voluto riassumere eventi e concetti così da gettare le basi per quelle che saranno le mie personali conclusioni.

Appena ho letto la notizia ho subito pensato “ok, Trump ha reso illegale l’antifascismo negli USA” in realtà non è proprio così, ANTIFA e Antifascismo, come specificato, sono cose diverse, anche se, spesso associate impropriamente, per intenderci, ANTIFA sta all’Antifascismo come Al Qaeda sta all’Islam e in teoria, condannare ANTIFA non significa condannare l’Antifascismo.

In teoria, all’atto pratico ANTIFA è percepito come l’incarnazione stessa dell’antifascismo e dunque, dichiarare ANTIFA un organizzazione terroristica, significa puntare il dito contro l’antifascismo in generale. Questo non significherà che chiunque si dichiarerà antifascista negli USA verrà arrestato e portato in prigioni come Guantanamo, o che si ricorrerà al Patrioct ACT per arrestare antifascisti e organizzazioni antifasciste nel paese, del resto, negli USA non si viene arrestati perché islamici, ma, e c’è un enorme ma, se a livello giuridico ANTIFA e Antifascismo sono cose separate, per l’opinione pubblica non è così, per l’opinione pubblica ANTIFA è l’Antifascismo, e questo è un grosso problema.

Apro una parentesi sul patrioct act, per chi non sapesse di cosa si tratta, è una legge speciale varata dopo l'11 settembre 2001 che attribuisce alle forze dell'ordine poteri speciali in caso di terrorismo o minacce alla sicurezza nazionale, e per poteri speciali si intende che i sospettati possono essere interrogati senza un avvocato, possono essere arrestati senza mandato, possono essere trattenuti in cella per più di 24 ore, inoltre, le forze dell'ordine non hanno limiti nell'uso della forza. 

Parlando di problemi, forse per i Democratici statunitensi è una fortuna che Bernie Sanders abbia scelto di ritirarsi dalla corsa alle presidenziali, poiché da giovane e ha lo ha ribadito di recente, Sanders si è dichiarato Antifascista, e vista l’impropria associazione tra ANTIFA e antifascismo… ma questa è un altra storia.

Parlando dell’impatto di queste dichiarazioni sull’opinione pubblica, in un momento di grande tensione come questo, in cui ANTIFA si è reso protagonista degli scontri con la polizia a Minneapolis, e numerosi movimenti antifascisti stanno guidando manifestazioni, pacifiche e non, il rischio che queste manifestazioni d’ora in avanti assumano tratti più violenti, non è da escludersi.

Cito i fatti di Minneapolis perché c’è una connessione diretta tra le cose, qualcuno potrebbe pensare che è curioso che, questa dichiarazione di Trump, cada proprio in questo momento, ma la verità è che non è un caso, guardiamo allora al quadro generale.

Mentre il popolo USA protesta contro gli abusi delle forze dell’ordine e della polizia e i manifestanti definiscono Fascisti i poliziotti USA e la polizia reprime le manifestazioni in USA quasi peggio di quanto la non stia facendo la polizia Cinese ad Hong Kong, il presidente Trump, amico dei Sovranisti dichiari di voler trattare ANTIFA come un organizzazione terroristica.

La realtà è che questa dichiarazione, all’atto pratico, non significa nulla, ci sono collettivi ANTIFA negli USA che già ora sono monitorati dall’FBI sospettati di essere terroristi e sovversivi, così come ci sono associazioni di supremachisti bianchi sotto la lente dell’FBI, ma ci sono anche collettivi ANTIFA in cui militano poliziotti, figli di poliziotti, nipoti di militari veterani della seconda guerra mondiale che il fascismo, quello vero, lo hanno combattuto.

Ciò che credo accadrà in seguito a queste dichiarazioni, ha un carattere soprattutto politico, non necessariamente negativo, ma certamente non positivo. Molto probabilmente seguiranno distorte dichiarazioni da parte di politici statunitensi e stranieri, che fingendo di non capire la differenza tra ANTIFA e Antifascismo, punteranno il dito contro l’antifascismo, e questo lo vedo molto probabile soprattutto in paesi come l’Italia. Credo ci sarà maggiore disordine sociale e credo che le manifestazioni negli USA si inaspriranno, soprattutto da parte della polizia.

Per quanto riguarda ANITFA in generale, se i suoi militanti piazzano bombe carta, distruggono e saccheggiano negozi e assaltano centrali della polizia, non serve che il presidente li dichiari pubblicamente terroristici, perché neanche negli USA il presidente è il giudice supremo dello stato, chi commette dei crimini deve essere arrestato e giudicato di fronte alla legge, e nel rispetto della legge. Non dovrebbero esistere eccezioni, o distinzioni, come le eccezioni per i terroristi o presunti tali, ne dovrebbero essere fatti dei distinguo tra le varie organizzazioni criminali di estremisti religiosi o politici.

Con questo cosa voglio dire?

Voglio dire che se un uomo, bianco, entra in una moschea e urla “make america great again” prima di aprire il fuoco e fare una strage, non può essere trattato diversamente da un uomo, di colore, che entra in una chiesa e urla “allah akbar” prima di aprire il fuoco e fare una strage, purtroppo però, queste differenze, soprattutto negli USA ci sono, il colore della pelle o l’orientamento politico, fanno la differenza tra un attentato terroristico e il gesto di un folle.

Conclusioni

In conclusione Trump non ha reso illegale l’antifascismo, ne ha dichiarato di voler rendere illegale l’antifascismo, il dito di Trump è puntato contro un organizzazione, che già ora, e da diversi anni, è sotto l’occhio delle agenzie federali, e che ha compiuto diversi attentati terroristici. ANTIFA non è un organizzazione terroristica, e Trump non ha il potere di trasformare arbitrariamente un movimento politico in un organizzazione terroristica.

Tra l’altro, la propaganda statunitense durante la seconda guerra mondiale, era di matrice antifascista, la missione degli USA era quella di liberare l’europa dal fascismo e dal nazismo, dichiarare illegale l’Antifascismo, significherebbe screditare gli eroi americani che hanno combattuto e sono caduti durante la seconda guerra mondiale e legittimare il nome di Hitler e Mussolini.

Persino Trump, nella sua follia, sa perfettamente che una cosa del genere, probabilmente gli costerebbe una condanna per tradimento.

La vita quotidiana alla fine del mondo antico di G.Ravegnani

La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è un saggio storico che racconta in modo semplice, chiaro e appassionante, la vita quotidiana in quell’epoca turbolenta compresa tra il IV e il VI secolo dopo cristo

Se quello che cerchi è un libro che stravolga completamente tutto ciò che sapevi o credevi di sapere sulla quotidianità negli ultimi secoli dell’impero romano, questo libro, non fa al caso tuo. La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è un saggio storico di carattere divulgativo che, come ogni buon saggio storico, si basa prevalentemente sull’analisi e la comparazione delle fonti classiche, e dipinge un quadro ampio e dettagliato, degli aspetti sociali alla fine del mondo antico, alternando classici della letteratura latina a documenti e atti giuridici.

Il libro

La vita quotidiana alla fine del mondo antico racconta la società e i suoi cambiamenti tra il IV e il VI, cambiamenti che sono legati in parte all’affermazione del cristianesimo nei territori dell’impero romano o ex impero romano, in parte alla divisione definitiva dell’impero tra orientale e occidentale, e la conseguente nascita di una nuova Roma orientale sul Bosforo, Costantinopoli, capitale dell’impero orientale che per la prima volta nella storia romana è pari di Roma, e in parte per la caduta dell’impero romano d’Occidente, che sarebbe stato travolto nei secoli a venire da numerosi invasioni barbariche.

Tutte queste trasformazioni, tutti questi cambiamenti turbolenti, a tratti improvvisi e brutali, hanno impattato sulla società e sulla vita quotidiana dell’epoca, e il libro cerca proprio di capire come e quanto questi avvenimenti hanno contribuito a trasformare la vita quotidiana alla fine del mondo antico.

Questione storiografica

Sapere come vivevano gli antichi è sempre interessante, la storia, ci dice Marc Bloch e la scuola degli annales è anche (e soprattutto) storia di vite quotidiane, e contrariamente a quello che si è pensato per lunghissimo tempo, “le masse popolari” non hanno fatto irruzione nella storia soltanto negli ultimi secoli, ma sono sempre stati parte integrante della storia, per alcuni autori esse rappresentano addirittura il reale motore invisibile della storia, motivo, quest’ultimo che ha portato numerosi storici a rivalutare e dare più spazio e attenzione alla storia delle classi subalterne, preferendo questi aspetti ed equilibri, alla storia dei grandi avvenimenti. Carlo Ginzburg con il suo Il Formaggio e i vermi è un esempio eccellente di questo modo di vedere la storia, così come lo sono gli innumerevoli studi di genere o studi su popoli subalterni o uomini e donne in condizioni subalterne, come ad esempio gli schiavi, le donne, gli omosessuali, gli stranieri in una determinata civiltà, ecc ecc ecc.

In questo immenso ed estremamente affascinante filone storiografico si colloca il saggio di Giorgio Ravegnani, il quale, decide di puntare la propria lente su un determinato momento storico, la fine del mondo antico, gli ultimi anni dell’impero romano e i primi anni dei regni romano barbarici.

Il contesto storico

La vita quotidiana alla fine del mondo antico racconta una forbice temporale estremamente ristretta, ovvero i secoli compresi tra il IV ed il VI secolo dopo cristo, sono gli anni che accompagnano il declino di roma, e che attraverso la crisi politica, militare e sociale che sussegue alla caduta dell’impero romano d’occidente, innescano una serie di trasformazioni radicali nella società.

Il mondo cambia di continuo, la storia è storia di continuo mutamento, ma, in alcuni momenti il cambiamento è più veloce e imprevedibile, ed il periodo individuato da Ravegnani è uno dei periodi di maggiore trasformazione del mondo e della società.

Cambiano i rapporti di forza, gli equilibri sociali, cambiano le dinamiche sociali e la stessa società nel mediterraneo occidentale. Nel mediterraneo orientale la presenza dell’impero romano d’oriente o impero bizantino, garantisce una certa stabilità, le trasformazioni sono relativamente poche o comunque, più contenute rispetto alle trasformazioni che avvengono in Italia e nell’intera Europa occidentale.

La grande frammentazione dell’ormai ex impero romano, porta alla nascita dei regni romano barbarici, realtà politiche in cui le dinamiche della società romana, si intrecciano con le dinamiche politiche e sociali dei nuovi dominatori barbarici, e le diverse culture che, in varie zone d’europa, prenderanno il potere, contribuiranno a gettare le basi per la nascita di quelli che in seguito sarebbero diventati gli stati di Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Italia, ecc ecc ecc.

Quello che è il mondo oggi, le differenze e le rivalità tra i vari popoli e le varie culture europee, hanno origine in quel momento, e pure, sul piano politico, le differenze, osserva Ravegnani, sembrano essere minime. Dai regni romano barbarici nasce la società feudale, sistema sociale che avrebbe governato l’europa per oltre mille anni, ed è un sistema comune a popoli franchi, ispanici, germanici e italici.

Osservando però, più nel dettaglio le singole società, puntando la lente sulla quotidianità degli uomini comuni, si possono notare le prime differenze, differenze che vanno dalla lingua parlata, sempre più lontana dal latino, all’alimentazione, che per ovvie ragioni, è in quel momento subordinata alle possibilità offerte dalla terra.

Geografia e lingua influenzano e definiscono le abitudini alimentari e culturali e queste tracciano il profilo delle diverse società.

La vita quotidiana

La vita quotidiana molto spesso la immaginiamo in tanti modi differenti. In realtà la quotidianità nei secoli non è mutata poi troppo, ci sono state ovviamente delle trasformazioni più o meno significative, ed è evidente che la vita quotidiana nel I secolo a.c, durante le guerre civili di Roma, era profondamente diversa dalla vita quotidiana alla fine del mondo antico, così come la vita quotidiana alla fine del mondo antico era profondamente diversa dalla vita rinascimentale o dell’età moderna.

Con questo libro, Giorgio Ravegnani ci mostra che ogni epoca ha la propria storia quotidiana, ogni luogo, ogni tempo, hanno la propria realtà ordinaria, ma allo stesso tempo, nonostante le differenze, molti elementi sono ricorrenti. E se osserviamo la quotidianità alla fine del mondo antico, riducendola ai minimi termini, epurandola quindi delle condizioni economiche e tecnologiche della società dell’epoca, possiamo osservare che il mondo non era poi così diverso da come è oggi.

Le fonti

Raccontare la vita quotidiana non è semplice, principalmente per una certa carenza di fonti dirette. Non ci sono molti autori classici che hanno raccontato e descritto nel dettaglio come funzionava, ad esempio un mercato, ma qualcosa lo abbiamo. Plinio il Vecchio ad esempio, nella sua Naturalis historia ha raccontato nel dettaglio il funzionamento della villa romana e di tutti i suoi equilibri interni, compresi i rapporti familiari e tra padrone, schiavi e dipendenti. Ma il racconto di Plinio sulla domus romana non è sufficiente, da solo, a tracciare un quadro completo e generale, della vita quotidiana nel mondo antico, e di certo, non ci da molte informazioni sul periodo compreso tra IV e VI secolo.

Queste informazioni fondamentali per l’opera, Ravegnani è riuscito a recuperarle grazie ad uno scrupoloso e meticoloso lavoro di ricerca di fonti giuridiche, fiscali e atti notarili, ma anche lettere, registri mercantili e diari. Grazie alle fonti giuridiche che costituiscono il costituiscono il corpo centrale dell’apparato monumentale delle fonti alla base della sua opera, Ravegnani è riuscito a ricostruire in modo abbastanza ampio e completo le dinamiche ed i rapporti economici e sociali, delle varie classi sociali alla fine del mondo antico tra IV e VI secolo. Conoscendo questi rapporti, e grazie anche ai racconti di anonimi e cronisti che nei loro aneddoti hanno descritto eventi alti, e intrecciando il tutto, è stato possibile per lo storico milanese, ricostruire in modo sorprendentemente accurato la vita quotidiana nel mondo antico.

Chi è Giorgio Ravegnani

Per capire a fondo l’opera di Ravegnani e la complessità del sui lavoro, credo sia opportuno aprire una breve parentesi sullo storico.

Giorgio Ravegnani è uno storico italiano, nato a milano nel 1948 , laureato in lettere classiche nel 1972. La sua carriera da docente è iniziata nel 1979, in concomitanza con l’apertura del corso di laurea in storia all‘Università Ca’ Foscari, di cui è diventato docente di Storia Bizantina. Prima della docenza Ravegnani ha svolto attività di ricerca presso l’università di bologna.

Oltre alla cattedra di Storia Bizantina, Ravegnani ha insegnato anche Storia medievale, Storia dell’Italia bizantina e Storia militare del Medioevo.

Vi lascio di seguito un elenco delle sue pubblicazioni fin dal 1976.

Il saggio la vita quotidiana alla fine del mondo antico è stato elaborato tra 2014 e 2015 e pubblicato nel 2015, ed è interessante notare come questo testo sia preceduto da testi come, Gli esarchi d’Italia, Aracne editrice, Roma 2011, un saggio che analizza nel dettaglio e in ogni suo aspetto l’esarcato bizantino in italia, ovvero i territori italici controllati direttamente dall’impero bizantino in quell’epoca a metà tra età antica e medievale, e La caduta dell’impero romano, Il Mulino, Bologna, 2012, un saggio osserva la società italica al tramonto di Roma, inoltre, il primo saggio successivo alla vita quotidiana è l’opera biografica Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Salerno, Roma, 2016, che racconta ed intreccia, la vita quotidiana di una cortigiana e le dinamiche politiche al vertice della società bizantina.

Quasi certamente il saggio sulla vita quotidiana alla fine del mondo antico ha enormemente beneficiato delle ricerche e degli studi effettuati precedentemente, e allo stesso tempo, ha gettato le basi per la più dettagliata e specifica opera su Teodora.

Possiamo inoltre osservare, leggendo l’intera bibliografia di Ravegnani, che, fatta eccezione per pochissime opere, tra cui anche La vita quotidiana alla fine del mondo antico, la quasi totalità dei suoi scritti ruota attorno a due elementi chiave, ovvero Bisanzio e Venezia. In realtà anche il saggio sulla vita quotidiana è fortemente legato al tema di Bisanzio, tema sul quale Ravegnani è indubbiamente un esperto, in quanto ha dedicato allo studio della storia bizantina, gran parte della propria vita.

Le opere di Giorgio Ravegnani

  • Le biblioteche del Monastero di San Giorgio Maggiore, L. S. Olschki, Firenze 1976
  • Castelli e città fortificate nel VI secolo, Edizioni del girasole, Ravenna 1983
  • La corte di Bisanzio, Essegi, Ravenna 1984; Jouvence, Roma 1989
  • Soldati di Bisanzio in età giustinianea, Jouvence, Roma 1988
  • La corte di Giustiniano, Roma, Jouvence, 1989.
  • Giustiniano, Giunti & Lisciani, Teramo 1993
  • I trattati con Bisanzio 992-1285, (2 voll. con Marco Pozza), Il cardo, Venezia 1993-1996
  • I bizantini e la guerra. L’età di Giustiniano, Jouvence, Roma 2004, 2015
  • La storia di Bisanzio, Jouvence, Roma 2004
  • I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, 2019
  • Bisanzio e Venezia, Il Mulino, Bologna 2006 ISBN 978-88-15-10926-2
  • Introduzione alla storia bizantina, Il Mulino, Bologna 2006 (nuova ed. 2008)
  • Imperatori di Bisanzio, Il Mulino, Bologna 2008
  • Soldati e guerre a Bisanzio. Il secolo di Giustiniano, Il Mulino, Bologna 2009
  • Bisanzio e le crociate, Il Mulino, Bologna 2011
  • Gli esarchi d’Italia, Aracne editrice, Roma 2011
  • La caduta dell’impero romano, Il Mulino, Bologna, 2012
  • Il doge di Venezia, Il Mulino, Bologna, 2013
  • La vita quotidiana alla fine del mondo antico, Il Mulino, Bologna, 2015
  • Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Salerno, Roma, 2016
  • Andare per l’Italia bizantina, Il Mulino, Bologna, 2016
  • G. Ravegnani-Dedo di Francesco, Eleonora d’Aquitania e il suo tempo, Robin, 2017.
  • Il traditore di Venezia. Vita di Marino Falier doge, Laterza, Roma-Bari, 2017
  • Galla Placidia, Il Mulino, Bologna, 2017
  • Medioevo (quasi) inconsueto, Robin, 2017.
  • Donne d’arte, d’intrighi e di guerre. Storie di donne che hanno segnato al storia, Robin, 2018.
  • Ezio. L’ultimo dei Romani, il generale che sconfisse Attila prima della caduta dell’Impero, Roma, Salerno, 2019
  • Bisanzio e l’Occidente medievale, Bologna, Il Mulino, 2019
  • L’età di Giustiniano, Roma, Carocci, 2019

Conclusioni

Veniamo quindi alle conclusioni finali su questo libro. Personalmente l’ho apprezzato molto la vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani. Uno dei motivi del mio apprezzamento è il linguaggio, molto scorrevole e leggero, a differenza di Ravegnani non sono un esperto di storia bizantina, anzi, probabilmente il periodo dei regni romano barbarici e la storia bizantina sono ciò che conosco meno in assoluto, si tratta di un mondo che mi ha sempre comunicato e appassionato poco, e pure, questo libro sono riuscito a leggerlo in modo estremamente scorrevole, e non ho avuto alcun tipo di difficoltà durante la lettura. Tutti i concetti sono esposti in modo chiaro, puntuale e completo, nulla è lasciato al caso, nulla è dato per scontato. Questo è certamente dovuto alla natura dell’opera, concepita non per un pubblico di soli addetti ai lavori, ma anzi, costruito per catturare l’interesse e l’attenzione, anche, e soprattutto, di lettori occasionali, curiosi e appassionati di storia.

La vita quotidiana alla fine del mondo antico si rivolge ad un pubblico molto ampio, e variegato, e di conseguenza il testo risulta estremamente coinvolgente, e avvincente, permettendo quasi al lettore di mettersi nei panni di un uomo o una donna del tardo antico, grazie anche e soprattutto alla presenza di numerosi aneddoti e storie di vita quotidiana, di cui l’opera è ricca.

Il libro la vita quotidiana alla fine del mondo antico va preso per ciò che è un saggio storico di carattere divulgativo e va letto per ciò che è, non è un saggio di approfondimento, non è un saggio di ricerca, non promette rivoluzionarie scoperte, al contrario, promette al lettore un viaggio nella vita quotidiana tra il IV e il VI secolo, un epoca certamente turbolenta e movimentata, e la turbolenza di quel mondo emerge in ogni immagine, in ogni storia, in ogni dinamica sociale, in ogni tratto della vita quotidiana degli uomini e delle donne di quel tempo. Si tratta di un saggio divulgativo e a mio avviso Ravegnani riesce perfettamente nell’impresa di fare una buona narrazione storica, senza mai annoiare, ma anzi, mantenendo viva l’attenzione del lettore attraverso storie e scene di vita quotidiana sul finire del mondo antico. Il titolo di quest’opera ci dice già tutto ciò che bisogna sapere sull’opera in se, ci dice di cosa parlerà, ci dice qual è l’intento dell’autore, ci prende per mano e ci accompagna in quel viaggio di poco più di 200 pagine.

Ogni epoca ha la sua storia quotidiana, ogni luogo, ogni tempo, hanno la propria realtà ordinaria, e dei tanti libri sul tema, La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è forse uno dei pochi che abbia letto con piacere, oltre che con interesse, ed è il piacere che mi ha donato questa lettura il motivo per cui non ho dubbi sul consigliare questo libro.

La Caduta di Cartagine secondo Polibio, Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine durante la terza guerra punica, raccontata da Polibio Diodoro e Appiano

La Caduta di Cartagine è l’atto finale delle guerre puniche uno scontro tra civiltà che per portata potremmo associare alle guerre mondiali del XX secolo, e sul piano simbolico potremmo considerare al pari della guerra fredda. In questo parallelo, la caduta di Cartagine è paragonabile alla fine dell’Unione Sovietica, un passaggio che, negli anni novanta, alcuni audaci ipotizzarono essere il segnale della fine della storia. Anche al tempo della caduta di Cartagine (e nei decenni successivi) qualcuno pensò alla fine della storia.

Caduta Cartagine al mondo rimaneva solo Roma, un unica potenza mondiale, circondata da tribù barbariche, per gli uomini dell’epoca Roma era consacrata all’eternità, e avrebbe dominato il mondo per l’eternità, ma nei suoi scritti Polibio racconta di una visione di Scipione Emiliano, il condottiero che aveva sconfitto Cartagine.Scipione, nel racconto di Polibio, viene mostrato in lacrime di fronte alle macerie di Cartagine, queste lacrime sono dettate dall’idea che come Cartagine, non troppo tempo prima la più grande potenza mondiale nell’antichità, anche Roma, prima o poi, avrebbe conosciuto il proprio Declino.

L’idea che Roma, la padrona indiscussa del mondo potesse capitolare nel II secolo a.c. appare anacronistica, e autori come Diodoro (I secolo a.c.) e Appiano (II secolo d.c.) pensano di non riportare questi dubbi che, dopo la battaglia, assalirono la mente di Scipione Emiliano, ma noi oggi sappiamo, che nessuna civiltà dura per sempre, che persino l’ineluttabile Roma, può cader, come già era successo a Cartagine, alla civiltà Greca, quella Persiana, e quella Fenicia, Sumera, Egizia, ecc ecc prima di Roma, e come sarebbe successo all’impero bizantino, gli imperi islamici, quello Ottomano, il regno di spagna, di francia, l’impero britannico, il sacro romano impero germanico, ecc ecc ecc…

Polibio a modo suo lo aveva intuito, forse perché da uomo greco ostaggio a roma che assiste alla caduta di Cartagine, aveva un punto di vista differente da quello dei propri contemporanei, o forse è stato solo un caso.In questo post parliamo di Polibio, Diodoro e Appiano e del loro racconto della capitolazione di Cartagine.

Quando Cartagine capitola il suo declino era in vero iniziato ormai da molto tempo, in parte alimentato dalle numerose sconfitte subite nel corso della prima e seconda guerra punica, ma è solo nella terza guerra punica che, nel 146 a.c si sarebbe conclusa per sempre e in maniera definitiva, quella guerra combattuta a più riprese fin dal 264 a.c.

Se vuoi approfondire la storia cartaginese ti rimando a questo articolo riassuntivo della storia di Cartagine

Ma le guerre puniche non sono solo uno scontro di civiltà, dettato dalla rivalità e dalle ambizioni politiche delle due più grandi potenze del mediterraneo dell’epoca, sono anche espressione di una più intima rivalità tra due famiglie di alto lignaggio, la famiglia Barca, una delle due case reali cartaginesi, di cui facevano parte Annibale Barca e suo fratello maggiore Asdrubale Barca, entrambi figli di Amilcare Barca, e dall’altra parte, per Roma, la gens Cornelia, antica famiglia romana cui apparteneva Publio Cornelio Scipione Africano, detto Scipione l’Africano, padre adottivo di Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto Africano Minore, figlio naturale di Lucio Emilio Paolo Macedonico.

Noi oggi conosciamo le vicende della terza guerra punica, e della conseguente caduta di Cartagine, grazie soprattutto al racconto di tre autori greco romani, questi sono Polibio, Diodoro e Appiano.

Il racconto che questi tre autori fanno presenta alcune differenze, dovute prevalentemente alle posizioni politiche degli stessi, e al momento in cui scrissero, è molto probabile tuttavia che oltre questi tre autori ve ne siano molti altri, che per ragioni differenti non sono giunti fino a noi.

Voglio quindi parlare in questo post degli autori, che ci hanno raccontato la caduta di Cartagine, e la prima cosa che voglio portare all’attenzione è il momento storico in cui Polibio, Diodoro e Appiano scrissero della caduta di Cartagine.

Polibio

Polibio era uno storico greco, ostaggio a durante la terza guerra punica, cui era stata affidata, da Scipione l’Africano, l’educazione del suo figlio adottivo l’Africano Minore, colui che avrebbe condotto Roma alla vittoria finale su cartagine.

Polibio è nato in Grecia presumibilmente nel 206 a.c. e nel 166 a.c. fu uno dei 1000 nobili greci inviati come ostaggio a Roma. Polibio, tra i tanti nobili greci, aveva attirato l’attenzione dei romani già prima della vittoria romana, conseguita dal console Lucio Emilio Paolo nella battaglia di Pidna del 168, per le posizioni neutrali del proprio Partito.

Inviato a Roma come ostaggio rimase nella futura capitale imperiale per circa 17 anni, e immediatamente si legò alla gens Cornelia, diventando precettore di Publio Cornelio Scipione Emiliano, con cui, lo storico strinse un legame di amicizia che sarebbe perdurato per molti anni.

L’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, lo coinvolse direttamente nelle vicende della terza guerra punica, poiché il comando dell’esercito romano era affidato al suo allievo, e sembra che lo stesso Polibio fosse al fianco di Scipione durante l’assedio finale e i due camminarono insieme tra i resti della città dopo la sua capitolazione.

Diodoro

Diodoro, come anche Polibio, non è propriamente uno storico romano, e nelle sue opere autobiografico si riferisce a se stesso come ad uno storico greco, anche se nato in Sicilia, ad Agyrion, odierna Agiria in provincia di Enna, una città fortemente influenzata e per lungo tempo direttamente controllata, dalle polis greche e successivamente sotto l’influenza cartaginese.

Diodoro è nato presumibilmente nel 90 a.c. molti anni dopo la caduta finale di Cartagine e più di un secolo dopo la fine della prima guerra punica, durante la quale, l’intera Sicilia era passata sotto il controllo Romano.

Anche se cresciuto in Sicilia e sotto il controllo di Roma, Diodoro considera se stesso un uomo Greco, ed è oggi considerato da molti storici come uno dei maggiori annalisti e storici romani, oltre che un fine e meticoloso filologo ante litteram.

Le sue posizioni politiche sembrano essere di estrema neutralità, non particolarmente accomodante o critico nei confronti di Roma e dell’imperialismo romano, e, nel proemio della propria opera magna, la colossale Bibliotheca Historica, composta originariamente da circa 40 libri, di cui a noi sono pervenuti integralmente soltanto i primi cinque, Diodoro presenta quest’ultima come un storia universale, dalle origini del mondo alle campagne di cesare, raccontando quindi tutto ciò che è stato prima di lui e terminando il racconto, per ragioni pratiche, agli anni della propria vita.

Nel suo racconto Diodoro si avvale di innumerevoli fonti, tra cui numerosi altri autori, cronisti e annalisti, da Ecateo di Mileto a Polibio, da Eforo a Posidonio, ecc.

È molto probabile che, gran parte del racconto fatto da Diodoro in merito alla terza guerra punica, parta in larga parte dagli scritti di Polibio, ma, essendoci delle divergenze, è quasi certo che abbia consultato anche altri autori di cui noi oggi non abbiamo traccia, probabilmente abrasi e sovrascritti dai copisti medievali

Appiano

Appiano, come Diodoro non è testimone diretto della terza guerra punica, egli infatti visse nel secondo secolo dopo cristo, in piena età imperiale sotto il regno di Traiano, Adriano e Antonino Pio.

Appiano è nato ad Alessandria d’Egitto, presumibilmente nel 95 dopo cristo, e si ipotizza che abbia trascorso i primi venticinque anni della propria vita nella città che ospitava una delle più grandi biblioteche del mondo antico, la biblioteca di Alessandria, luogo in cui Appiano compì la propria formazione, almeno fino al 120 d.c anno in cui sembra si sia trasferito a Roma, dove intraprese la carriera giuridica diventando e, tra il 147 e il 161, nel periodo di co-reggenza tra Marco Aurelio e Antonino Pio, grazie ad una lettera di Cornelio Frontone scritta per conto di Appiano, e della conseguente risposta fornita da Antonino Pio, sappiamo che Appiano ottenne il titolo di Procuratore romano, anche se molti storici oggi ipotizzano che la sua nomina fu più un onorificenza che un incarico.

Comparazione degli autori

Il racconto generale che i tre autori fanno della caduta di Cartagine è generalmente coerente e costante, la maggior parte dei fatti riportati da Polibio vengono ripresi e riportati, in modo leggermente differente dai successivi scritti di Diodoro, circa cinquant’anni dopo, e di Appiano, circa due secoli dopo, anche se, alcune informazioni ed aneddoti non vengono riportati da tutti, specie il racconto del pianto di Scipione Emiliano che appare esclusivamente nel racconto di Polibio.

Il pianto di Scipione

Il perché Polibio abbia scelto di raccontare la dramma del pianto di Scipione Emiliano che, dopo aver sconfitto Cartagine in quell’ultimo assedio, in quell’ultima battaglia decisiva, ricevendo l’ordine di distruggere la città, e nel vedere Cartagine in fiamme, un tempo la più grande potenza commerciale, navale e militare del mediterraneo (che all’epoca era il mondo), è dovuto al forte legame che univa lo storico al generale romano.

Polibio era stato il precettore ed era un fidato consigliere e confidente di Scipione Emiliano, quel racconto appare estremamente intimo e personale, mette a nudo la sensibilità, l’intelligenza e le preoccupazioni di Scipione, ed è facile intuire perché non solo Polibio abbia scelto di riportare quei passaggi, ma anche perché Diodoro e Appiano abbiano scelto di non riportarli.

Nel racconto del pianto di Scipione, Polibio ci dice che questi, nel vedere Cartagine bruciare, abbia avuto una visione del futuro e del destino che prima o poi avrebbe colpito anche Roma.

Polibio, come già detto era un uomo Greco trapiantato a Roma, e nella sua memoria, nella sua cultura, vi è quella che un tempo era stata la più grande civiltà del mondo Antico, la civiltà ellenica, madre delle Polis Greche e dell’impero alessandrino, e pure, la Macedonia di Alessandro Magno, così come le Polis Greche, al tempo della caduta di Cartagine, erano ormai decadute e ridotte a province romane. Una sorte analoga aveva scosso Cartagine, un tempo la più fiorente e potente città del mediterraneo, ma dopo la terza guerra punica, di Cartagine non rimaneva altro che un cumulo di macerie.

Dopo la vittoria nella terza guerra punica la volontà romana fu quella di distruggere per sempre la capitale dell’ex impero punico, e per farlo, oltre alla distruzione materiale della città, vi fu anche la volontà di impedire che per cinque lustri il suolo su cui sorgeva Cartagine non venisse occupato.

Assistendo alla distruzione di Cartagine e la ferocia con cui Roma aveva deciso di porre fine alla storia cartaginese, Polibio, attraverso il racconto del pianto di Scipione, nel ricordo di ciò che era già successo altrove, arriva alla conclusione che ogni civiltà nella storia, compresa quella romana è destinata, prima o poi, ad un processo di declino, un processo che più essere rallentato grazie ad una serie di trasformazioni politiche, ma che rimane comunque inevitabile. Ed è proprio quello che sarebbe successo a Roma di lì a poco, che, con le varie guerre sociali e civili e riforme ad opera di uomini come Gaio Mario e i Gracchi e personaggi come Silla, Giulio Cesare e Ottaviano, subì un processo di trasformazione, appena un secolo più tardi, che trasformò la Repubblica nell’Impero Romano, e lo stesso impero subì a sua volta numerose trasformazioni politiche e sociali, che ad occidente culminarono con la deposizione di Romolo Augustolo, e ad oriente con la caduta di Costantinopoli per mano ottomana.

Diodoro ed Appiano, diversamente da Polibio, almeno dai testi giunti fino a noi, in parte perché più distanti e distaccati dalla vicenda e dai suoi protagonisti, in parte perché vivono e scrivono in un contesto storico differente, non ritengono rilevane il pianto di Scipione e preferiscono soffermarsi sul significato epocale della caduta di Cartagine, che tuttavia, i due autori interpretano in modo e con segno differente.

Diodoro in particolare, scrivendo in anni di grande espansione territoriale per Roma ormai prossima a diventare un Impero e non solo una potenza imperialista, ha difficoltà ad immaginare il declino di Roma, un declino ipotizzato da Polibio, ma che per Diodoro è un qualcosa di impossibile poiché la Roma in cui vive è ormai padrona del mondo, e tutto ciò che si trova all’esterno dei confini romani sono terre e popolazioni selvagge.

Come Diodoro, anche Appiano vive le guerre puniche con distacco e lontananza determinati dal tempo e dal mondo in cui scrive, oltre che dagli ambienti politici e sociali che frequenta, ambienti che, anche se simili a quelli frequentati da Polibio, sono profondamente diversi a causa del contesto storico.

Polibio è un nobile greco che vive a stretto contatto con la nobiltà romana, diversamente, Appiano non è un nobile ma, come Polibio vive a stretto contatto con la nobiltà romana, una nobiltà che nella prima metà del II secolo dopo cristo è profondamente mutata rispetto alla nobiltà del II secolo avanti cristo, poiché la stessa Roma è mutata.

Dei tre autori, Appiano è l’unico che vive in età imperiale, diversamente Diodoro e Polibio vivono in età repubblicana, più precisamente Diodoro vive al tramonto della repubblica, mentre Polibio vive nel momento di massimo splendore dell’età repubblicana.

La vita a Roma in età imperiale, influenza il modo in cui Appiano vede il mondo e si rapporta al mondo antico. Appiano è testimone indiretto della conquista traianea della Dacia, ultimo grande slancio espansionista dell’impero romano, ma è anche consapevole che non tutte le battaglie possono essere vinte e che la superiorità tecnologica e organizzativa dell’elefantesco esercito romano, non assicura la vittoria in battaglia, ne garantisce una facile difesa del territorio se questi, come la Dacia, è sprovvisto di difese naturali. Appiano guarda alla Dacia e vede il suo enorme costo non bilanciato dal flusso di argento che arriva a Roma, ma si guarda anche alle spalle e vede la sconfitta di Adriano, appena pochi decenni prima, che lo costrinsero a frenare la conquista ed innalzare l’emblematico vallo di Adriano. Guardando ancora più in dietro vede la sconfitta di Varo, al tempo di augusto, contro primitive tribù germaniche.

Appiano vive in quegli anni in cui molti storici pongono l’inizio del declino di Roma, e nel vivere in una civiltà prossima al declino, come Cartagine appena prima dell’inizio delle guerre puniche, ma allo stesso tempo così vicino alle elite e alle istituzioni romane, pone appiano in una posizione ambigua e criptica.

Oggi non sappiamo se Appiano intuì cosa stava accadendo a Roma in quegli anni, e scelse di omettere dal proprio racconto della caduta di Cartagine l’episodio del pianto di Scipione per ragioni politiche, o perché non totalmente consapevole dei cambiamenti che stavano avvenendo in quegli anni, mentre continuava a guardare a Roma con lo sguardo di chi crede invincibile la civiltà che in quel momento dominava il mondo.

La caduta di Cartagine

La caduta di Cartagine negli scritti di Polibio, Diodoro e Appiano rappresenta un evento centrale nella storia romana, tutti e tre gli autori sono perfettamente consapevoli della portata epocale di quell’avvenimento che segnò la fine definitiva di una delle più grandi e imponenti civiltà del mondo antico.

La conquista romana di Cartagine descritta da Polibio è certamente influenzata dall’amicizia tra Polibio e Scipione Emiliano, il racconto di Diodoro è alienato dalla condizione di una Roma, in quel momento apparentemente invincibile, e la caduta di Cartagine viene presentata come un passaggio inevitabile per il compimento della storia, una storia che appare forse già scritta e sembra puntare in un unica direzione, quello di una roma universale, concetto che sarebbe stato ripreso circa 1200 anni più tardi dagli storici medievali, il racconto di Appiano invece è forse il più ambiguo e criptico, che guarda alla caduta di Cartagine da lontano, senza riuscire ad andare troppo oltre l’immagine quasi statica di una serie di eventi determinati dalla risolutezza di una Roma ineluttabile e imperialista.

Tutti e tre gli autori, per ragioni differenti, concordano nel dire che Cartagine durante la terza guerra punica non aveva alcuna possibilità di successo nello scontro con Roma e probabilmente l’unica speranza di sopravvivenza dell’antica colonia fenicia, era quella di sottomettersi a Roma, fondendo la propria civiltà con quella romana.

Se così fosse stato, se Annibale ed Asdrubale non fossero stati così ostinati da sfidare Roma, forse oggi Cartagine esisterebbe ancora e forse, l’intera storia mondiale sarebbe differente, ma la storia non si scrive con i se e con i ma, e nella realtà storica, alla fine Scipione Emiliano ebbe ragione dei fratelli Barca, assediò Cartagine e la rase al suolo e per 25 anni fu impedita l’occupazione del suolo su cui un tempo sorgeva Cartagine.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti 
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana

Islam e Cristianesimo, tra scissioni, confessioni, milizie armate e Carl Schmitt

L’islam non è una fede unica, non come il cristianesimo… che conta 8 grandi confessioni e 19 confessioni minori, e innumerevoli correnti teologiche

Tra le critiche più stupide che potessi leggere sulla vicenda di Silvia Romano, una critica, particolarmente stupida ha catturato la mia attenzione, si tratta di, un post virale che iniziava dicendo che Silvia non si è convertita ad una “vera religione” ma si è convertita all'”Islam” che, a differenza del cristianesimo, non è una fede unica, ed ha molte correnti, precisando poi che non si è neanche convertita al “vero islam” ma alla corrente “shabaab” dell’islam, che è nata nel 2006.

Su al Shabaab ci tornerò brevemente nel paragrafo finale, ora voglio soffermarmi sulla questione della “fede unica” che sarebbe il Cristianesimo. Prima però voglio sottolineare come ci sia una diffusa ed errata credenza, non solo in italia, che le varie organizzazioni terroristiche di matrice islamica, siano delle correnti islamiche. C’è una diffusa convinzione che gruppi come al qaeda, siano una sorta di testimoni di geova o evangelisti, del mondo islamico. al Shabaab non è una religione a se, non è una confessione islamica, è un organizzazione politica, paramilitare, con finalità terroristiche, motivate da determinate ragioni politiche, non religiose.

Fatta questa premessa, siamo sicuri che il Cristianesimo, a differenza dell’Islam sia una “fede unica” e che nel mondo cristiano non vi siano diverse confessioni religiose?

LE CONFESSIONI CRISTIANE

La verità è che l Cristianesimo è tutt’altro che una “fede unica” il Cristianesimo è probabilmente la religione monoteista più frammentaria che esista, in quanto si compone di più di 27 confessioni differenti, divise tra Otto grandi confessioni e 19 confessioni minori, ovvero confessioni derivate dalle otto queste confessioni principali.Attualmente le confessioni Cristiane più diffuse sono

  • Cattolicesimo o chiesa cattolica romana
  • Chiese ortodosse orientali‎
  • Cristianesimo ortodosso‎
  • Nestorianesimo‎
  • Protestantesimo
  • Restaurazionismo‎
  • Vetero-cattolicesimo‎

Tutte queste confessioni cristiane, credono in Dio, in Gesù Cristo (da cui il nome cristianesimo), credono nello spirito santo e negli apostoli.

Di queste, il cattolicesimo, o cristianesimo romano, è la forma di cristianesimo più comunemente praticata in italia, e nel mondo occidentale, è il cristianesimo che riconosce la supremazia del Pontefice sulla chiesa e le figure dei Vescovi e dei Sacerdoti, oltre a celebrare i Santi (retaggio quest’ultimo di un intreccio tra cristianesimo e culti pagani).

Analogamente al cristianesimo in generale, anche il cattolicesimo si suddivide in diverse confessioni interne, ovvero confessioni che riconoscono e sono a loro volta riconosciute, dalla gerarchia ecclesiastica.

I vari ordini sacerdotali, come i gesuiti o passionisti ed i vari ordini monastici come francescani, benedettini e domenicani, ecc ecc ecc.

Parallelamente al Cristianesimo Cattolico, esistono però altre forme di Cristianesimo, che ne condividono la mitologia (Figura di Dio, angeli, arcangeli, parte dei testi sacri, Gesù Cristo, la Madonna, gli apostoli ecc) ma non ne condividono la gerarchia temporale, non riconoscono l’autorità del Papa o dei vescovi.

Una delle confessioni cristiane più importanti è il Cristianesimo Copto, o cristianesimo ortodosso, nato dalla scissione in seguito al concilio di Nicea, quasi 1700 anni fa.

Questa forma di cristianesimo, è quella più vicina alle forme del cristianesimo originale, rispetto al cristianesimo cattolico non ha adottato i tratti politici della tradizione imperiale, e da un certo punto di vista, è considerato il cristianesimo autentico, per l’appunto, ortodosso.

Altre confessioni Cristiane, ma non cattoliche, sono il Protestantesimo, o il Calvinismo, o la chiesa Anglicana. tutti nati da scissioni del Cristianesimo Cattolico Romano, il più delle volte in seguito a conflitti di natura politica o teologico/interpretativa.

In soldoni, non erano d’accordo con il papa, e di conseguenza hanno creato la propria corrente cristiana.

Queste confessioni, per molti secoli, sono state considerate eretiche dal cristianesimo romano, e in alcuni casi, sono stati perseguitati e combattuti, in vere e proprie crociate interne all’europa, tra i tanti, il caso dei Catari è certamente quello più noto.

Oggi la chiesa romana ha una maggiore tolleranza nei confronti delle diverse confessioni cristiane, come i Testimoni di Geova, gli Evangelisti, ecc.Potrei continuare ad elencare e spiegare nel dettaglio tutte le confessioni cristiane, ma direi che abbiamo reso l’idea.

Il Cristianesimo, non è una “fede unica” , ci sono tante correnti interne, alcune più antiche, altre più recenti.

Si tratta di correnti interpretative, soggettive, che possono essere liberamente scelte come fede a seconda della sensibilità individuale, e che, il più delle volte, sono nate da conflitti di natura politica oltre che teologica e interpretativa delle sacre scritture.

LE CONFESSIONI ISLAMICHE

Analogamente a quando è accaduto nel mondo cristiano, anche il mondo islamico ha visto la nascita di diverse confessioni islamiche, in particolare la corrente Sunnita e la corrente Sciita, sono le principali. Non mi dilungherò troppo sulle differenze tra sunniti e sciiti, ma se vuoi approfondire ti rimando a questo precedente post.

Tecnicamente l’islam condivide parte della mitologia cristiana, in particolare crede in dio, negli angeli, e nella figura di Gesù cristo, tuttavia, non riconoscendo la figura del cristo come figlio di dio, ma indicandolo come un profeta, alla stregua di Maometto, l’islam non è considerato una confessione cristiana, perché la figura del Cristo, non è presente nella propria mitologia.

La scissione tra Sunniti e Sciiti è avvenuta per ragioni politiche, quando, alla morte di Maometto, si è presentata la necessità di individuare un successore politico alla guida dell’Impero islamico.

Queste due grandi correnti hanno visto nei secoli l’evolvere di diverse correnti interpretative dei testi sacri, ed hanno dato vita a diverse e numerose confessioni interne. Esattamente come avviene nel mondo ortodosso, ogni Imam è interprete della parola di dio, parola che però, come nel cristianesimo, ed è espressa in un unico testo che per i cristiani è la Bibbia, mentre per gli islamici è il Corano.

Entrambi i mondi, quello cristiano e quello islamico, sono estremamente frammentari sul piano teologico, ma, in entrambi i mondi, la fede è una e unica.Sia per il cristiano che per l’islamico, fede significa fiducia, cieca e incondizionata, in dio, un dio padre amorevole e a tratti severo, che protegge i propri figli, e questa fede unica, espressa da entrambe le religioni, è ben visibile attraverso una preghiera, una delle preghiere più importanti e famose, comune ad entrambe le religioni e tutte le loro confessioni, e che noi conosciamo con il nome di “pater noster“, il Padre nostro.

AL SHABAAB

Per quanto riguarda al shabaab mi limito a dire che questa parola, non significa altro che “i giovani” e che questa non costituisce una confessione, ne una forma di religione, si tratta invece di un movimento politico, di matrice islamica, che potremmo associare in parte all’azione cattolica giovani , in parte alla democrazia cristiana e, in modo molto forzato, in parte al movimento dei partigiani.

Nessuno si sognerebbe mai di dire razionalmente, parlando di fede, che qualcuno si è convertito alla “DC” a meno che non si confonda fede e politica, ma di solito questa cosa la fanno solo gli estremisti politici, che vedono, nella propria interpretazione, un dogma intoccabile, e pure, parlando di fede, qualcuno ha pensato bene di dire che Silvia romano si è convertita ad Al Shabaab.

Al shabaab, come molte organizzazioni terroristiche internazionali, prima di essere un organizzazione terroristica internazionale, è un organizzazione politica, fortemente legata al territorio, che ha come obbiettivo la liberazione del proprio popolo, della propria terra, da un invasore straniero e, diversamente dal daesh non ha ambizioni espansionistiche. Almeno sulla carta, nella pratica le cose sono un po’ più complicate e meno nobili e valorose di così.

Nelle sue istanze fondamentali, queste organizzazioni sono fortemente legate al territorio, appaiono al pari di organizzazioni e movimenti partigiani, e in molti casi sono percepite dalle popolazioni indigene come vere e proprie milizie partigiane, in altri casi invece, come nel caso specifico di Al Shabaab, queste organizzazioni, originariamente legate alla terra e al territorio, sono evolute in organizzazioni terroristiche internazionali, che quindi agiscono anche al di fuori del proprio territorio.

Ho approfondito il concetto di partigiano e di sentinella della terra attraverso un post sui combattenti irregolari in collaborazione con la rivista NotizieGeopolitiche.net, se vuoi approfondire, ti rimando al mio vecchio articolo.

La questione del “partigiano” è una questione complessa, che il filosofo e giurista tedesco Carl Sschmitt, sviscera attraverso il concetto di sentinella della terra, nella sua teoria del partigiano, libro che vi consiglio di recuperare se non lo avete mai letto. Nel saggio Smith osservando che questi, finché operano, operano sempre nell’illegalità, in quanto si trovano in contrasto con un autorità o con uno stato legittimo, la cui autorità politica e giuridica gli permette di definire le sentinelle della terra come criminali, come sovversivi, come terroristi, anche quando le loro azioni sono dettate da una giusta causa. Una giusta causa può essere la liberazione di un villaggio da milizie armate, private o straniere, mentre il rapimento di un civile un volontario che sta aiutando gli indigeni, dettato da motivazioni economiche (chiedere un riscatto) non è una giusta causa.

I partigiani italiani, durante la seconda guerra mondiale, per il regime fascista, erano dei terroristi.

Sempre Smith osserva che la condizione della sentinella della terra viene elevata a quella di patriota solo in caso di vittoria finale del conflitto, ma può accade anche che, pur vincendo, rimangano, per lo straniero, dei criminali, ed è questo il caso dei Vietcong, durante la guerra del vietnam, che, anche dopo la fine della guerra, sono stati considerati, dallo sconfitto governo americano, come dei criminali, colpevoli di aver difeso la propria casa e la propria terra da una potenza invasore straniera.

Con questo non voglio assolutamente nobilitare organizzazioni criminali e terroristiche come al shabaab o al qaeda, di cui al shabaab è affiliata. I militanti di Al shabaab non sono dei partigiani, non sono delle sentinelle della terra, poiché il loro status di sentinella della terra è decaduto nel momento in cui hanno commesso crimini contro civili e compiuto azioni offensive o al di fuori della propria terra, come attacchi ai danni di civili e il rapimento di operatori e volontari internazionali come Silvia Romano.

L’ostaggio nel mondo antico

L’ostaggio nel mondo antico, è un prigioniero politico, ma anche una garanzia per il rispetto di trattati e un mediatore

Il termine Ostaggio, oggi, ha un significato ben preciso, che a grandi linee possiamo definire come, una persona fisica tenuta prigioniera, per ragioni economiche o politiche, o per altri motivi, ma nel mondo antico, il termine ostaggio o meglio, quello che noi oggi traduciamo con il termine ostaggio, aveva un significato leggermente differente dal moderno concetto di ostaggio, diciamo che l’ostaggio nel mondo antico, soprattutto nel mondo greco romano, era in parte un prigioniero, in parte un ospite, in parte un mediatore, ma ovviamente, non era così sempre e dappertutto.

Per la Treccani l'ostaggio è "cittadino di uno stato nemico che un belligerante tiene in proprio potere e contro il quale minaccia di prendere determinate misure..."

Molto dipendeva dall’ostaggio, dalle sue doti politiche e dalla sua dote, ed i rapporti di forza e le relazioni che riguardavano la civiltà di appartenenza dell’ostaggio e quella di cui era ostaggio avevano un peso considerevole nel determinare le condizioni dell’ostaggio, ma, andiamo con ordine e partiamo dal termine ostaggio e dalla sua etimologia.

L’etimologia della parola Ostaggio

Noi oggi sappiamo che l’etimologia della parola ostaggio deriva dal francese antico hostage, le cui radici affondano nel latino del tardo antico, un arco temporale che va dal finire del IV al IX secolo dopo cristo, l’hostage del francese antico è un evoluzione del più antico termine hospitatĭcum, che, a sua volta è derivato dal più antico hospes -pĭtis, che letteralmente letteralmente, ospite politico.

La parola ostaggio, nel mondo antico ha una forte connessione con la politica, concetto che viene legato al concetto di ospitalità, ed è proprio in questo connubio di ospitalità e politica che risiede il cuore del concetto dell’ostaggio.

Il termine ci indica un ospitalità politica, più precisamente un ospitalità interessata e motivata da interessi politici, ma ci dice anche altro, poiché ci troviamo in un epoca in politica, guerra e diplomazia, sono concetti interconnessi e molto vicini tra loro, molto più di quanto non lo siano oggi.

Ostaggi dall’Egitto a Roma

Il concetto di ostaggio nel mondo antico non ha un valore universale, popoli diversi hanno idee e concezioni diverse di ostaggio e prigioniero, e se in alcune civiltà antiche questi due concetti coincidevano, in altre, erano molto distanti tra loro, e non di rado, in momenti diversi, nella stessa civiltà, il concetto di ostaggio viene applicato e interpretato diversamente.

L’ostaggio nell’antico Egitto

Nel antico Egitto, almeno fino alla conquista alessandrina della civiltà del delta del Nilo, l’ostaggio era considerato prettamente un prigioniero politico il cui ruolo nella società era profondamente diverso dal prigioniero di guerra. Il compito del prigioniero politico egiziano, dell’ostaggio nell’antico Egitto, era quello di garantire al faraone la fedeltà e la lealtà dei regni vassalli, e a tale scopo, dei membri delle nobili famiglie feudatarie del faraone erano inviati periodicamente alla corte del faraone, dove vivevano da ospiti, e spesso ricoprivano incarichi pubblici, in cambio della garanzia di fedeltà e lealtà delle proprie famiglie al faraone. Diversa e meno fortunata sorte invece toccava ai prigionieri di guerra.

Un esempio di ostaggio nel mondo egizio, molto noto, ci arriva dal libro della Genesi nell’Antico Testamento attraverso la storia del patriarca Giuseppe, de facto un capo tribù che giura fedeltà e lealtà al faraone d’Egitto in cambio di protezione politica per il proprio popolo, in un epoca in cui la regione Cananea, e l’intero vicino oriente, era controllata da diversi popoli guerrieri in lotta tra loro e allo stesso tempo in guerra con l’Egitto.

L’ostaggio nella Grecia antica

Analogamente al concetto egizio, anche nella Grecia pre-romana l’ostaggio assolveva ad una funzione prettamente politica, non sappiamo però se i greci acquisirono il concetto di ostaggio dagli egizi o se lo svilupparono autonomamente. Noi oggi sappiamo che nelle civiltà primitive il concetto di ostaggio, così come quello di schiavitù, sono molto frequenti, anche in popoli che non avevano alcun contatto tra loro, e questo perché il concetto di ostaggio e l’istituzione della schiavitù, sono stati incontrati anche in popolazioni che non hanno avuto alcun contatto con le antiche civiltà mediterranee, come ad esempio le civiltà mesoamericane.

Nella Grecia antica, almeno in età arcaica, l’ostaggio assolveva ad una funzione analoga a quella dell’ostaggio egizio, questo lo sappiamo attraverso alcuni miti legati alla civiltà Minoica, come ad esempio il mito del Minotauro il cui racconto ci parla, ovviamente tra le righe, di ostaggi politici il cui sacrificio è necessario al mantenimento della pace probabilmente tra un popolo dominante e i suoi feudatari. In età classica invece, il concetto di ostaggio cambia, assumendo tratti leggermente differenti a seconda delle varie polis, ma il concetto di fondo rimane invariato, l’ostaggio continua ad essere un prigioniero politico il cui compito è garantire la pace tra due popoli, sancire una tregua o suggellare alleanze. L’ostaggio diventa quindi non più il tramite di un alleanza, ma anche il garante di tregue, accordi e negoziati, inoltre è il garante del rispetto delle regole della guerra, elemento quest’ultimo sarebbe stato successivamente ereditato dalla civiltà romana.

L’ostaggio concepito dalla civiltà greca è un uomo, o una donna, di alto rango, un nobile, un politico, un filosofo o un dotto, la cui presenza viene utilizzata anche per imporre precise decisioni politiche. In tale senso il caso di Filippo II di Macedonia, condotto a Tebe come ostaggio, è particolarmente interessante. Filippo II era un nobile, la cui presenza a Tebe assicurava alla polis greca il rispetto di una pace tra Macedonia e Tebe ed impediva ai macedoni di assumere posizioni ostili nei confronti di Tebe o sancire alleanze con i suoi nemici. Filippo II viene inviato a Tebe come ostaggio e trascorre nella polis greca più di 30 anni della propria, un periodo di tempo in cui il nobile macedone avrebbe appreso la lingua, i costumi, la politica e, soprattutto, le tattiche militari in uso a Tebe, conoscenze che avrebbe portato con se, una volta tornato in macedonia.

La storia di Filippo II di Macedonia è molto interessante se analizzata in rapporto alle idee di Aristotele sulla prigionia, gli ostaggi e la schiavitù, e non è un caso se Filippo avrebbe scelto proprio l’allievo di Platone come precettore per il proprio erede Alessandro III, meglio noto come Alessandro Magno.

La schiavitù per Aristotele

La schiavitù, per Aristotele è un istituzione educativa e civilizzante, che viene utilizzata per facilitare il processo di conversione e acquisizione, da parte dei prigionieri, degli usi e dei costumi, oltre che della lingua, della civiltà dominante. Lo schiavo per Aristotele è un barbaro che va rieducato e istruito affinché possa acquisite le conoscenze per vivere da uomo greco. Questo concetto di schiavitù, ha molti tratti in comune con l’esperienza da ostaggio di Filippo II, i cui lunghi anni in Grecia gli hanno permesso di acquisire tutto ciò di cui aveva bisogno per sembrare un uomo greco, e una volta tornato in Macedonia, volle per i propri figli la migliore istruzione e formazione possibili, in modo che questi, venissero accolti in Grecia da uomini greci e non da re barbari.

L’ostaggio nella civiltà romana

Diversamente dalla civiltà greca, che considerava se stessa all’apice della civiltà nel mondo antica, e tendeva dunque ad imporre il proprio modello culturale, elemento questo che spesso sfociò in guerre, scontri e rivalità secolari tra le polis, nel mondo romano, almeno nei primi secoli, c’è stato un forte desiderio di auto-miglioramento, che il più delle volte si è tradotto nell’acquisizione di modelli e schemi sociali e culturali, oltre che tecnologici, dalle numerose civiltà con cui roma entrava in contato, che hanno portato Roma ad assorbire, imitare e migliorare, di tutto, dalla mitologia all’architettura alla tecnologia militare.

Il mito di Clelia e Porsenna

La prima e più antica istanza di ostaggio nella civiltà romana la incontriamo nella mitologia arcaica, e tra i tanti miti in cui si fa riferimento al concetto di ostaggio, il mito di Clelia e di Porsenna è forse uno dei più noti e importanti.

Di questo mito esistono due versioni, probabilmente legate al fatto che, nel corso del tempo, il concetto di ostaggio nel mondo romano, ha subito delle variazioni, e il mito di Clelia ci aiuta, con le sue due varianti, a ricostruire queste differenti idee di ostaggio.

Nella più antica delle versioni del mito, Clelia, insieme ad altre nove ragazze, venne consegnata a Porsenna, il lucumone etrusco di Chiusi (il lucumone era la più alta carica politica per una polis etrusca) dai Romani, in seguito ad una pace tra le due città. In questa versione del mito, Clelia incoraggiò le altre nove ragazze a fuggire dall’accampamento di Porsenna e mentre le ragazze guadavano il tevere, lei rimase di guardia sulla sponda, dove venne rintracciata da una guardia di Porsenna o lo stesso Porsenna, e questi, impressionato dal coraggio della donna, decise di premiarla concedendole la libertà.

In questa versione del mito, se bene sia un signore straniero, Porsenna è raccontato come un uomo buono e saggio, che libera Clelia riconoscendone il coraggio ed il valore e poi si ritira, non fa inseguire le altre ragazze oltre il fiume, e continua ad onorare il patto stipulato con Roma, mentre Clelia viene è raccontata come una donna forte, valorosa e coraggiosa, che per la propria intraprendenza e coraggio viene liberata.

Un messaggio di questo tipo potrebbe apparire come un invito agli ostaggi di tentare la fuga, imitando Clelia, e se questo racconto fa parte della tradizione, ciò può significare solo una cosa, ovvero che gli ostaggi nella roma arcaica, non erano prigionieri, ma ospiti.

Nell’altra e più recente versione del mito di Clelia, raccontataci da Tito Livio e da Aurelio Vittore, inizialmente Clelia viene consegnata da sola al lucumone di chiusi, ma riesce a fuggire e tornare a Roma, una volta scoperta venne riconsegnata a Porsenna insieme ad altri ostaggi che i romani fecero scegliere a Porsenna e Porsenna, lasciò che fosse Clelia a scegliere gli altri ostaggi, ed una volta terminata la tregua e tornati a Roma, la città fece erigere una statua equestre in onore di Clelia.

In questa seconda versione, di cui abbiamo traccia già nel IV secolo a.c. con Aurelio Vittore, la figura dell’ostaggio l’ostaggio è mutata e a differenza del passato, la sua fuga può causare la rottura di un patto, dunque l’ostaggio è obbligato a rimanere ostaggio per tutto il tempo necessario, anche se questo non significa necessariamente prigionia. Come vediamo nel mito, Clelia viene riconsegnata a Porsenna, ma questi non punisce la ragazza per la sua fuga, ma al contrario si fa carico della sua protezione, e le consente di scegliere la propria compagnia. Porsenna, in questa versione del mito, consente a Clelia continuare a vivere da donna romana, a differenza di quello che accade a Filippo II di Macedonia.

Il caso di Polibio

Quello di Celia e Porsenna però è un mito, vi sono però altre storie di ostaggi romani, nel mondo antico, che possono aiutarci a comprendere meglio la dimensione dell’ostaggio in età romana ed uno di questi è il caso di Polibio, lo storico greco ostaggio di Roma.

Plibio, durante la propria permanenza a Roma, come ostaggio, nel secondo secolo, nel vivo della terza guerra punica, godette di grande stima, apprezzamento e libertà, nella futura capitale imperiale. La storia di Polibio ci è arrivata direttamente dalla penna di Polibio, il cui racconto ci fornisce uno sguardo unico dell’istituzione dell’ostaggio nel II secolo a.c. poiché ci arriva direttamente da un ostaggio.

Ciò che colpisce in modo particolare nel caso di Polibio, è il grande legame di amicizia che Polibio costruì con gli Scipioni, un amicizia che lo avrebbe reso una delle fonti antiche più autorevoli e apprezzate, per quanto concerne il raccontato della terza guerra punica, guerra che impegnò Roma e contro Cartagine, gli Scipioni contro i Barca, contro Annibale e portò, alla fine, all’inevitabile distruzione di Cartagine, il cui rogo, secondo quanto riportato proprio da Polibio, avrebbe causato lacrime e sofferenza in Scipione l’Africano che, tra le fiamme che divoravano la città, intravedette il declino che prima o poi raggiunge ogni grande civiltà, compresa la sua Roma.

Se vuoi approfondire la storia di Cartagine, leggi anche questo articolo.

La presenza di Polibio come ostaggio a Roma è di natura prettamente politica, lo storico greco è stato condotto a Roma in un epoca in cui Roma stava estendendo propria protezione ben oltre la penisola italica, spingendosi sempre più ad oriente, e guardava con interesse ai territori delle polis greche, polis che non sempre vedevano di buon occhio la presenza imperialista di Roma, e che anzi, proprio durante la terza guerra punica, in diverse occasioni offrirono asilo e aiuto ad Annibale, acerrimo nemico degli Scipioni e di Roma.

La presenza di Polibio a Roma serviva principalmente per evitare che troppe polis passassero dalla parte di Annibale. L’ostaggio greco a roma era quindi un ospite politico, trattenuto formalmente con la forza, ma senza troppe limitazioni e costrizioni, a cui era garantita piena libertà e la cui funzione era quella di fare da garante della pace tra i due popoli, in particolare, il suo compito serviva a garantire che non vi fossero atti di ostilità, ne minacce alla sicurezza di Roma e dei suoi soldati in Grecia, da parte della popolazione ellenica. Vi era una sorta di impegno reciproco tra Roma e Polibio, per cui l’ospite si impegnava a garantire all’ostaggio tutto ciò di cui aveva bisogno e l’ostaggio si impegnava a garantire la pace e far si che nella propria terra d’origine, non vi fossero insurrezioni o rivolte, e che anzi, se possibile, vi fosse collaborazione con Roma.

L’evoluzione del concetto di Ostaggio

Con la caduta di roma, il concetto di ostaggio cambia nel tempo, senza allontanarsi troppo dal concetto di ostaggio greco romano. In età Medievale l’ostaggio diventa il cardine delle alleanze e dei rapporti d’amicizia, e in età moderna, si riscopre il concetto rieducativo dell’istituzione schiavistica, soprattutto in rapporto agli scontri con l’impero ottomano.

Nel mondo antico quello che era il ruolo dell’ostaggio non era codificato, e probabilmente è proprio l’assenza di una codifica formale e universale del concetto di ostaggio nel mondo antico, ad aver portato a diverse evoluzioni. Tuttavia, quello dell’ostaggio era un concetto noto, un istituzione riconosciuta in quell’insieme di leggi e norme non scritte che costituivano lo Jus ad bellum, il diritto alla guerra, e lo Jus in bellorum il diritto in guerra, ed è proprio dal retaggio lasciato da quel mondo e da quell’insieme di teorie, concetti e nozioni giuridiche che il concetto di ostaggio sarebbe arrivato fino a noi, passando attraverso il corpus iuris civilis dell’imperatore Giustiniano e gli scritti sul diritto alla guerra e il diritto in guerra di numerosi giuristi e filosofi dell’età medievale e moderna, da Sant’Agostino d’Ippona a Francisco de Vitoria, da Tommaso d’Aquino a Ugo Grozio, fino a raggiungere uomini gli scritti filosofi come Thomas Hobbes e Immanuel Kant, e giuristi come Emmeric de Vattel le cui idee avrebbero ispirato Franz Lieber nella stesura del Codice Lieber, commissionato da Abraham Lincoln durante la guerra civile americana e la quasi contemporanea prima convenzione di Ginevra del 1864 voluta da Henri Dunant.

Quello che nel mondo antico era l’ostaggio oggi è convenzionalmente riconosciuto come “prigioniero di guerra” i cui diritti vennero formalizzati per la prima volta proprio con la convenzione di Ginevra del 1864 e con il codice Lieber.

Bibliografia

Tito Livio, Ab Urbe condita libri.
M.Liverani,Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele.
E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana
C.Mossé, Dizionario della civiltà greca

I Giochi Militari di Wuhan, l’origine della Pandemia?

Giochi Militari Mondiali di ottobre a Wuhan, possibile punto d’origine della pandemia di coronavirus, ecco la teoria

“che scandalo, la cina ad ottobre ha ospitato i giochi militari tenendo nascosto al mondo che lì c’era il coronavirus”

Virus di cui, in quel momento, neanche la Cina sapeva, visto che è stato identificato a dicembre e che in realtà potrebbe essere entrato in Cina proprio con quei giochi, ipotesi che non è da escludere visto che, ancora oggi, non sappiamo quando sia avvenuto il primo contagio in paesi come gli USA. MA andiamo con ordine.

Cosa dicono i Giornali

Intorno al 7 maggio 2020 sono apparsi in rete, diversi articoli, pubblicati da diversi quotidiani di rilevanza nazionale, in cui si parlava un ipotesi ancora molto acerba, e priva di prove, secondo la quale, già ad ottobre il governo Cinese sapesse del Coronavirus, e, nonostante questa consapevolezza, abbia tenuto comunque a Wuhan la settima edizione dei giochi mondiali militari, tra il 18 ed il 27 ottobre 2019. Si tratta di una sorta di olimpiadi militari, costituite da 28 discipline, inaugurate nel 1995.

Secondo questa teoria, gli oltre 10.000 atleti militari provenienti da tutto il mondo, sarebbero stati esposti al virus e infettati e, a riprova di ciò, le testimonianze di diversi atleti militari e riservisti che hanno partecipato ai giochi che, qualche settimana più tardi, avrebbero denunciato febbre altissima e difficoltà respiratorie, due dei sintomi più noti dell’infezione da coronavirus. Se si prende per vera questa teoria, sarebbero stati proprio i militari di ritorno dalla cina, a fine ottobre/inizio novembre, a diffondere il virus in tutto il mondo.

Questo primo dato trova conferma nello storico delle infezioni identificate fino ad oggi, che vedrebbero proprio a Novembre, i primi casi in europa.

Il principale effetto collaterale di questa teoria è che, nelle ultime settimane, numerosi atleti che hanno partecipato ai giochi sono stati oggetto di minacce di morte, e tra i tanti esempi, spicca particolarmente il caso dell’alteta statunitense Maatje Benassai.

Alcuni degli articoli che hanno riportato questa teoria, sono stati molto cauti, come nel caso dell’articolo pubblicato il 7 Maggio sul sito del Corriere e intitolato “I Giochi Militari di Wuhan a ottobre e il coronavirus: ora il sospetto per tutti quegli atleti malati” in cui Marco Bonarrigo si è limitano a riportare alcune informazioni sulle olimpiadi e l’ipotesi che queste potrebbero essere il punto d’origine dell’epidemia. Altri articoli invece, come quello apparso su Libero Quotidiano, rigorosamente in forma anonima e intitolato “Coronavirus, il primo focolaio ai Giochi Militari di Wuhan? Dalla Svezia le prime conferme“, non lascia troppo spazio a interpretazioni, e mentre il Corriere e Repubblica parlano di ipotesi non ancora comprovate, Libero già emette sentenze, lasciandosi andare ad una vera e propria teorie cospirativa secondo cui, la Cina, era a conoscenza del virus e dei suoi rischi, e nonostante ciò lo avrebbe tenuto nascosto al resto del mondo, permettendo lo svolgimento dei giochi.

Altri giornali on-line e blog vanno però addirittura oltre, arrivando ad ipotizzare che la Cina non solo sapesse, ma avrebbe utilizzato volontariamente i giochi militari per diffondere il virus nel mondo, secondo altre teorie,di segno opposto, i giochi militari avrebbero un ruolo importante nella diffusione del virus, non solo nel mondo, ma anche in Cina, perché sarebbe proprio quello il momento in cui il virus potrebbe essere entrato nella provincia di Hubei, in Cina.

La mia speculazione

Fingiamo allora che la più diffusa di queste teorie sia vera, e che la Cina effettivamente sapesse già tutto ad ottobre e che abbia volutamente tenuto nascosta la scoperta del virus, esponendo gli atleti militari al rischio. Questa teoria potrebbe essere facilmente avallata dal fatto che molti degli atleti che hanno partecipato ai giochi, hanno recentemente dichiarato di aver avuto alcuni dei sintomi dell’infezione da covid alcune settimane dopo il loro ritorno dalla Cina. Va però anche detto che molti di loro si sono rifiutati di fare dei test e tamponi per scoprire se effettivamente erano stati esposti.

C’è però qualcosa che non mi torna in tutto questo.

Se infatti la premessa è che i medici cinesi hanno tenuto tutto nascosto, quando ai primi di Novembre gli atleti che erano stati in Cina per i giochi e che ormai erano tornati da tempo ai propri paesi, hanno segnalato difficoltà respiratorie e febbre alta ai propri medici, come mai i loro medici nei propri paesi non hanno individuato il virus? erano anche loro sotto il controllo del governo cinese, o semplicemente sono stati poco attenti?

Voglio dire, perché a quegli atleti che fino a pochi giorni prima in perfetta forma, e che improvvisamente denunciavano febbre altissima e difficoltà respiratorie, non sono state fatte visite un po’ più accurate?

Va detta anche un altra cosa, durante i giochi quegli atleti sono stati sottoposti a diversi test ed esami, per verificare sia le loro condizioni di salute che la presenza di eventuali sostanze dopanti nel sangue, quei test, anche se non mirati ad identificare la presenza del virus, in teoria avrebbero dovuto rilevare la presenza nel sangue di un virus sconosciuto nell’organismo. Quegli esami rilevano persino la presenza dei farmaci che io prendo per tenere sotto controllo i trigliceridi. Ma assecondiamo ancora la teoria dell’occultamento, e fingiamo che chi ha eseguito i test in Cina abbia volutamente nascosto questa informazione.

La mia domanda non cambia, quando gli atleti hanno manifestato i sintomi, ormai lontani dalla Cina, perché non ci sono state analisi del sangue per individuare le cause di quei sintomi anomali per degli atleti militari?

L’ipotesi

La cosa più plausibile che almeno a me viene da pensare è che quei test non sono stati fatti, molto probabilmente perché i sintomi sono stati erroneamente associati a sintomi influenzali e molto probabilmente gli atleti sono stati curati come se avessero una comune influenza.

Se fosse andata andata realmente così, e credo sia andata effettivamente così, i medici, in tutto il mondo, hanno agito in modo superficiale. Una superficialità certamente dettata dall’ignoranza del virus, e della quale non è assolutamente possibile fare loro una colpa, perché con il senno del poi siamo tutti bravi ad identificare gli errori, ma le cose non vanno giudicate con il senno del poi e quella superficialità è un qualcosa che, a mio avviso, i nostri medici hanno avuto in comune con i propri colleghi cinesi. Hanno agito tutti ignorando l’esistenza di un virus, di cui non se ne conosceva l’esistenza, un virus che è stato identificato per la prima volta a dicembre 2020, quasi due mesi dopo lo svolgimento dei giochi.

Conclusioni

Quello che ci dice questa storia, non è che la Cina ha nascosto qualcosa, quello che ci dice è che dalla Cina agli USA, passando anche per l’Europa, Italia compresa, prima che il virus venisse identificato, nel dicembre 2020, i medici di tutto il mondo si sono comportati con gli infetti come se si trovassero di fronte ad una comune influenza fuori stagione, perché per loro era una comune influenza fuori stagione, e non avevano alcun motivo, ne prova, per pensare potesse essere qualcosa di diverso e più pericoloso. Nessuno ha fa fatto esami del sangue per identificare le cause delle difficoltà respiratorie, perché fino a qualche mese fa, nessun medico avrebbe fatto delle analisi del sangue, per confermare quella che ai suoi occhi era una comune influenza.

Questa storia però ci dice anche altro, ci dice che il primo paese ad aver provato ad andare oltre le apparenze e ad aver provato ad approfondire e identificare le cause di quella strana e anomala influenza, è stata propri la Cina. Quella stessa Cina che, articoli estremamente faziosi e politicamente scorretti, stanno cercando di denigrare, per un mero interesse politico, nel tentativo di scaricare sulla Cina quella che in realtà è una “responsabilità” che accomuna l’intera comunità internazionale, che forse è stata poco attenta, ma è un giudizio questo, che possiamo dare solo con il senno del poi.

La verità è che quando il problema si è manifestato nessuno ci ha fatto realmente caso, e non perché qualcuno avesse interesse nel nasconderlo, ma semplicemente perché non lo abbiamo notato, perché per notarlo era necessario fare un po più di quello che siamo abituati a fare, era necessaria un attenzione superiore a quella ordinaria.

La Cina ha certamente commesso degli errori di valutazione, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, in particolare quando non sapeva ancora bene con cosa avesse a che fare, e quegli stessi errori sono stati commessi anche fuori dalla Cina, e ben oltre le prime fasi, quando il problema era ormai noto e all’attenzione di tutti, e questo forse rende quegli errori più gravi. Perché la Cina in un certo senso può essere giustificata per non essere intervenuta in tempo, altri paesi, che anche dopo la proclamazione della pandemia, hanno deciso di non fare nulla, non sono perdonabili.

Forse se qualcuno all’inizio di tutto avesse fatto più attenzione alle condizioni di salute di quegli atleti rientrati malati dalla Cina, l’epidemia globale sarebbe stata contenuta, non sarebbe diventata una pandemia, e grazie anche alla complicità dell’inverno, ci avrebbe risparmiato diverse decine di migliaia di morti. Inoltre avremmo identificato il virus molto prima e magari non sarebbe cambiato molto, ma credo che iniziare le ricerche per trovare una cura o un vaccino con quattro mesi d’anticipo, forse, qualche differenza l’avrebbe fatta e certamente ci avrebbe donato un estate più tranquilla e serena.

Ma il dado è tratto, gli errori sono stati commessi, ovunque e da chiunque, le vittime ci sono state e continuano ad esserci, e purtroppo non è possibile tornare in dietro. Ciò che però possiamo fare è cercare di ricostruire tutti i passaggi di questa pandemia, fin dal paziente 0, così da imparare, per il futuro, a non ripetere nuovamente gli stessi errori.

Tra i tanti insegnamenti che questa crisi globale ci lascia, forse uno spicca su tutti gli altri. In futuro dovremmo stare più attenti, e magari, cercare di approfondire e identificare le cause reali di un problema, anche quando non sembra troppo grave, e non limitarci a superficiali diagnosi errate. Del resto, un antico proverbio recita “prevenire è meglio che curare” e nel caso del Coronavirus con il senno del poi, avremmo potuto prevenire la pandemia, ma non siamo stati abbastanza attenti e cauti.

L’anacronistico liberismo moderno attribuito al Manzoni

Leggere i promessi sposi, attribuendo al testo un interpretazione Liberista, è errato ed anacronistico e non riflette il reale problema cardine del romanzo

Leggere, o meglio, rileggere Manzoni in chiave keynesiana e prendere le sue critiche al modo in cui il governo della di Milano, nei promessi sposi, gestì la crisi del pane, frutto di una più profonda crisi agraria, come una critica all’intervento dello stato sul libero mercato, significa non aver capito nulla di Manzoni, del suo pensiero e della sua opera. Anche perché, la crisi che colpì Milano, non colpì altre città in cui vennero prese decisioni simili.

Il tema centrale nei promessi Sposi

L’intero romanzo di Manzoni ruota attorno ad un concetto chiave, uno, fisso, immobile e immutabile, che traspare da ogni parola, da ogni frase, da ogni evento e dinamica raccontata nel libro, ed è la critica alla società tradizionale, la critica alla società feudale, che, nel XIX secolo inoltrato, sopravviveva ancora in Italia, in modo innaturale.

Manzoni crede nei valori della destra storica, è un liberista classico che come John Loke crede nel rispetto dei diritti individuali, ed è fortemente convinto che questi diritti debbano essere garantiti dall’autorità pubblica, per Manzoni, lo stato deve intervenire in difesa e tutela di quei diritti considerati naturali e universali.

Manzoni ambienta il suo romanzo ben due secoli prima, nel pieno del XVII secolo, quando il mondo intero era ancora totalmente immerso nella società feudale, per mettere in evidenza quello stesso tema sollevato da Giuseppe Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo e Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli, quest’ultimo più di un secolo e mezzo più tardi rispetto a Manzoni. Ed è il tema della staticità sociale dell’italia, di un italia immobile e immutabile in cui cambiano le elite, cambiano le teste coronate, cambiano gli ordinamenti e gli equilibri, ma in realtà non cambia mai nulla e i contadini e le masse popolari, che Manzoni nel suo romanzo riconosce già nel XVII secolo, vivono una condizione di classe subalterna i cui interessi sono marginali per la politica e la società del tempo, se bene rappresentino la maggioranza della popolazione.

Manzoni guarda a quegli anni in cui il mondo avrebbe conosciuto una delle prime grandi rivoluzioni borghesi della storia, la rivoluzione inglese, e lo fa da uomo del XIX secolo, Manzoni scrive agli inizi del XIX secolo, scrive dopo la rivoluzione francese, scrive dopo Napoleone e dopo la restaurazione, e racconta un mondo immediatamente precedente le prime istanze illuministe, le prime rivendicazioni di universaltià dei diritti, e nonostante siano passati due secoli abbondanti, nonostante le rivoluzioni che ci sono state in europa e fuori dall’europa, come la rivoluzione americana e quella francese, nonostante Napoleone, nulla sembra essere cambiato realmente, non in europa almeno.

Manzoni non è un promotore assoluto del libero mercato, non è un sostenitore del laissez fair e dello stato assente, Manzoni è un conservatore liberale e monarchico e non critica Milano che fissa il prezzo del pane, per l’intervento sul pane, perché, Manzoni non racconta il mercato globale negli anni duemila, e ragionare in termini di economia globale pensando al Manzoni, è folle e anacronistico.

Manzoni racconta un mondo chiuso e racconta la filiera del pane, in un area circoscritta, rappresentata dalle campagne attorno Milano, nel XVII secolo. Ed è una filiera estremamente povera, primitiva e limitata.

Manzoni racconta un mondo in cui il pane non lo comprano i contadini che vivono nelle campagne, loro il pane se lo fanno in casa, con la farina che hanno ottenuto macinando a mano dei cereali o che hanno barattato per dei cereali con il mugnaio.

Di certo non sono i nobili ed i proprietari terrieri ad acquistare il pane, il pane per loro viene prodotto nelle cucine dei palazzi, viene prodotto con il grano e la farina degli affitti, siamo nel XVII secolo, non ci sono agenzie di recupero crediti, siamo in un mondo in cui tasse e affitto della terra sono più o meno la stessa cosa e vengono riscosse porta a porta dall’esattore che bussa e chiede soldi, e se i soldi non ci sono, e nelle campagne i soldi non ci sono, allora l’esattore chiede grano e farina, chiede almeno una decima della produzione.

Di sicuro non sono i mugnai ad acquistare il pane, i mugnai non ne hanno bisogno, sono pochi e producono loro la farina per i forni, nella casa del mugnaio pane, salame e formaggio non manca mai.

Ma allora chi è che compra il pane nell’italia del XVII secolo?

Ad acquistare il pane, al tempo dei promessi sposi, così come al tempo di Manzoni, è la piccola e media borghesia, una cerchia sociale a cui lo stesso Manzoni appartiene, sono i mercanti, fabbri, artigiani, commercianti, locandieri, intellettuali, sono i servitori della nobili e dell’alta borghesia che lo acquistano per le proprie famiglie, sono le masse popolari che vivono nelle città e che, a differenza dei contadini nelle campagne, non hanno accesso diretto al cibo. Sono uomini e donne che per sopravvivere sono costretti ad acquistare del cibo, sono i figli della modernità inurbata che dipendono dal mercato, sono parte del mercato, sono la base del mercato e in quanto tali, per Manzoni, dovrebbero essere tutelati dalle entità statali, ma nel 1628, ciò non è possibile, ciò non è neanche pensabile, perché il padre di queste idee, John Loke, è nato nel 1632 e pensare il mondo che precede Loke, secondo i canoni dettati da Loke, rappresenta la perfetta definizione di anacronismo.

Nel mondo descritto dal Manzoni, e in parte anche nel mondo in cui vive il Manzoni, la filiera del pane, non fa il prezzo del pane, e credere che il prezzo del pane dipendesse dal costo della farina che a sua volta dipendesse dal costo di cereali, significa non comprendere la realtà storica del tempo e del mondo descritto da Manzoni, pensare ciò significa attribuire al contadino, l’ultimo anello della catena sociale nella società feudale, un potere enorme, il potere di decidere il prezzo del grano. Significa rileggere il passato in chiave moderna e sovrapporre le odierne meccaniche ad un mondo in cui queste meccaniche non esistevano.

Manzoni in parte da questo errore, lo fa volontariamente e per ragioni politiche, lo fa perché il mondo che racconta non è realmente il XVII secolo, ma p il XIX secolo travestito da XVII, di conseguenza le dinamiche sociali e tutti gli avvenimenti storici presenti nell’opera sono reinterpretati secondo canoni moderni, e se questo, da un punto di vista narrativo può essere interessante, da un punto di vista prettamente storico, è anacronistico, perché distorce il tempo e la storia.

I contadini nel XVII secolo non avevano potere decisionale sul prezzo dei cereali, sul prezzo del grano, ne il mugnaio aveva quel potere sul prezzo della farina. Lo stesso non lo si può dire totalmente nel XIX secolo, dove, i contadini non sono più lavoratori della terra e amministratori dei campi, ma sono semplici operai, soprattutto nelle campagne attorno Milano, e questo lo avrebbe rilevato circa mezzo secolo più tardi il conte Jacini, i contadini sono veri e propri operai della terra, che vengono stipendiati. Nella Milano del XVII secolo però, quando scoppia la rivolta del pane, il prezzo del grano, della farina, era determinato dal fornaio e solo dal fornaio.

Manzoni nei promessi sposi non parla e non cita la filiera, non perché è distratto o perché se n’è dimenticato, un particolare di questo tipo lo avrebbe inserito se fosse stato rilevante, ma non lo è, non nel XVII secolo almeno, Manzoni ha scelto di non inserire la filiera del pane nel libro perché sa perfettamente che le dinamiche economiche che regolano la filiera nel XVII secolo sono diverse dalle meccaniche del XIX secolo e sa anche che nel XVII è irrilevante nel determinare il prezzo finale del pane.

Non a caso, sempre nei Promessi Sposi, se da un lato le città soffrono la fame, le campagne risentono solo marginalmente della crisi. Nelle campagne il problema della peste è marginale e il problema del costo del pane non sussiste, e questo proprio perché nelle campagne i contadini il pane se lo fanno da soli, e i più poveri, si fanno da soli persino la farina, con delle piccole macine a mano che permettevano di macinare i cereali secchi e fare la farina, poca farina, facendo ruotare un disco di pietra in una scodella di pietra, o al più con dei rudimentali mortai in pietra, e strumenti analoghi erano presenti, fin dal primo medioevo, nelle case della maggior parte dei contadini d’europa.

Raccontare Manzoni come un liberista moderno, agli inizi del XIX secolo, è certamente anacronistico, ma non totalmente errato, in fondo Manzoni era un liberale, un diverso tipo di liberale, ma pur sempre un liberale che credeva negli ideali della società borghese, Manzoni crede negli ideali della destra storica, che però non è da confondere con il liberismo moderno, figlio delle teorie di Keynes. Usare le pagine dei promessi sposi per tracciare una qualche analogia con l’attualità, significa distorcere un opera, significa distorcere la realtà storica che racconta, già ampiamente distorta dall’autore per un preciso motivo storico oltre che politico, significa decontestualizzare quel racconto e ignorare tutto ciò che Manzoni ha scritto, detto e pensato, mancando totalmente di rispetto all’opera e all’autore.

Nei promessi sposi il prezzo del pane aumenta, aumenta tanto, e nell’aumentare rimane invenduto, questo è un qualcosa che nella realtà storica del XVII accade realmente, sia a Milano che altrove, ma ci sono anche altre zone d’italia e dell’europa in cui ciò non accade, come ad esempio Napoli, a Roma, a Firenze, ecc ecc.

Osservando e analizzando ciò che accade in quegli anni, possiamo notare che non c’è un modello unico, ci sono realtà in cui fissando il prezzo del pane, non scoppia una rivolta, e realtà in cui il prezzo del pane non aumenta, come ad esempio a Napoli.

A Napoli in particolare, e cito Napoli semplicemente perché è il caso che conosco meglio, la corona sosteneva una teoria economica particolare, a Napoli e nelle altre grandi città del “regno”, il grano non doveva mai mancare e in effetti, durante la peste del XVII secolo, il grano a Napoli e in altre città dell’italia meridionale, non venne a mancare e non ci furono grandi rivolte per il pane, il che può apparire surreale se si pensa che Napoli all’epoca era una delle più grandi megalopoli al mondo, la terza città più popolosa d’europa seconda solo a Londra e Parigi, città che di disordini ne avevano avuti diversi.

La crisi a Napoli e lo sa bene anche Manzoni, non si era verificata grazie all’intervento statale sul prezzo del grano e su quello del pane, fissato da molto prima che la crisi iniziasse, e lo stesso era successo anche altrove. Manzoni sa perfettamente, e dovremmo saperlo anche noi contemporanei, che non fu la decisione di fissare il prezzo del pane ad innescare la crisi del pane a Milano, quella decisione fu presa a crisi già iniziata e non fu sufficiente ad arginarla. fingere che la rivolta del pane sia in qualche modo connessa al blocco messo sul prezzo del pane, significa confondere causa ed effetto. Bloccare il prezzo del pane, ci dice Manzoni, non è stata la soluzione alla crisi, ma neanche il fattore scatenante.

Del resto, noi sappiamo che, durante la rivolta del pane, nel novembre del 1628, ciò che accadde fu che le masse popolari assaltarono i forni e i magazzini con la farina, e rubarono pane e farina. La presenza di enormi riserve di grano, pane e farina nei magazzini, di Milano come di Napoli, rendeva possibile e sostenibile la produzione, e a parità di crisi agraria di fondo, legata alla grande mortalità nelle città e nelle campagne, causata dalla peste, il pane continuava ad essere sfornato, ma, in città come Napoli la produzione non si arresta, il prezzo non lievita, e il pane viene venduto, a Milano invece, il pane viene prodotto nonostante la peste, ma il prezzo lievita e di conseguenza rimane in larga parte invenduto, cosa che normalmente farebbe crollare il prezzo del pane, ma ciò non avviene, il pane invenduto rimane nei forni per giorni, settimane, e questo alimenta l’insofferenza popolare che, in preda alla fame, insorse assaltando fornai e granai.

L’inchiesta Jacini

Poco dopo l’ultimata unificazione italiana, negli anni settanta e i primi anni ottanta del XIX secolo, il conte Stefano Francesco Jacini, fu messo a capo di una commissione agraria, con il compito di studiare e analizzare al situazione delle campagne italiane in quel dato momento storico, la commissione realizzò un documento, noto oggi come Inchiesta Jacini (oggi liberamente consultabile sul portale dell’archivio dei beni culturali della direzione generale dei beni culturali), in cui venne presentata una mappa della struttura agraria italica, viene definito il profilo delle campagne, delle città, della distribuzione dei contadini, inoltre raccoglie dati sulle evoluzioni e trasformazioni delle campagne italiane nell’ultimo secolo, e nel farlo scopre che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, diverse zone d’italia avevano adottato soluzioni differenti.

Napoli aveva fatto costruire grandi granai e la corona borbonica, dal 1772 circa, aveva quasi totalmente monopolizzato l’acquisto del grano e dei cereali dalle campagne attorno alle città, che veniva venduto ad un prezzo basso e costante ai forni cittadini, oltre che distribuito attraverso razioni, alle fasce più povere delle città. Contemporaneamente, le campagne non avevano subito molte variazioni e il grande latifondo continuava ad essere, come in passato, il modello su cui si fondavano le campagne, controllate da pochi nobili, e lavorate da masse di contadini poveri, ma raramente affamati.

Milano e la lombardia invece, avevano subito, nell’ultimo secolo un processo di lottizzazione, che aveva portato alla nascita di una piccola borghesia contadina, in cui i contadini non erano più affittuari, ma proprietari, questa autonomia li aveva in parte arricchiti ma allo stesso tempo, li aveva allontanati dalla terra.

Jacini, nella sua inchiesta rileva che la maggior parte dei proprietari terrieri dell’area intorno Milano, non viveva in campagna ma in città, e il lavoro della terra era stato affidato a contadini stipendiati, questa trasformazione caratterizza in modo particolare la prima metà del XIX secolo, e disegna una cartina delle campagne milanesi profondamente diversa rispetto a due secoli prima, ciò nonostante, le dinamiche sociali sono invariate. La piccola borghesia contadina, avrebbero osservato alcuni storici, si rapporta alle masse contadine, secondo gli antichi schemi, della società feudale, con la differenza, rispetto al passato, che le paratie che separavano le classi sociali erano ora, esclusivamente economiche, e non avevano più alcuna connotazione dinastica.

Conclusione

Leggere oggi, la rivolta del pane di milano del 1628, raccontata da Manzoni nel 1827, in chiave liberista moderna, è errato e anacronistico, perché si commette l’errore di reinterpretare il pensiero di un uomo del XIX secolo che a sua volta reinterpreta fatti del XVII secolo. Inoltre, questa reinterpretazione liberista del Manzoni appare ancora più fallace se la si guarda al netto di ciò che è emerso dall’inchiesta Jacini sul finire del XIX secolo.

Il mondo che descrive Jacini è il mondo in cui vive Manzoni, e Manzoni mentre il mondo che descrive Manzoni, è il mondo antico, un mondo che sopravvive parzialmente in Italia settentrionale, e in maniera più radicata nell’Italia meridionale, ma è un mondo al tramonto e prossimo al tracollo, Manzoni sa o almeno ipotizza che quel mondo sta per finire, Manzoni conosce il malcontento popolare, sa bene che l’europa è in subbuglio, e se bene non sappia esattamente cosa sta per accadere, percepisce la tensione che allo scoppio di nuove rivoluzioni di lì a poco tempo, Manzoni è immerso nella storia e frequenta precisi ambienti in cui circolano idee liberali.

Alessandro Manzoni è un uomo dell’ottocento, che reinterpreta il seicento rivestendolo delle dinamiche sociali dell’ottocento, e fin qui, è tutto ok, Manzoni lo perdoniamo perché dà lui stesso una motivazione ben precisa alla sua scelta narrativa.

Il racconto di Manzoni non anacronistico, la sua è narrativa che fa critica sociale e politica utilizzando un escamotage narrativo.

Quello che invece non va bene, e ricade nel problema dell’anacronismo è prendere la narrazione ottocentesca del Manzoni, fingere che quella narrazione rielaborata sia una realtà storica e porla al confronto con il XXI secolo.

Se vogliamo parlare della rivolta del pane di Milano del 1628, dobbiamo valutare i fatti per ciò che sono, e non in base alla narrazione revisionata dal Manzoni.

Se invece vogliamo parlare della questione agraria nel XIX secolo, vi consiglio il libro di Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi.

Bibliografia

A.Manzoni, I promessi sposi.
C.Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi.
C.Barberis, Le campagne italiane da Roma antica al settecento.

My 2 Cent On: Irene Pivetti

La Mia personale opinione su Irene Pivetti, una donna che in trent’anni ha cambiato partito e orientamento politico almeno sette volte, passando da destra a sinistro al centro, per poi tornare a destra.

Per la rubrica My 2 Cent on, questa settimana voglio darvi la mia opinione personale su Irene Pivetti, e nel farlo voglio ripercorrere la sua carriera politica.

Parliamo di una carriera meravigliosa sono ironico in cui ci sono più colpi di scena che in Lost, e proprio come in Lost, la maggior parte di questi, sono sì spettacolari, ma privi di una spiegazione (my personal opinion, se voi avete trovato un senso in Lost possiamo parlarne nel gruppo della gilda).

Gli anni della Destra

La carriera politica di Irene Pivetti inizia nel 1989, si ferma nel 2002 e riparte nel 2013, per poi credo fermarsi definitivamente nel 2020, visto che attualmente è indagata e le probabilità che venga condannata sono estremamente alte.

La militanza nella Lega Nord

Partiamo comunque dalle origini,da quel lontano 1998 quando la Pivetti inizia a militare attivamente (diventa anche deputata eh) con Lega Nord per l’Indipendenza della Padania (voi non avete idea di quanto mi piaccia usare i nomi completi dei partiti) che all’epoca era un partito dichiaratamente anticomunista, antisocialista, di estrema Destra, e aveva l’intento di dividere l’Italia (quindi tecnicamente anche incostituzionale, e ancora oggi è un mistero come, nel parlamento italiano, possa sedere un partito che all’articolo uno, dichiara di avere come fine la secessione dell’Italia, ma vabbè).

Dopo la lega

Nel 1996 viene Espulsa dal partito e in cerca di un nuovo tetto, decide di entrare in Italia Federale, praticamente un partito di comodo, creato ad hoc per spalmare candidati che dovevano entrare in parlamento in altri partiti da poi inserire in coalizione con il centro destra.

Praticamente è un partito nato per garantire l’accesso al parlamento ad alcuni nomi illustri di Lega e Forza Italia, il cui programma politico era letteralmente quello della lega, ma dal quale erano stati omessi tutti i riferimenti alla padania e nel quale erano stati usati toni apparentemente più moderati. Il ché lascia pensare che forse non era stata realmente espulsa dalla Lega, ma l’espulsione era funzionale alla nascita di questo nuovo partito per la coalizione. In ogni caso, i partito praticamente smette di esistere il giorno dopo le elezioni.

Nel 1998, con una nuova campagna elettorale alle porte, e una profonda crisi sociale in Italia, legata alla questione migratoria e la guerra in Kosovo (di cui prometto, prima o poi vi parlerò) la Pivetti lascia Italia Federale ed entra in Rinnovamento Italiano, il partito di Lamberto Dini (che, alla luce degli gli ultimi mesi di governo Conte, ha ripreso il proprio posto in cima alla lista dei politici e capi di governo più inutili della storia italiana). Questo partito, è in coalizione con il centrosinistra, una coalizione guidata dall’Ulivo, (e vabbè).

Nel 1999 cambia ancora partito e si candida con UDEUR, questa volta un partito che raccoglie esuli di altri partiti, in primis DC e Ulivo, ma anche orfani di altri partiti in coalizione (Praticamente era una specie di Movimento Cinque Stelle, misto a LeU, in cui c’erano i delusi della vecchia politica di destra, di sinistra, e gente a cui andava bene di tutto purché non ci fosse D’Alema) e rimane in questo partito fino al 2002 poi lascia la politica… almeno per un po’.

Giornalista e Conduttrice TV

Per circa 10 anni, negli anni in cui la politica italiana è stata monopolizzata dal binomio PdL – PD, (2002-2013) la Pivetti non trova spazio ne in questi grandi partiti ne in partiti minori, e quindi lascia stare la politica e si improvvisa giornalista e presentatrice TV, dove, grazie alla amicizie politiche e la popolarità della sorella, non ha difficoltà a vedersi affidare la conduzione di programmi in prima e seconda serate, oltre che nelle fasce pomeridiane (è il caso di dire, W la meritocrazia…)

Il ritorno alle origini

Nel 2013, con la frantumazione del binomio PD-PdL, e la nascita di una moltitudine di partiti dal 3% che gonfiano le coalizioni, la Pivetti torna alla carica, e nel 2013 si fionda nelle liste della Fondazione dei Cristiani Popolari, un partito di ispirazione cristiana, come le precedenti esperienze politiche, ma, questa volta, in coalizione con il Centro Destra per poi dare supporto al nuovo centro destra di Alfano.

Nel 2016 il Centro Destra cambia rotta e la Pivetti cambia di nuovo bandiera, passando e con una piroetta degna di un artista Circense, ritorna alle origini e torna alla Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, il cui nuovo orientamento è di Destra radicale sovranista (anche se nello statuto dicono ancora di volere la secessione dell’Italia, ma vabbè).

La Pivetti lo abbiamo imparato, non rimane in un partito troppo tempo, dopo un po’ sente il bisogno di cambiare aria e nel 2018 passa ad Italia Madre, questa volta un partito di Centro, alleato di Forza Italia e che si oppone al Governo Giallo Verde, e poi, nel 2019, passa a Forza Italia e si oppone al governo Giallo Rosso e in fine, nel 2020, si ritrova al centro di un inchiesta/scandalo legato all’importazione di materiale sanitario non certificato e apparentemente contraffatto, il cui esito sarà rivelato dalla magistratura nei prossimi mesi o anni.

Conclusioni

In 30 anni, Irene Pivetti ha cambiato bandiera sette volte, passando da un partito di Estrema Destra ad uno di Centro Destra, per poi passare al Centro, poi al Centro Sinistra, Per poi tornare al Centro, poi di nuovo Centro Destra, Destra Estrema e Centro Destra.

Direi quindi che nessuno si sentirà offeso se la definirò Lady Tergicristallo, vista la sua inclinazione a passare da destra a sinistra e sinistra a destra, e cambiare orientamento politico a giorni alterni.

La mia opinione su questo personaggio, potete facilmente intuirla, è quella che potrei avere di una trasformista di fine ottocento, una donna che cambia orientamento, partito e ideali, per pura convenienza, oggi è di destra, domani di sinistra, dopo domani chissà.

Vi invito a continuare la discussione nel gruppo della Gilda degli Osservatori, il mio gruppo e per rimanere aggiornati, vi invito ad iscrivervi al canale telegram La Gilda di Historicaleye.

Opinioni diverse dalla mia sono sempre ben accette, soprattutto su Lost, il cui finale, è un po’ troppo raffazzonato e inconcludente per i miei gusti, personalmente avrei preferito qualche chiarimento in più, anzi, qualche chiarimento e non una serie di giustificazioni di comodo incoerenti con la storia.