Nasce l’ufficio della Fede alla Casa Bianca

trump mette in scena l’ultima cena nello studio ovale. Si autoproclama santo e inaugura l’ufficio della Fede, per reprimere i propri oppositori, in una moderna a suo dire, in difesa dei valori del cristianesimo. Tra i suoi obbiettivi, anche il pontefice e la santa sede.

Nel pieno di uno scontro politico senza precedenti tra la Casa Bianca e la Santa Sede, ma soprattutto, mentre si tagliano dipartimenti federali, vitali per la democrazia USA, il presidente Donald Trump sembra abbia attivato l’Ufficio della Fede alla Casa Bianca, al fine di rafforzare il ruolo della religione nella sfera pubblica e politica degli Stati Uniti. In altri termini un tentativo di rendere gli USA una “teocrazia laica“. Trump aveva infatti già espresso in passato la propria volontà di rimettere la religione, non la fede sia chiaro, al centro del Paese, e l’istituzione di questa nuova struttura rappresenta un passo importante e soprattutto concreto verso tale obiettivo.

Ma cosa implica e cosa significa tutto ciò? cerchiamo di capirlo in maniera analitica, e per farlo ci serve qualche informazioni sul ruolo della religione (non la fede) nella politica. Passeremo rapidamente al setaccio i vari utilizzi politici della religione nel corso dei secoli, dall’antichità pre-cristiana, fino alle dittature novecentesche, cercando di individuare gli elementi chiave. Prima però, cosa sta succedendo negli USA?

Contesto e simbolismo

Secondo quanto riportato dai media internazionali, Trump ha di recente organizzato una cerimonia nello Studio Ovale, che i più hanno descritto come una sorta di “ultima cena”, in cui il presidente si mostra al popolo statunitense come una sorta di messia, circondato leader religiosi e dalla telepredicatrice evangelica Paula White, da tempo consigliera spirituale di Trump.

L’evento è stato immortalato una foto è stato poi condiviso su X, dall’account ufficiale della Casa Bianca, accompagnato da una citazione della Bibbia e un messaggio dello stesso presidente Trump, che si augura di lasciare al mondo la sua opera “pacificatrice e unificatrice” come eredità.

Messaggio che per molti è in aperto contrasto con le politiche anti immigratorie, fortemente divisive, xenofobe, e di forte intolleranza etnica e religiosa, promosse da Trump e i suoi sostenitori.

Durante l’evento, la predicatrice e consigliera spirituale di Trump è intervenuta sostenendo che “opporsi a Trump equivale a opporsi a Dio” per poi sostenere di avere “l’autorità per dichiarare la Casa Bianca luogo santo” grazie alla sua presenza dello stesso Trump, qualcosa che forse neanche Napoleone, che si è autoincoronò imperatore dicendo che la corona l’aveva ricevuta da Dio, avrebbe avuto l’ardire di sostenere per se stesso.

Di cosa si occuperà l’ufficio della fede di Trump?

Al momento i dettagli operativi dell’Ufficio della Fede non sono ancora stati ancora resi noti, ma basandosi sui discorsi elettorali e il programma di Trump, l’intenzione del presidente sembrerebbe essere quella di contrastare ciò che Trump definisce “discriminazioni anticristiane” e “attacchi contro la religione”, e in questi attacchi, potrebbero rientrare anche le “aperture” del Vaticano e le critiche mosse da papa Francesco nei confronti di Trump e delle politiche discriminatorie e della sua amministrazione, soprattutto per quanto riguarda la striscia di Gaza, la gestione e deportazione dei Migranti e il trattamento di omosessuali.

In passato Trump aveva anche annunciato la creazione di una task force speciale, il cui obbiettivo sarebbe stato quello di fermare tutte le forme di discriminazione e attacco anticristiano all’interno del governo federale, e l’ufficio della Fede alla casa bianca potrebbe essere direttamente collegato a tale progetto che, sempre secondo le accuse di Trump, potrebbe mobilitarsi contro DOJ (Dipartimento di Giustizia), l’Internal Revenue Service (IRS) e l’FBI, a più riprese accusate da Trump, di qualsiasi cosa, e in questo caso specifico, di aver adottato politiche ostili nei confronti dei valori cristiani.

L’iniziativa ha sollevato dibattiti e critiche, soprattutto tra coloro che vedono in questa mossa un tentativo di favorire una visione religiosa specifica (il cristianesimo) e pretestuosa, a discapito della neutralità dello Stato, al fine unico di perpetuare la vendetta di Trump su coloro che non ha potuto colpire perché in posizioni blindate dalla costituzione. Diversi osservatori hanno inoltre sottolineato come Trump abbia spesso utilizzato il tema della religione come strumento politico, accusando i democratici di essere “contro la religione e contro Dio”. Questo approccio polarizzante rischia di alimentare ulteriori tensioni sociali, specialmente in un contesto caratterizzato da crescenti divisioni culturali e ideologiche, spesso alimentate proprio dallo stesso Trump.

Uso della religione come strumento politico

L’uso della religione come strumento politico è un fenomeno che attraversa tutta la storia umana, e alcuni sociologi particolarmente critici nei confronti della religione, ritengono che essa, si sia diramata dal mito, strumento di comprensione del mondo, proprio per essere uno strumento di controllo politico.

Dal mondo pagano pre-cristiano alle moderne “religioni laiche” dei regimi dittatoriali, la religione ha quasi sempre avuto due funzioni politiche, legittimare il potere dei governanti, generalmente intermediari tra divinità spirituali o laiche, e il popolo.

Nell’antico Egitto, i faraoni erano considerati divinità viventi e qualcosa di analogo avveniva nel mondo romano, l’imperatore era oggetto di culto religioso, il “culto dell’imperatore”, che serviva a consolidare l’unità dell’impero e rafforzare la sua autorità. tale culto è stato ripreso in epoca cristiana, per legittimare e rafforzare l’autorità del Papa, e più di recente, nel XX secolo, da dittature moderne come il Fascismo che elevarono Mussolini a nume vivente, e come lui e dopo di lui anche Hitler e Stalin.

Il cristianesimo rese la religione un elemento cardine delle strutture politiche della tarda antichità e dell’Europa medievale, in particolare il sacro romano impero, provò e in parte riuscì a fondere il potere temporale e quello spirituale, tale fusione, che portò per secoli l’imperatore a ricercare la legittimazione dalla Chiesa cattolica, fu anche ragione e motore di importanti conflitti epocali tra papato ed impero.

In età moderna, Machiavelli teorizzò l’uso politico della religione come strumento strategico per mantenere il controllo e garantire ordine ed obbedienza da parte dei sudditi. Teorie che avrebbero profondamente influenzato il pensiero politico da lì in avanti.

Nel XIX e XX secolo, l’uso della religione come strumento politico si manifestò in forme nuove e più radicali, soprattutto nelle dittature moderne. Mussolini fu il primo nume vivente della storia, e riuscì a costruire attorno a se una vera e propria fede laica che permane tutt’oggi. Un tentativo analogo venne fatto, con altrettanto successo e declinazioni diverse, da Adolf Hitler e Iosif Stalin. I tre dittatori, pur non essendo particolarmente religiosi, utilizzarono elementi del cristianesimo e del paganesimo per costruire una narrazione ideologica che legittimasse il proprio potere, nel caso di Stalin il cristianesimo venne sostituito dal “vangelo secondo Marx” che si tradusse in una repressione sistematica delle religioni in nome di un ateismo di Stato, che altro non era che una religione laica.

Usare la religione per reprimere

Nel mondo in cui viviamo, la religione e la fede hanno preso strade sempre più lontane, da un lato vi è la fede intima e personale di ogni individuo, che trascende le diverse ritualità ed ha una valenza universale, in cui l’uomo che tende al divino ha il dovere di “comportarsi bene” e prendersi cura degli altri, e dall’altro, vi è la religione che si è fusa con la “politica” e le politiche di stato, creando regimi per lo più chiusi e oppressivi.

La maggior parte degli stati in cui la religione è oggi fortemente fusa con il potere politico, fanno un uso sistemico della religione e l’appartenenza religiosa, come strumenti di repressione, guardiamo ad esempio all’Afghanistan, all’Iran, ma anche ad Israele e nella declinazione laica del concetto religioso, alla Cina. Da questo punto di vista gli Stati Uniti non sono nuovi all’uso della religione come strumento di repressione.

Un esempio concreto lo possiamo riscontrare negli anni della caccia alle streghe, che raggiunse il proprio apice durante i processi di Salem (1692-1693). Tale fenomeno fu emblematico di come la religione, in combinazione con paure sociali e politiche, possa essere facilmente strumentalizzata per reprimere il diverso e consolidare il controllo sociale.

Il XVII secolo può sembrare lontanissimo da noi, eppure, il ricorso alla religione, alla fede, per contrastare la paura del diverso, è qualcosa che ci accompagna ancora oggi. Pensiamo alla diffidenza da parte di una fetta enorme dell’opinione pubblica nei confronti di Islamici, o Ebrei, o Comunisti, e in altre parti del mondo, come il mondo islamico, nei confronti di Ebrei, Comunisti e Cristiani.

Il mondo occidentale, soprattutto le destre più radicali, dagli USA all’Europa, criticano aspramente e duramente la repressione basata su canoni religiosi operata dai Talebani in Afghanistan o dalla Guardia rivoluzionaria in Iran, alcuni guardano con diffidenza alla repressione compiuta dalla destra del governo Israeliano, eppure, quella stessa “destra” radicale e conservatrice che trova iniqua la discriminazione religiosa, propone a sua volta, una narrazione politica di esaltazione di una religione da porre al di sopra delle altre e, in nome della tradizione, chiede e in alcuni casi prova a mettere in atto una forte repressione nei confronti di altre religioni.

La strage di Addis Abeba del 1937

È è il 19 febbraio 1937, ci troviamo in Etiopia, più precisamente ad Addis Abeba, quel giorno il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani e parte delle autorità italiane presenti in Etiopia stanno partecipando ad una cerimonia presso il recinto del Piccolo Ghebì del Palazzo Guenete Leul. La cerimonia però, viene brutalmente interrotta dall’esplosione di alcune bombe a mano lanciate dalla folla contro le autorità.

Si tratta di un attentato compiuto da due giovani ribelli etiopi che avrebbe innescato il più grande massacro di civili, ad opera dei fascisti nella storia d’Italia, noto come strage di Addis Abeba o massacro di Graziani, sintetizzabile in una rappresaglia di tre giorni di violenze assoluta e indiscriminata ad opera delle milizie fasciste tra il 19 e 21 febbraio 1937. Questa sintesi tuttavia è fin troppo benevola nei confronti dei coloni, poiché non tiene traccia di alcuni tratti peculiari che rendono questa strage molto più di una semplice rappresaglia durata tre giorni.

La violenza sistemica è infatti un tassello importante della strategia coloniale fascista, ed episodi analoghi, se pur di intensità e portata minore, hanno accompagnato l’intera esperienza coloniale dell’Italia degli anni 30.

Ho voluto quindi produrre un racconto, il più possibile ricco di documenti e testimonianze, per inquadrare e contestualizzare al meglio ciò che accadde durante i tre giorni (e non solo) della strage di Addis Abeba. L’analisi di questa tragedia, si basa prevalentemente su documenti ufficiali italiani oltre a testimonianze dirette, lettere e telegrammi, e le più ampie narrazioni di questi eccidi, magistralmente raccontato in “Il massacro di Abbis Ababa, una vergogna italiana” di Ian Campbel, edito in Italia da Rizzoli, e l’opera monumentale di Angelo del Boca, “Italiani Brava Gente?” che a differenza del saggio di Campbell, fornisce un quadro generale sull’italiano nuovo concepito e prodotto dal regime fascista e i suoi crimini dentro e soprattutto fuori dall’Italia geografica e imperiale.

L’attentato a Graziani e la strage di Addis Abeba

Come anticipato, la strage di Addis Abeba di base è una rappresaglia innescata da un attentato al viceré Rodolfo Graziani. Da quel che sappiamo sull’attentato i responsabili furono due giovani etiopi, membri della resistenza e affiliati ad un gruppo noto come Yechebooch Tarik, letteralmente Giovani Etiopi, un movimento costituito prevalentemente da intellettuali, studenti e religiosi, che si opponevano al dominio coloniale italiano. Tra di loro militano anche, Abraha Deboch, un giovane etiope che aveva studiato in Italia e Moges Asgedom, anch’egli educato in istituti italiani e secondo le fonti ufficiali, questi due giovani furono gli organizzatori ed esecutori dell’attentato al viceré Graziani.

La narrazione ufficiale vuole che i due attentatori riuscirono ad infiltrarsi tra la folla, portando con sé alcune bombe a mano nascoste nei cesti della frutta e durante la cerimonia, lanciarono quegli ordigni verso il palco riuscendo a ferire gravemente Graziani e altri cinque ufficiali italiani.

Sempre secondo la narrazione ufficiale, unica testimonianza che abbiamo sull’attentato, poiché tutti i partecipanti non fascisti alla cerimonia non sono sopravvissuti alla strage, il caos scaturito dalle esplosioni offrì ai due attentatori la possibilità di lasciare la piazza, fuggire e nascondersi temporaneamente. Nonostante la fuga, le fonti ufficiali ci dicono che gli attentatori vennero individuati e catturati la stessa mattina del 19 febbraio, e senza troppe cerimonie e indagini, immediatamente giustiziati e i loro corpi esposti pubblicamente come monito per la popolazione.

Si potrebbe discutere ampiamente su questa narrazione che propone una straordinaria efficacia delle autorità fasciste nell’individuare e catturare i due attentatori, ma non è da escludere che sia vera, anzi, è probabile che molti etiopi, pur di evitare rappresaglie, collaborarono con le milizie fasciste. Certo, una collaborazione che col senno del poi fu totalmente inutile visto che le rappresaglie iniziarono ugualmente dopo la cattura dei presunti attentatori, ma questa è un altra storia.

L’esibizione pubblica dei corpi degli attentatori, giocava un ruolo politico, era un messaggio aperto e diretto alla popolazione, stava a significare “questa è la fine di tutti i ribelli”, e non fu un caso unico, l’esposizione in pubblica piazza dei corpi dei ribelli uccisi, era in vero una prassi nel regime fascista che fu presto importata anche dal regime nazista, che fu ampiamente usato dall’Italia in Etiopia, durante l’occupazione dell’Istria e Dalmazia e durante la guerra civile italiana, dove ad essere esibiti erano i corpi dei partigiani italiani.

Esibire i corpi senza vita degli attentatori serviva a diffondere paura e terrore e reprimere la resistenza nell’orrore di quello scempio, tuttavia, quell’esibizione di violenza, incendiò lo spirito dei coloni fascisti, che videro in quell’attentato al viceré Graziani un pretesto per dare libero sfogo a tutto l’odio che provavano nei confronti degli indigeni e così, fin dalla mattina del 19 febbraio, i coloni italiani in Etiopia massacrarono migliaia di persone, i più fortunati vennero passati per le armi, altri vennero bastonati a morte, altri ancora, bruciati vivi insieme alle proprie abitazione, e si stima inoltre che interi villaggi, alle porte di Addis Abeba, vennero sterminatiti con armi chimiche. E sulle armi chimiche usate dall’Italia in Etiopia si potrebbe parlare ancora a lungo, ma non è questo il luogo.

L’insieme di questi elementi rende la strage di Addis Abeba del 1937 uno dei capitoli più oscuri della storia italiana, un episodio caratterizzato da una brutalità e una disumanità senza eguali ne precedenti nella storia, al cui confronto le mutilazioni attuate da Leopoldo del Congo sembrano un trattamento quasi umano. I documenti ufficiali, le lettere, i telegrammi dell’epoca e le testimonianze, ci dicono che, contrariamente a quanto sostenuto da Montanelli, quella rappresaglia non fu un atto isolato, ma era parte di una strategia deliberata per annientare e reprimere nel sangue ogni qualsivoglia forma di resistenza da parte della popolazione etiope.

Contesto storico del massacro

La strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 ed il 21 febbraio 1937, si colloca come anticipato nel contesto generale del colonialismo fascista. L’Italia ha iniziato la propria avventura coloniale nel corno d’africa da poco più di un anno, la campagna di Etiopia è iniziata nell’ottobre del 35 e si è rapidamente conclusa nel maggio del 36, e Graziani è viceré di Etiopia da appena otto mesi, ha ricevuto l’incarico nel 36.

L’attentato non è letale, Graziani sopravvive all’attentato, in effetti Graziani sopravvive anche al Fascismo visto che nel 1953 succede alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia, e sebbene gli attentatori, come abbiamo visto, furono prontamente catturati e giustiziati, la reazione italiana, anzi, la reazione fascista, fu immediata, violenta e soprattutto sproporzionata.

Le rappresaglie dei tre giorni successivi produssero circa 19.000 vittime etiopi nella sola Addis Abeba, numeri che superano i 30.000 se si tiene conto anche delle vittime nei villaggi limitrofi e cresce esponenzialmente se si tiene traccia anche di altre rappresaglie, successive al 21 febbraio, giustificate dalla possibile collaborazione con gli attentatori del 19 febbraio.

Restando ad Addis Abeba, le strade si tinsero di rosso, il cielo fu fu quasi oscurato dalle fiamme delle capanne, al cui interno erano bloccati gli indigeni e sui cui tetti venne versata benzina uccidendo i più fortunati per asfissia mentre altri bruciarono vivi e in preda al terrore. Nella corrispondenza e nei diari dei coloni troviamo un racconto macabro di quei giorni e di quei massacri, alcuni di loro vanno fieri di aver bruciato capanne con dentro intere famiglie, altri ancora di aver bastonato a morte uomini donne e bambini, prima di bruciare i loro corpi. Qualcun’o dichiara di aver stuprato donne di fronte ai mariti e figli prima di ucciderli ‘altro va anche oltre.

Paradossalmente però, nonostante abbiamo una vasta documentazione su tali crimini, e nella maggior parte dei casi sono gli stessi coloni fascisti ad ammettere di aver massacrato civili etiopi, nessuno di loro, durante e dopo il regime fascista, è stato processato. Lo stesso Rodolfo Graziani, che ha ordinato le rappresaglie ed ha chiesto al ministero delle colonie l’autorizzazione ad usare armi chimiche contro la popolazione civile, come forma di rappresaglia per l’attentato subito, non verrà punito e anzi, in età repubblicana grazie alla “grande amnistia” per la pacificazione nazionale, voluta un po’ dalla P2 un pò da pressioni USA, avrà modo di tornare a fare politica e nel 53 succede a Juno Valerio Borghese alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia.

Tornando alla strage di Addis Abeba, in termini puramente numerici essa rappresenta una delle più ampie rappresaglie coloniale di cui abbiamo traccia nella storia italiana, e in termini più ampi intesa come un massacro su larga scala, pochi eventi nella storia hanno fatto più vittime in così poco tempo, vi lascio immaginare quali.

Come già detto, quella strage non fu l’unica, ne la prima o l’ultima. Episodi analoghi, seppur di portata minore, accompagnano l’intera esperienza coloniale dell’Italia fascista poiché, come vedremo a breve, la violenza era una delle colonne portanti del regime. Nel solo contesto coloniale le autorità fasciste cercarono, ovunque si insediarono, di consolidare il proprio potere ed il controllo sulla popolazione civile attraverso l’uso sistemico della violenza.

Documenti Ufficiali e Fonti Primarie

Ciò che sappiamo della strage di Addis Abeba ci arriva prevalentemente da documenti ufficiali, in particolare documenti dell’allora Ministero delle Colonie, tra questi documenti anche lettere e telegrammi, ma anche diari privati. Tra i documenti più importanti che possiamo consultare una serie di telegrammi tra gli uffici di Graziani ad Addis Abeba e il ministero delle colonie, in cui il viceré chiede l’autorizzazione a reprimere la rivolta, usando anche armi chimiche, e le rispettive risposte da parte di funzionari di Roma tra cui lo stesso Mussolini. Tra questi documenti spicca un telegramma datato 19 febbraio 1937, si tratta di una risposta inviata da Mussolini in persona, in cui si diceva che “Tuitti i civili e religiosi, comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi.”

Questo telegramma fa parte di un più ampio scambio di comunicazioni, di cui però non abbiamo traccia nella sua interezza. Sappiamo però che una delle risposte, datata 20 febbraio, è un telegramma inviato dal generale Pietro Maletti al ministero delle colonie, con cui il generale fornisce un resoconto dettagliato delle misure adottate per “punire esemplarmente” la popolazione locale, ed è importante sottolineare che Maletti parla di punire la popolazione, non i ribelli.

Altri documenti ci forniscono una panoramica più ampia sulla strage, fornendo una serie di dettagli macabri sulle atrocità commesse, prima, dopo e durante i tre giorni di rappresaglia. Particolarmente significativa alcune lettere del capitano Luigi Frusci inviate al comando centrale, lettere in cui scriveva che “La lezione deve essere severa affinché nessuno osi più sfidare la potenza dell’Italia“, si confermano poi esecuzioni sommarie e la distruzione di interi villaggi.

Scavando tra questi documenti è possibile imbattersi in testimonianze estremamente crude e raccapriccianti, alcuni di essi ad esempio ci raccontano la metodologia, estremamente efficiente e crudele, con cui si giustiziavano i ribelli. Angelo del Boca in Italiani brava gente? Riporta alcuni di questi episodi, uno dei quali è così riducibile. Decine di uomini in catena venivano condotti in una cava, lì, un telo copriva le loro teste e uno alla volta venivano scoperti e passati per le armi. Uno dopo l’altro tutti i prigionieri venivano giustiziati, tuttavia, essi incatenati tra loro, non avevano modo di sapere quando sarebbe stato il proprio turno per morire.

La maggior parte dei documenti che abbiamo a testimonianza della strage di Addis Abeba e degli eccidi sistemici nell’Italia coloniale, sono diventati di pubblico dominio solo molti anni dopo la fine del regime fascista e la fine della prima repubblica. Basti pensare che per un ammissione del Ministero degli Esteri sull’uso di armi chimiche in Etiopia durante la guerra coloniale, tra 1935 e 1936, abbiamo dovuto aspettare il 1996. In effetti la maggior parte di questi documenti sono diventati “accessibili intorno alla metà degli anni novanta.

Oggi telegrammi e lettere tra funzionari al seguito del viceré Graziani e il ministero delle colonie e le varie corrispondenze tra governo e le cancellerie estere, sono conservati principalmente presso l’archivio di stato diplomatico, altri documenti, come ordini operativi e rapporti sono invece conservati presso l’archivio centrale dello stato, per quanto riguarda lettere private e diari, alcuni di questi sono relativamente di pubblico dominio e fanno parte di fondi e collezioni private aperte al pubblico, altre invece sono completamente blindate.

La reazione internazionale alla strage

Un avvenimento così violento e incisivo, come la strage di Addis Abeba, non poteva passare inosservato alle cancellerie estere o alla Società delle Nazioni. Sappiamo a tale proposito che il regime cercò di minimizzare l’avvenimento, mettendo in funzione a pieno regime la macchina della censura ma alcune informazioni riuscirono comunque fuoriuscire dall’Etiopia causando alcune critiche, che tuttavia si risolsero in un nulla di fatto.

All’atto pratico abbiamo tanto fumo ma poca sostanza, dovuta soprattutto alla debolezza della Società delle Nazioni, l’organo internazionale più significativo dell’epoca, il cui potere tuttavia era pressocché nulla. La società era in effetti già intervenuta nel 1935 ammonendo l’Italia per la propria iniziativa coloniale, ammonizione che tuttavia non scosse minimamente il regime e non ebbe nessun effetto, così, nel 37, all’indomani della strage di Addis Abeba, la società delle nazioni, scelse il silenzio e la neutralità.

Come dicevamo, nonostante i tentativi di censura di Graziani e del Regime in Italia, qualche notizia sulla gestione delle rappresaglie trapelò e negli uffici diplomatici di Francia e Regno Unito troviamo traccia di queste informazioni, iniziarono infatti a circolare numerosi rapporti che rivelavano una crescente preoccupazione per le violenze perpetrate dal regime fascista in Etiopia. In un documento del Foreign Office Britannico la repressione italiana viene descritta come “una campagna di terrore senza precedenti”. Nonostante queste partole però, ciò che preoccupava realmente Francia e Regno Unito era altro, è il febbraio del 1937 e da lì a qualche mese il ministro degli esteri britannico, Lord Halifax, avrebbe rassicurato persino Hitler, considerando la Germania Nazista l’ultimo baluardo dell’Europa civilizzata contro la barbarie bolscevica.

Lo stesso vale per l’Italia, la brutale repressione dei “ribelli” etiopi passa in secondo piano rispetto all’ombra più minacciosa e imminente che aleggia sull’Europa, ovvero la minaccia Sovietica che il fascismo aveva sradicato dall’Italia come si fa con una pianta infestante, di conseguenza, temendo di compromettere i buoni rapporti con Mussolini, in vista di un possibile scontro con i sovietici, si decise di per il non intervento.

L’unica potenza estera che espresse formalmente la propria preoccupazione, pur rimanendo comunque neutrale nei confronti dell’Italia, furono gli Stati Uniti. Sappiamo infatti che alcuni diplomatici statunitensi, non direttamente presenti in Etiopia, inviarono a Washington diversi rapporti basati su testimonianze indirette con cui documentavano in modo dettagliato le atrocità commesse dalle truppe italiane in Etiopia. Questi resoconti sono conservati presso gli archivi del dipartimento di stato e sono pubblicamente consultabili.

C’è in sostanza una marginale preoccupazione internazionale per le violenze italiane in Etiopia, ma siamo sul finire degli anni 30 del novecento, e l’opinione pubblica mondiale non è più solo l’opinione e la posizione ufficiale dei governi. Esistono in quel tempo e si stanno diffondendo su scala globale i primi movimenti anticoloniali, e questi, appresa la notizia della strage di Addis Abeba, ne fecero un simbolo, un evento emblematico delle ingiustizie del dominio coloniale.

Tali movimenti, va detto che nel 37 erano poco più che delle voci minori e con poco seguito ed ebbero maggior successo dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma già nel 37 provarono a far sentire la propria voce, coinvolgendo intellettuali e attivisti di tutto il mondo, denunciarono pubblicamente le violenze italiane con pamphlet e articoli sui propri giornali indipendenti che mettevano in evidenza la sistematicità delle rappresaglie italiane e chiedevano giustizia per le vittime. Tale mobilitazione però, non ebbe molto successo.

Anche in Italia, nonostante il tentativo di censura voluto dal regime, qualche notizia trapelò, suscitando qualche critica nei confronti delle politiche coloniali del regime stesso, considerato promotore e mandante di tali violenze, critiche che tuttavia venne etichettate quasi immediatamente come propaganda del Partito Comunista Italiano che attraverso i propri pamphlet e articoli pubblicati soprattutto all’estero, cercava di mettere in cattiva luce l’opera civilizzatrice del governo fascista e dell’impresa coloniale italiana in Etiopia.

L’emblematico caso di Debre Libanos e la testimonianza diretta

Scavando tra le lievi voci fuori dal coro, che sopravvissero alla macchina della censura del fascismo, troviamo una delle testimonianze più agghiacciante degli eventi di quei giorni, si tratta della testimonianza diretta di un monaco del monastero di Debre Libanos, dove settimane dopo la fine delle rappresaglie da parte dei civili, i soldati italiani massacrarono oltre 2000 persone tra monaci e pellegrini accusati di aver partecipato e sostenuto la resistenza. Il monaco, in un intervista degli anni 60 ha raccontato dettagliatamente cosa accadde agli inizi di maggio del 1937 nel monastero di Debre Libanos e la sua testimonianza integrale è riportata nel libro di Ian Campbell, Il Massacro di Addis Abeba, una vergogna italiana, qui lascio solo un breve estratto.

“Le truppe arrivarono all’alba, bruciarono le case e uccisero chiunque cercasse di fermarli. Molti furono costretti a scavare le proprie fosse prima di essere fucilati”

Ciò che emerge dalle testimonianze dei superstiti di Debre Libanos, oltre all’inaudita violenza di quelle ore, è il modo surreale e pretestuoso con cui i gli le milizie fasciste giustificarono quelle azioni. Nel monastero di Debre Libanos i soldati italiani giunsero alle prime luci dell’alba, mesi dopo la fine della strage e accusarono i monaci di aver partecipato o sostenuto attivamente la resistenza etiope, accuse infondate e pretestuose, finalizzate esclusivamente a legittimare un massacro di innocenti, ma che partono dal telegramma di Mussolini del 19 febbraio. Quello in cui dice di passare per le armi tutti i civili e religiosi, sospettati di un coinvolgimento con la resistenza.

Non era importante che ci fosse un collegamento reale, era sufficiente un pretesto, per giustiziare decine, centinaia, migliaia di persone. L’episodio di Debre Libanos è collegato solo indirettamente agli eccidi del 19-21 febbraio 1937, poiché fu una delle innumerevoli rappresaglie scaturite dall’attentato a Graziani, rappresaglie che continuarono per mesi e che ci permettono di comprendere la reale dimensione, portata e natura di quanto accadde in quei giorni di fine febbraio 1937, una strage che uno fu solo una rappresaglia, ma un autentico crimine d’odio.

Conclusione

La strage di Addis Abeba del 1937 non si limita ai soli 3 giorni di violenza indiscriminata intercorsi tra il 19 ed il 21 febbraio e rappresenta uno dei capitoli più bui del colonialismo italiano e della storia italiana.

Si tratta di un evento la cui la brutalità senza eguali e precedenti svela una metodologia sistematica, con cui il regime fascista cercò di consolidare il proprio dominio assoluto sull’Etiopia.

Le dimensioni della violenza furono immense, si contano migliaia di vittime civili in soli tre giorni di rappresaglie, le stime ufficiali parlano di un numero di vittime civili che oscilla tra le 19.000 e le 30.000 ma è probabile che siano molte di più. La maggior parte delle vittime tra il 19 ed il 21 febbraio non furono causate dai soldati fascisti, ma dai coloni italiani, fascisti convinti che cercavano solo un pretesto per dar sfogo alla propria crudeltà, e quel pretesto arrivò con l’attentato al viceré Rodolfo Graziani. Questo massacro come abbiamo visto, non fu un atto isolato ma faceva parte di una più ampia strategia, o forse sarebbe meglio dire, di una consolidata metodologia, per reprimere nel terrore ogni forma di resistenza. E si protrasse nel tempo e lo spazio ben oltre i limiti temporali del colonialismo fascista.

La portata di questa strage va infatti ben oltre il numero delle vittime. Essa fu un espressione del reale volto del fascismo, Rodolfo Graziani era agli occhi di Mussolini uno dei migliori esempi di Italianità, era un “fascista ideale” il prototipo di un fascista esemplare che il regime stava cercando di costruire. Questa strage va oltre il colonialismo fascista e simboleggia la natura brutale che muoveva lo stesso fascismo, evidenzia quella logica di violenza indiscriminata usata come strumento di controllo politico e sociale e che rendeva la colonia d’Africa, lontana da occhi indesiderati, un perfetto laboratorio per testare la propria efficacia, del resto, la popolazione indigena era agli occhi dei colonizzatori una popolazione sostanzialmente priva di diritti, considerata sporca e selvaggia, da civilizzare o eliminare.

L’Italia fascista era impegnata in una campagna “civilizzatrice” concetto che nella sua applicazione assomiglia più a quello di “pulizia etnica” che ad altro. Poiché il rango di “civilizzato” spettava unicamente alla popolazione bianca. La strage di Addis Abeba ci dice chiaramente che la maggior parte dei coloni italiani in Etiopia erano razzisti e che il razzismo e le teorie sulla superiorità della razza non furono importate dalla Germania nazista. Va infatti ricordato che siamo nel febbraio del 1937 e in Italia le leggi raziali verranno introdotte solo nel novembre del 1938. Questa strage nel complesso porta con se un significato storico profondo e complesso, essa è un monito sulla natura distruttiva del colonialismo e del fascismo, della violenza politica e delle conseguenze devastanti delle teorie sulla supremazia razziale e militare.

È una strage che nella sua crudeltà ha qualcosa da insegnarci e la memoria di questo evento nefasto è qualcosa che andrebbe protetto e conservato nel patrimonio culturale dell’intera umanità, tuttavia, il suo ricordo, soprattutto in Italia, è ancora fortemente ostacolato, è come se gli italiani avessero cercato di rimuovere e dimenticare questo capitolo di inaudita violenza e crudeltà dalla propria memoria. Tuttavia, sempre più studi a partire dagli anni 90, stanno contribuendo a riportare alla luce la verità su quanto accadde ad Addis Abeba tra il 19 ed il 21 febbraio 1937.

Mi permetto una piccola considerazione personale, quella strage è una ferita aperta, forse più per gli italiani che per gli Etiopi, poiché ricordare quei momenti, quella strage, significa fare i conti con un passato nefasto che abbiamo chiuso in un vergognoso armadietto di Roma, più di 75 anni fa, e lì lo abbiamo abbandonato sperando che prima o poi svanisse dalla storia.

Bibliografia e letture consigliate

Libri

Etiopia, lontano dall’Occidente – Marco de Paoli – Mimesis
Il massacro di Addis Abeba – Ian Campbell – Rizzoli Libri
Debre Libanos 1937 – Paolo Borruso – Editori Laterza
Italiani brava gente? – Angelo Del Boca – BEAT

Articoli

La memoria rimossa. «Il Massacro di Addis Abeba”
La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos
Yekatit 12 | Febbraio 19. Ricordiamo i crimini del colonialismo italiano
Addis Abeba 1937, ventimila vittime degli italiani brava gente
Il massacro di Addis Abeba e la ferocia del colonialismo italiano
L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-37

La censura dei libri negli Stati Uniti

La censura di libri è un abominio culturale, non c’è molto altro da aggiungere a riguardo se non qualche breve cenno storico che lo vede come strumento di controllo per reprimere masse, più o meno in ogni epoca storica. Nell’Europa medievale i copisti “censuravano” attraverso l’abrasione, distruggendo testi antichi, considerati blasfemi e pagani, per poi riutilizzare quelle pergamene per copiare scritti teologici o copie dei vangeli canonici. In età moderna, dal XVI secolo in poi, con l’avvento della stampa si diffuse il famigerato e temuto indice dei libri proibiti, un elenco di testi vietati che non solo era proibito stampare e distribuire, ma anche possedere e leggere, indice la cui ultima edizione, prima dell’abolizione, risale al 1959 ad opera del sant’uffizio, mentre la sua abolizione è datata ufficialmente 1966 per volontà di Papa Paolo V.

La fine dell’indice non significa fine della censura o dei roghi di libri, anzi, la storia ci insegna che anche in regimi non “cristiani” la censura fu ed è tutt’ora largamente usata, è il caso di citare i roghi di libri dei regimi Nazi-Fascista in Italia e Germania, il divieto fascista di pubblicare letteratura scientifica straniera, anche se tradotta, il Samizdat sovietico, una sorta di analogo laico comunista all’indice cristiano, con cui si vietava in URSS la distribuzione e il possesso di innumerevoli libri considerati pericolosi o l’indice islamico, con cui il governo di Tehran vieta innumerevoli libri in Iran, e così via.

Storicamente va detto che la censura non si è abbattuta sui libri solo attraverso il loro divieto integrale, in numerosi casi infatti, essa ha colpito in modo più subdolo, imponendo modifiche trasformazioni o eliminazione di sezioni più o meno ampie del testo. Un caso esemplare arriva sempre dagli USA con la Bibbia, più precisamente una versione della bibbia che era riservata agli schiavi nelle piantagioni da cui erano omesse intere sezioni dell’antico testamento, in particolare tutta la parte del libro della genesi che riguardava la schiavitù in Egitto e la liberazione da parte di Mosè.

In tempi più recenti il divieto di distribuzione e possesso dei libri è parzialmente sfumato, ed oggi interessa per lo più paesi fortemente radicali, esempi lampanti sono la Cina, Iran, Russia e Israele, ma non sono gli unici esempi, anzi, in forme più moderate e circoscritte, la censura dei libri interessa anche l’Unione Europea e gli USA. In USA ad esempio, se bene non ci siano leggi che vietino di possedere o distribuire libri, o leggi che obbligano la distruzione di libri, ci sono numerose leggi, per lo più statali e non federali, che vietano l’uso pubblico di alcuni libri.

Per quanto vorrei parlare di tutti gli “indici” moderni, farlo in un unico articolo richiederebbe un lavoro smisurato, quindi mi concentrerò caso per caso, ed oggi analizzeremo gli ultimi 20 anni circa di censura negli USA, anche perché sono quelli di maggiore intensità.

Il ritorno della censura negli USA

La censura dei libri negli USA non è un fenomeno moderno, già nei secoli scorso è stata ampiamente promossa e praticata, tuttavia, dal secondo dopoguerra in poi, e soprattutto negli anni post guerra fredda, si è respirata un’aria di maggior tolleranza. Tra Regan e Obama gli USA hanno visto la maggior libertà letteraria della propria storia e a darci testimonianza di come negli ultimi anni la libertà di stampa si sia fortemente deteriorata, abbiamo le analisi e i rapporti periodici di American Library Assosation (ALA) e PEN America, due associazioni/organizzazioni che promuovono la libertà di stampa e di espressione e che, almeno dagli anni 60, monitorano l’attività legislativa e i tentativi di censura a livello federale e statale in tutti gli USA.

Come anticipato, fino alla presidenza Obama, gli USA hanno vissuto un periodo fiorente, con grandi libertà editoriali e anche nei programmi scolastici c’era molta “libertà”. Per fare un esempio pratico, durante la presidenza di G.W. Bush, in alcuni libri scolastici si arrivava a parlare, in maniera anche abbastanza critica, della disastrosa fuga dalla Somalia del 94 durante la presidenza Bush senior e durante la presidenza Obama la situazione sostanzialmente non cambia, la censura di libri è ancora relativamente contenuta rispetto a quanto sarebbe successo negli anni successivi. Ciò non significa che sia del tutto assente, anche perché non lo è mai stata. L’ALA documenta, negli 8 anni di presidenza Obama, sporadici casi di divieto di libri, per lo più legati a temi sensibili come la religione, la sessualità e la violenza. Questo divieto non è però assoluto, e in realtà anche negli anni successivi non lo sarà mai.

Il bando è circoscritto alle scuole pubbliche, e all’epoca, soprattutto durante la campagna elettorale del 2012, scaturì in un forte dibattito legato alle politiche di inclusione promosse da Obama e l’apparente contraddizione tra queste e il divieto di usare nelle scuole e nelle biblioteche scolastiche, alcuni libri che affrontavano tematiche LGBTQ+ e riscrivevano la tradizione americana, testi che per inciso, erano fortemente antiscientifici e antistorici.

L’accesa discussione attorno a questi bandi tuttavia, fu significativa, perché spianò la strada a ciò che sarebbe successo nella successiva presidenza Trump.

Polarizzazione culturale e attacchi alla scienza durante la presidenza Trump

Se come abbiamo visto, durante la presidenza Obama, il divieto di utilizzo nelle scuole è “federale” e riguarda soprattutto libri antiscientifici, durante la prima amministrazione Trump si è registrato il vero punto di svolta, ovvero la nomina di Betsy DeVos come Segretaria dell’Istruzione. DeVos è stato una forte promotrice di politiche in favore delle scuole private e di riduzione del controllo federale sui materiali didattici. In altri termini DeVos da una maggiore autonomia alle scuole, soprattutto quelle private, di decidere la forma dei propri programmi scolastici, i libri da utilizzare ecc e allo stesso tempo aumentava indirettamente il potere dei governatori locali che, senza un controllo federale, erano chiamati a regolamentare a livello locale i limiti dell’insegnamento, programmi scolastici e di conseguenza, autorità quasi totale in materia di censura o liberalizzazione di libri antiscientifici nelle scuole.

Nel 2020, sempre l’amministrazione Trump, fa un ulteriore passo in direzione della censura, vietando l’uso scolastico, sempre nella scuola pubblica, di pubblicazioni che includessero termini come “inclusione”, “diversità di genere” e “disabilità”. Questo divieto ha avuto un doppio effetto, sia editoriale che politico scolastico. A livello editoriale sono aumentati, in maniera quasi esponenziale, i tentativi di rimuovere dai testi, le sezioni che trattavano temi sensibili, come la storia razziale americana e l’identità di genere, inoltre, per evitare di incorrere nella censura federale, molti editori hanno ritirato dal mercato numerosi libri e rifiutato innumerevoli nuove proposte. Sul piano politico scolastico invece, i governi locali, già fortemente autonomi, hanno avviato una crescente corsa alla censura vietando sempre di più l’uso di libri che trattavano temi vietati.

ALA e Pen America a tale proposito documentano una delle fasi più cupe della storia editoriale statunitense, e della censura libraria, dai tempi del proibizionismo.

Un’inattesa escalation dei divieti durante la presidenza Biden

Finito il mandato di Trump molti si aspettavano importanti passi indietro da parte del nuovo presidente, e così è stato, i primi mesi di presidenza Biden come sappiamo furono investiti dal presidente democratico, per smantellare gran parte delle politiche trumpiane inaugurate a fine mandato, tuttavia, sulla questione scuola e censura, non troviamo il passo indietro che molti si aspettavano, ma anzi, troviamo un apparente escalation. Secondo quanto riportato dall’ALA, nel primo semestre del 2022 sono stati registrati 681 tentativi di messa al bando che hanno interessato circa 1.651 libri, con un’enfasi particolare su temi razziali, di genere e sessuali. Una tendenza preoccupante che secondo ALA è ulteriormente cresciuta nel 2023, quando il numero di libri banditi nelle scuole pubbliche è triplicato, passando dai 3.362 del 2023 a oltre 10.000 nel 2024.

Diversamente dall’era Obama però, i libri al bando non sono testi anti-scientifici, letteratura scientifica, saggistica e narrativa, e protagonisti di questa escalation sono stati come la Florida, guidati nella maggior parte dei casi da governatori conservatori repubblicani molto vicini a Trump. In florida ad esempio incontriamo diverse leggi statali il cui fine è limitare l’insegnamento di concetti come la “teoria critica della razza” e “l’identità di genere”. L’adozione di queste politiche locali ha portato alla rimozione di oltre 10.000 libri dalle biblioteche scolastiche statunitensi, e come ci si potrebbe aspettare, ha innescato un forte dibattito nazionale sulla libertà di espressione e il ruolo dell’istruzione pubblica.

Colpa di Biden o di Trump?

L’ondata di censura durante la presidenza Biden, come anticipato, ha innescato un forte dibattito pubblico, tutt’ora attivo, sulla responsabilità di tale escalation, da una parte c’è chi incolpa Trump e dall’altra chi incolpa Biden.

I dati di ALA e Pen America mostrano un chiaro aumento della censura di libri negli Stati Uniti, soprattutto durante la presidenza Biden e Trump, con picco esponenziale durante la presidenza Biden, tuttavia, tale incremento è circoscritto a stati repubblicani e guidati da governatori vicini all’ex presidente Trump, mentre, secondo i dati riportati da ALA e Pen America negli stati democratici il ricorso ai divieti è rimasto molto limitato, e in linea con quanto accadeva in passato, ovvero con il bando dalle scuole di testi anti-scientifici e anti-storici. Alla base di questo incremento dei bandi abbiamo le leggi promosse da DeVos e Trump durante la prima amministrazione Trump, leggi che come abbiamo visto in precedenza, hanno creato un clima culturale favorevole alla censura, attraverso l’adozione di politiche anti-scienza e pro-censura e che, durante la successiva amministrazione Biden, non sono state superate, e più precisamente neanche ci ha provato.

Censura fuori dalla scuola?

Finora abbiamo parlato di censura scolastica, di divieto di insegnamento, di bando dalle biblioteche pubbliche, ma fuori dalla sfera pubblica ci sono libri vietati negli USA?

La risposta più semplice è, tecnicamente no, ma è una risposta incompleta, perché se da un lato la costituzione garantisce la totale libertà di stampa e quindi è teoricamente consentita la possibilità di pubblicare qualsiasi libro, anche il più controverso, in realtà molte cose, per ragioni politiche e di sicurezza non sono e non possono essere pubblicate. Un editore non può ad esempio pubblicare un libro che divulga documenti classificati, o che insegna a costruire bombe, e più in generale, e se in alcuni casi gli editori non possono, in altri non vogliono. Di conseguenza molti editori, soprattutto quelli più grandi ed esposti, come anche in altre parti del mondo, preferiscono evitare la pubblicazione di libri che affrontino tematiche considerate controverse e problematiche. Religione, sessualità, identità di genere, questioni razziali, sia narrativa che saggistica, difficilmente arrivano al grande pubblico, da grandi editori ed autori alle prime armi. Dall’altro lato però, il fenomeno del self publishing negli USA è ampiamente diffuso, e la possibilità di pubblicare in totale autonomia, consente a molti autori di pubblicare, passatemi il termine, alcune delle peggiori porcherie letterarie di tutti i tempi, con una conseguente abbondanza di letteratura, come mai prima.

Il paradosso è che da un lato la letteratura anti-scientifica e controfattuale sta attraversando una fase fiorente, mentre la letteratura scientifica e narrativa , che affronta alcune tematiche politicamente calde, sessualità religione, orientamento sessuale, identità di genere, ecc è sempre più oscurata.

Conclusioni

La censura di libri negli Stati Uniti è un fenomeno complesso che riflette enormi tensioni culturali e politiche. Abbiamo visto come durante la presidenza Obama, nonostante il dibattito, lo scenario non era dissimile rispetto agli anni precedenti e il resto del mondo occidentale. Successivamente, con l’inizio della prima amministrazione Trump, ha avuto inizio anche quella che molti definiscono epoca oscura per la letteratura, un epoca che è continuata senza particolari tentativi di ammortizzazione sotto la presidenza Biden e che ora, durante il secondo mandato di Trump rischia di vedere la sua massima espressione, alimentata da numerosi membri del congresso che, durante la propria campagna elettorale, hanno portato avanti vere e proprie crociate, con tanto di lanciafiamme e roghi di libri, contro alcune forme di letteratura e temi letterari.

Politica: Tra filosofia, storia e sfera pubblica

Spesso ci riempiamo la bocca con la parola “Politica” usata in modo inopportuno, o peggio, dispregiativo, relegandola a determinati soggetti e categorie di persone, i soli che “possono fare politica” perché sono politica, e se non si fa ha questa etichetta, l’etichetta di politico, allora non si fa, non si può “fare politica”. Ma cos’è la politica, cos’è davvero la politica, cosa vuol dire fare politica e soprattutto chi è il politico, ovvero colui che fa politica?

Nell’uso comune spesso si intende la politica come qualcosa che fare con forme partitiche in qualche modo legate a governi e amministrazioni, ad una sorta di leadership gerarchica della società, ma se andiamo alla radice del termine e del concetto stesso di politica, possiamo osservare che in realtà politica è qualcosa di diverso, molto più semplice e per questo estremamente complesso.

Una delle definizione più semplicistiche e generali che possiamo dare del concetto di politica è “tutto ciò che ha a che fare con la sfera pubblica“, ma in questo senso apparentemente semplificato e generale, tutto può diventare politica. Ed è davvero così? Davvero tutto può diventare politica? un concerto, uno spettacolo teatrale, un dibattito, una scampagnata con gli amici, o delle semplici chiacchiere tra due individui, di persona o sui social, sono tutti esempi diversi di “politica”?

Partendo da questa definizione generale, che comprende letteralmente qualunque interazione tra due o più individui, tutto sembra essere politica. In questo articolo proveremo a “raffinare”, se così si può dire, su base etimologica, storica e filosofica, il concetto di politica.

Alle origini del termine

La prima cosa da individuare è l’etimologia della parola “Politica”, un termine che trova le proprie radici nel termine greco politeia (πολιτεία), parola già in uso e con un concetto ben radicato nella cultura greca classica. Questa parola designa l’essenza stessa dell’organizzazione politica come atto collettivo che si lega ad un altro termine, ben più noto, legato anch’esso alla cultura greca classica, ovvero polis (πόλις), la città-stato greca.

Per capire meglio il significato della Politica quindi, dobbiamo comprendere meglio anche il concetto di Polis, che non è solo un entità geografica e amministrativa, che incontriamo nella penisola ellenica tra il VI e il III secolo avanti cristo, ma anche è un vero e proprio modello di organizzazione etica e sociale, che regola la convivenza umana.

Ed è proprio in quel sistema sociale che nasce la parola politica. Al tempo e nel mondo polis greche infatti, incontriamo i primi utilizzi “formale” della parola politica, o meglio Politeia. Tra questi utilizzatori del termine incontriamo Platone con la sua “Politeia”, un opera meglio nota in italiano come “La Repubblica”.

La Politica in età classica

La Repubblica di Platone, è un opera monumentale, è uno dei testi più importanti della storia della Filosofia, ed è scritto nella forma di un dialogo con Socrate, vero protagonista del libro in cui il filosofo greco, attraverso il proprio maestro, cerca di rispondere alle domande sulla natura della giustizia, di fatto l’opera è per certi versi un indagine sulla natura della giustizia e sulla sua importanza nella vita dell’uomo e nella società e, tra le altre cose, Platone esplora diverse forme di governo, tra quelle note all’epoca ed ipotetiche, individuando con straordinaria lucidità e in maniera quasi profetica, alcune delle maggiori criticità delle democrazie moderne, come ad esempio la “sete di libertà”.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone

Per Platone il concetto di politica è fortemente legato alla moralità, alla conoscenza, alla giustizia e alla capacità del buon governante, che per lui deve essere un Re Filosofo, di prendere decisioni che beneficino l’intera comunità.

Come Platone, anche il suo miglior allievo, Aristotele, userà il termine politica, nell’opera Politica, in greco Tá politiká (Τά πολιτικά) per descrivere le varie forme di governo e la scienza che studia l’organizzazione delle Polis, per il maestro di Alessandro Magno, il politico non è solo un legislatore, ma è qualcosa di più, poiché la politica è finalizzata alla filosofia ed ha il dovere di creare condizioni ottimali affinché si possa coltivare la scholè (tempo libero) e le attività teoretiche (filosofia, matematica, fisica ecc).

Più semplicemente, per Aristotele politica, non si limita alla semplice amministrazione statale, ma implica una visione olistica del vivere politico, del vivere pubblico, per cui l’amministrazione e la ogni attore attivo di quel luogo e quello spazio pubblico in cui l’individuo realizza la propria natura di zoon politikón (animale politico). Ciò significa che i tre concetti moderni di politica, pubblico e sociale, per Aristotele coincidono in maniera totale, sono sovrapponibili e sostituibili, di fatto sono la stessa cosa e questo perché per Aristotele, politica non è solo amministrazione, ma anche socialità.

Cambiando “mondo” e spostandoci in avanti nel tempo di qualche circa 2 secoli, arriviamo alla Roma del primo secolo a.c., qui Marco Tullio Cicerone aggiunge il proprio contributo al concetto di Politica con il suo De Republica, in cui il filosofo latino associa la res publica alla legge intesa come fondamento della comunità e definisce la politica come una sorta di scienza del governo, concetto che, in forma più o meno diversa verrà ripreso a più battute in tutto il medioevo culminando con il realismo politico di Machiavelli per il quale la politeia diventa arte del potere, per cui la politica mente o come è più comunemente noto “il fine giustifica i mezzi“.

Possiamo quindi definire politica come un qualcosa che si compone di due elementi, esercizio del potere e partecipazione attiva alla sfera pubblica.

Chi fa Politica? Cittadini e governanti

Che la si guardi in ottica moderna, medievale o classica, la politica ha un forte legame con il pubblico e con il sociale, sia quando è esercizio del potere per governare il popolo, sia quando è espressione della volontà del popolo, sia quando è al servizio del popolo. Ma chi fa politica? chi è il politico?

Nella Grecia classica esiste il termine polites con cui ci si riferisce a coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, esercitando diritti e doveri, potremmo tradurre questo termine con il moderno “politico” o “cittadino”. Apriamo allora una parentesi sul cittadino, nel mondo antico la cittadinanza era un concetto abbastanza ampio, al punto che in epoca Romana, incontriamo nello stesso stato diverse forme di cittadinanza che riflettono privilegi. Oggi la cittadinanza è qualcosa di diverso rispetto a come era concepita nel mondo antico, dove, semplificando moltissimo, era qualcosa di molto simile al concetto moderno di “sovranità popolare”, di conseguenza il cittadino contribuisce alla formazione della volontà generale e vi è pertanto un rapporto di reciprocità tra cittadino e governante, che insieme, e solo insieme, sono espressione autentica della politica.

Nel mondo classico il politico è in sostanza un attore attivo della vita pubblica, c’è sinergia tra il “politico e il governante”, per Platone i governanti dovessero essere filosofi guidati dalla saggezza e al servizio del benessere collettivo. Nel medioevo tuttavia, Machiavelli rovescia questa prospettiva, descrivendo ne Il principe, il leader come un abile manipolatore delle circostanze, anteponendo la sopravvivenza dello stato alla virtù personale e dopo di lui Hobbes, nel Leviatano, teorizza un sovrano assoluto in grado di garantire sicurezza al popolo, il cui potere tuttavia non è immutabile ed è legittimato da un contratto sociale.

Abbiamo visto prospettive differenti, da Platone ad Hobbes, ma nella sostanza, il politico mantiene un elemento costante, ovvero il suo legame con la sfera pubblica. Politico e pubblico, continuano ad essere, nel XVII secolo, concetti sovrapponibili.

Il confine tra pubblico e politico?

Per gran parte della nostra storia, siamo arrivati ad Hobbes, ma in realtà ancora oggi, pubblico e politico sono concetti ampiamente sovrapponibili, risulta quindi necessario cercare di capire se c’è, e se c’è dov’è questa la linea di demarcazione tra Pubblico e Politico, cosa definisce l’azione politica?

Per Hannah Arendt la politica è l’essenza stessa dell’azione collettiva e della vita pubblica. Non si tratta più semplicemente di istituzioni, di procedure, ma di un esperienza umana fondamentale, che affonda le proprie radici nella capacità degli individui di agire insieme. La politica è a tutti gli effetti uno spazio d’incontro tra individui, un luogo di dialogo e di decisioni collettive, uno spazio vitale per il funzionamento delle democrazie.

La Politeia oggi

Oggi la Politica è un concetto dinamico, ridefinito innumerevoli volte nel corso dei secoli e dalle trasformazioni storiche e filosofiche, ma alcuni elementi sono sopravvissuti nel tempo, passando, almeno in Europa e nel Mediterraneo, dalle Polis all’impero di Alessandro a quello Romano, ai regni romano barbarici a gli stati nazione e le monarchie assolute europee, per poi sfociare negli imperi risorgimentali, nei totalitarismi e giungere, in fine, alle democrazie moderne.

Della politica oggi rimane fondamentalmente un amalgama sociale, che non è solo istituzioni statali, ma anche e soprattutto movimenti sociali, organizzazioni nazionali e internazionali, è dibattiti pubblici e digitali, mantenendo nel suo insieme un focus unico ancora fisso sull’ideale aristotelico del bene comune, che la storia ha piegato e adattato rendendolo ad oggi compatibile con un mondo follemente e ferocemente interconnesso, dove il “pubblico” supera ampiamente i confini tradizionali e dove, come scriveva Sandro Pertini, «la moralità dell’uomo politico consiste nel perseguire il bene comune».

Quella linea di demarcazione tra pubblico e politico a conti fatti, non l’abbiamo trovata e questo perché la sfera pubblica e sociale è qualcosa di interconnesso, in maniera indissolubile all’esercizio politico, è politica. D’altro canto però, negare l’appartenenza alla sfera pubblica e cercare di ostacolare la natura pubblica e sociale della politica, chiudere quello spazio collettivo, baluardo della libertà e della democrazia, aiuta alla creazione di terreno fertile per i sistemi totalitari, e non è un caso se nel proprio percorso storico, uomini come Mussolini, Hitler, Stalin, e qualsiasi altro dittatore mai esistito, abbiano costruito i propri regimi partendo proprio dalla censura e il “diritto alla censura”, rivendicando per se quella stessa libertà che negavano ai propri oppositori.

Si entra qui nel paradosso della tolleranza di Popper che possiamo esprimere parafrasando Luca Marinelli nei panni di Mussolini in M il figlio del Secolo “La democrazia è una cosa straordinaria, ti da la libertà di fare ogni cosa, anche di distruggerla”, e nel farlo, concretizza la profezia platonica dei Coppieri che ubriacano il popolo assetato di libertà, permettendo alla mala pianta della tirannia di germogliare.

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Le guerre civili somale, dagli anni 90 ad oggi

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questo articolo il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende degli anni ’90 con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo dell’ONU e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Vicende degli Anni ’90

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

Il Crollo del Regime di Siad Barre (1991)

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’Anarchia e il Ruolo dei Signori della Guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi Blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le guerre civili somale, USAx Somalia (parte 3)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le gurre civili somale, l’ascesa dei movimenti islamici (parte 2)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

Come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le guerre civili somale. Caduta del regime di Barre, fuga degli USA e ascesa dell’Islam (Parte 1)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Da Siad Barre alla guerra civile

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

La caduta del regime di Barre

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’anarchia e il ruolo dei signori della guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Conseguenze della fuga statunitense

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica, di cui parleremo, in maniera più approfondita, nel prossimo articolo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Trump chiede a 3 milioni di dipendenti federali, di dimettersi ed essere pagati fino a settembre

Il taglio della spesa pubblica, attraverso il licenziamento del 60% della forza lavoro federale, era non programma elettorale di Donald Trump, non c’è quindi da sorprendersi se il presidente ha mosso i primi passi in quella direzione, ciò che invece lascia sconvolti è la modalità con cui quel primo passo è stato fatto, si perché a quanto apprendiamo dalla stampa internazionale, Trump inviato una mail ai dipendenti federali, chiedendo loro di dimettersi, in cambio di una buona uscita di 8 mesi e un grazie da parte dell’amministrazione.

Per dimettersi i dipendenti devono semplicemente rispondere alla mail con “Resign”. Facile no?.

Nella mail si parla di nuovi standard di idoneità e condotta, di affidabilità e soprattutto, di lealtà, non all’America, quella la si dimostra “dimettendosi”, ma Trump. In altri termini, puoi lavorare per il governo se sei leale a Donald Trump, altrimenti via, e ti conviene dimetterti, così almeno ottieni una buona uscita di 8 mesi di stipendio, altrimenti, se non risulterai idoneo, avendo condiviso sui social critiche al presidente, non essendo iscritto a Truth, avendo sostenuto Kamala Harris, verrai cacciato.

Ok, questo non è detto esplicitamente, nella mail si parla soltanto di nuovi standard di lealtà e merito, ma è anche vero che da anni Trump sta attaccando il “deep-state”, uffici e dipendenti pubblici, di cospirare contro di lui, ed è quindi abbastanza evidente che in questi nuovi standard di cui non si conoscono ancora i dettagli, vi sarà quasi certamente un riferimento al presidente eletto più che al partito del presidente.

Ma Trump può davvero licenziare in massa 2/3 dei dipendenti federali?

In realtà no, non può farlo, o meglio, può, muovendosi all’interno di determinati limiti, standard e regole che però, potrebbero portare al licenziamento di numerosi fedeli trumpisti. Può infatti provare a mischiare le carte in tavola, con un ordine esecutivo, ma quell’ordine esecutivo, esattamente come quello relativo allo Ius Soli, verrebbe quasi certamente bloccato dalla corte suprema, per via di una serie di leggi che trascendono i poteri del presidente.

Di queste, la prima, forse più importante, è il Civil Service Reform Act (CSRA) del 1978, che già nel 2020 Trump ha provato ad aggirare con l’OE 13957 (ci torneremo più in avanti). Questa legge, molto brevemente, istituisce il principio di “merito” nel servizio pubblico, principio che sostanzialmente vieta i licenziamenti basati su motivi politici, discriminazioni o azioni arbitrarie. Perché si, prima del 1978 e della presidenza Carter si poteva licenziare, anche a livello federale, qualcuno perché nero, messicano, italiano, repubblicano o democratico, a seconda della presidenza. Solo con la presidenza Carter questo enorme problema viene superato, anche se solo parzialmente, perché il CSRA è comunque una legge e non un emendamento della costituzione, e quindi in realtà, il presidente può, con un ordine esecutivo, provare a sospendere, abrogare o più semplicemente modificare i limiti del CSRA, che è quello che ha fatto nel 2020.

Il CSRA non si limita a questo, la legge infatti prevede che sia un agenzia indipendente ed esterna, a valutare caso per caso eventuali licenziamenti pubblici. Questo significa che tecnicamente, il DOGE guidato da Elon Musk, in quanto agenzia/dipartimento, voluto dall’amministrazione Trump e legato all’amministrazione Trump, non dovrebbe avere l’autorità per indicare chi dovrà essere licenziato e chi no.

In teoria questa è una buona notizia per i dipendenti pubblici statunitensi che non hanno votato Trump o che si sono sbilanciati contro il presidente, in pratica, non lo so, perché in realtà nulla impedisce a Musk o qualsiasi altro imprenditore vicino a Trump, di fondare un agenzia di valutazione privata, e a Trump di assegnare a quell’agenzia di comodo, il compito di valutare e indicare chi licenziare.

L’altra legge che tutela, in parte, i lavoratori pubblici statunitensi è il Pendleton Act, del 1883, che sostanzialmente, mette fine allo spoils system e introduce nuovi criteri per assumere e licenziare i dipendenti federali, stabilendo che, gli unici dipendenti federali che possono essere assunti e rimossi dai propri incarichi, in maniera arbitraria, sono i dipendenti che ricoprono posizioni politiche, i membri del gabinetto, eventuali consiglieri presidenziali e dipendenti in posizioni “confidenziali” ovvero direttori e vicedirettori di agenzie governative.

Anche se la costituzione USA non prevede il caso specifico di licenziamenti di massa, il quinto emendamento, del 1791, che abbiamo imparato a conoscere da film e serie tv, lo stesso emendamento che sancisce il diritto a non autoincriminarsi, prevede anche che il governo possa privare una persona della proprietà senza un giusto processo, e questo diritto, grazie alla sentenza della corte suprema del 1985 (Cleveland Board of Education v. Loudermill) si estende anche al lavoro. In altri termini, per licenziare un dipendente federale è necessario, oltre al preavviso, garantire a questi la possibilità di contestare le accuse.

Il caso dei tagli strutturali

Lo scenario in cui si trova l’America in questo momento, riguarda una riorganizzazione delle risorse, in altri termini, entrano in gioco le normative in termini di tagli strutturali e riduzione del personale.

Come anticipato, già nell’ottobre 2020, sul finire del primo mandato e a pochi giorni dalle elezioni, Donald Trump ha provato ad aggirare le normative sul ridimensionamento e licenziamento dei dipendenti pubblici, emanando l’Ordine Esecutivo 13957 con cui eliminava lo “Schedule F” e riclassificando alcuni ruoli tecnici come posizioni politiche che, come abbiamo visto in precedenza, per effetto del Pendleton Act, possono essere nominati e revocati, assunti e licenziati, a discrezione del presidente. L’ordine Esecutivo 13957 è stato revocato nel 2021 dal neoeletto Joe Biden, tuttavia l’intervento di Biden si è limitato ad annullare il precedente ordine esecutivo e non è invece stato prodotto alcun atto normativo che impedisse di convertire determinate categorie di dipendenti pubblici in posizioni politiche, pertanto, Trump potrebbe tirare fuori dal cassetto il suo vecchio OE e riproporlo in chiave moderna, in questo modo renderebbe politiche alcune categorie di dipendenti ottenendo così il potere di licenziare in maniera arbitraria.

Potere che, come già detto, e ci tengo a ripeterlo, ad eccezione di ruoli politici e confidenziali, il presidente non ha. Significa quindi che il presidente non può licenziare in massa e in maniera discrezionale, circa 2/3 del personale federale, come promesso in campagna elettorale e comunicato via mail a 3 milioni di dipendenti pubblici.

I nuovi standard di merito e lealtà di cui si parla nella mail, prima di diventare realtà, dovranno essere approvati dal congresso e non possono essere imposti con un ordine esecutivo.

Può però richiedere un ridimensionamento dei pubblici uffici, e ottenere così la creazione di apposite commissioni che dovranno decidere al congresso, in che misura tagliare personale federale, rimanendo però all’interno delle normative vigenti, e questo significa che potenzialmente verrebbero licenziati più democratici che repubblicani, almeno secondo le stime del Cooperative Congressional Election Study del 2020, che ha rilevato che, circa il 60% dei dipendenti federali si identificano con il Partito Democratico, contro il 30% che si identifica con il partito repubblicano.

X è in crisi, di nuovo.

X (ex Twitter), il controverso social network di Elon Musk, l’uomo di fiducia del presidente Trump, chiamato a riequilibrare la spesa federale USA, è in crisi, di nuovo. Come è noto Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, per circa 44 miliardi di dollari, denaro ricavato dalla liquidazione di una significativa fetta di azioni Tesla, in un momento in cui il social era in crisi. Musk è intervenuto, acquistando Twitter, con non poche irregolarità, ha ribrandizzato il social, e si è adoperato, tra tagli al bilancio e al personale, per salvare la piattaforma, ma, a due anni di distanza, una mail inviata ai dipendenti, il cui contenuto è stato comunicato a The Verge, ci dice che quell’operazione di salvataggio sembra aver funzionato e X, così si chiama oggi Twitter, non solo è ancora in crisi, ma anzi, sembrerebbe immerso in una crisi ancora più profonda rispetto al 2022.

La crisi di Twitter che contagia anche X

Nel 2022 la crisi finanziaria di Twitter era segnata da tre elementi, una crescita stagnante della piattaforma rispetto ai competitor, un eccessiva dipendenza del social dagli annunci pubblicitari, come fonte di entrate, non sufficiente però a ripagare le spese a causa della tensione tra utenti e inserzionisti. Detto più semplicemente, a Twitter servivano inserzionisti, ma a differenza di Mate, gli inserzionisti erano pochi. Vi era poi un significativo problema legato alla presenza di Bot e account Fake, che alteravano i dati sull’utenza e le interazioni.

In quella crisi Elon Musk è entrato a gamba tesa, ha investito 44 miliardi di dollari per acquisire Twitter promettendo agli investitori e inserzionisti di rivoluzionare la piattaforma facendo pulizia di bot e account fake, rilanciando il brand, e soprattutto snellendo twitter, eliminando interi dipartimenti che pesavano sul bilancio dell’azienda, senza però portare nulla di concreto al social. E così è stato, almeno in parte. Musk ha in effetti ribrandizzato immediatamente Twitter, in maniera non proprio regolare, ha provato a rilanciare il brand, ha rivoluzionato l’esperienza d’uso, ha fatto enormi tagli al bilancio, licenziando oltre il 75% dei dipendenti, ma non ha mai risolto il problema dei Bot e account Fake, che in realtà, negli ultimi 2 anni, secondo gli analisti, sono aumentati.

Arriviamo così al 2024, anno in cui Elon Musk smette di essere un semplice provocatore, oltre che imprenditore, e diventa il main sponsor del candidato alle presidenziali USA Donald Trump, investendo su Trump e la sua campagna elettorale, oltre 200 milioni di dollari e Trump dal canto suo annuncia la creazione del DOGE, un dipartimento per l’efficienza governativa, esterno al governo, che sarebbe stato affidato ad Elon Musk, il quale avrebbe fatto con la macchina amministrativa USA quello che aveva fatto nelle sue aziende, in particolare con Twitter, emblema dell’efficientamento che da azienda in crisi ora brillava nuovamente nel firmamento dei social media con il nome di X.

Nel mentre Musk continua a rivoluzionare X, lanciando prima Twitter Blue poi diventato X Premium, ovvero la versione a pagamento di X, con alcune funzionalità esclusive, tra cui l’integrazione con Grok, uno dei modelli più controversi, poiché a differenza di altri modelli linguistici, non sembra avere particolari limitazioni “etiche” , soprattutto per quanto riguarda la creazione di Immagini e deep fake.

La strategia di Musk sembra quindi funzionare, una minore spesa per l’azienda ed entrate diversificate, almeno su carta, perché in realtà, le cose non vanno proprio benissimo. Se da un lato infatti la nuova policy sulla libertà di parola che prevede zero censura, sembra rilanciare la crescita, amplificando un linguaggio politicamente scorretto, sdoganando xenofobia intolleranza e razzismo, e soprattutto, riempiendo il social di porno, dall’altro, gli inserzionisti ed investitori, già pochi, fuggono definitivamente, e gli abbonamenti X Premium, si ritrovano ad essere la principale, se non unica, fonte di entrate di X, apparentemente sufficiente a tenere a galla il social.

X sta sprofondando

Secondo quanto riportato da The Verge, le entrate di X nell’ultimo anno sono state appena sufficienti a coprire le spese, permettendo al social, a fatica, di rimanere a galla. Con l’elezione di Trump e l’incentivarsi di episodi controversi sulla piattaforma, ormai quasi del tutto priva di moderazione, molti utenti privati e istituzionali, hanno deciso di lasciare il social, tra questi anche il comune di Parigi che dal 20 gennaio, e diversi giornali tra cui Le Monde, hanno chiuso i propri account ufficiali su X.

Ma questo poco importa, X alla fine anche se in perdita, non è un peso così grande per l’uomo più ricco del mondo. Falso. In realtà X si sta trasformando sempre di più in una pesante zavorra che potrebbe far affondare Musk e tutto il suo impero.

Il problema del debito di X

Sintetizzando al massimo, prima Twitter e poi X, per finanziarsi hanno contratto enormi debiti finanziari, che normalmente non sarebbero un problema, tuttavia, alcune segnala Verge, che alcune fonti vicine a banche finanziarie e di investimento, sembrerebbero aver confermato che, diverse istituzioni stanno svalutando il valore del debito di X nei propri bilanci, e questo è un problema.

Il debito di X, così come il debito di una qualunque azienda, non necessariamente è un problema, anzi, se l’azienda è in crescita, il suo debito in realtà è una fonte di reddito con un alto valore, nel caso di X invece, il valore del debito è sembrerebbe essere sempre più basso, e questo si traduce in un campanello d’allarme per futuri finanziamenti e investimenti, poiché, con l’avvicinarsi delle scadenze dei prestiti, X potrebbe non essere in grado di ripagare il proprio debito, costringendo Musk a cercare nuovi capitali o cedere asset di valore, in particolare azioni Tesla.

Non è quindi un caso se per molti analisti finanziari, X sia considerata una “trappola di liquidità” e il debito contratto per salvare Twitter ora sembra stia soffocando X e le sue possibili evoluzioni.

Musk è davvero l’uomo giusto alla guida del DOGE?

Mentre l’azienda che doveva “salvare” ed è stata presentata come un esempio di efficientamento, va a fondo, molti si chiedono se Elon Musk sia davvero l’uomo giusto per riorganizzare e rendere più efficiente il governo USA. Se si guarda ad X e i risultati ottenuti in due anni, otteniamo un quadro disastroso, il famoso “sacrificio di pochi per il bene di molti” rievocato dallo stesso Musk quando parlava dei licenziamenti nella pubblica amministrazione USA, sembra essere stato completamente inutile, e anzi, forse anche più deleterio del non far nulla, e questo perché il solo fallimento di Twitter, avrebbe coinvolto sì migliaia di persone dipendenti dell’azienda, ma non i dipendenti di altre aziende. Ora però le cose sono diverse e sul piatto della bilancia ci sono anche Tesla e Space X, e quel buco da qualche milione di dollari, rischia di diventare una voragine da miliardi di dollari. E parliamo solo del Msukverse.

Se il fallimento di X dovesse riflettersi anche sul governo federale, allora si che sarebbe un disastro, parliamo non di poche migliaia, ma di centinaia di migliaia, se non addirittura milioni di cittadini statunitensi, forse non solo statunitensi, senza lavoro. Parliamo di una crisi finanziaria senza precedenti, che potrebbe far impallidire la crisi del 2008 e peggio ancora, potrebbe far più danni della crisi del 29. Crisi che come sappiamo è stata contrastata dal New Deal e da una serie di interventi che, per Trump e Musk sono inattuabili e controproducenti.

Può sembrare un esagerazione catastrofistica, in realtà è estremamente plausibile. Gli USA in questo momento sono interessati da una profonda crisi inflazionistica, molto più grave di quella che ha colpito l’Europa, e la Federal Reserve in primis, insieme al governo federale, negli ultimi quattro anni, ha adottato una serie di contromisure per ridurre progressivamente l’inflazione, attraverso una politica monetaria molto restrittiva. Esattamente come stanno facendo l’UE e la BCE.

Trump e Musk tuttavia sembrano voler abbandonare questa strada che porta ad un lento e stabile miglioramento dell’economia, per puntare tutto su una strategia estremamente rischiosa, che, in caso di successo, porterebbe enormi benefici nel breve periodo agli USA, e farebbe enormi danni, nel medio e lungo termine, se invece non dovesse avere successo, quegli effetti indesiderati sarebbero immediati e accentuati, non solo per gli USA, ma per l’intero pianeta.

Per semplificare tantissimo, la strategia è la stessa che Musk ha adottato per salvare Twitter, ossia, tagli alla spesa, diversificazione delle entrate, totale disinteresse per le leggi vigenti e abbandono delle regole di convivenza internazionale attraverso una politica aggressiva e provocatoria. Con Twitter, anzi, con X, questa ricetta non sembra aver funzionato.

DeepSeek ha fatto scoppiare la bolla IA?

Che prima o poi sarebbe successo, tutto il mondo lo sapeva, ma così presto e così bene nessuno se lo aspettava. Con queste parole si apre Giai Phong, di Eugenio Finardi, una canzone che parla della guerra del Vietnam, inquadrandola per quella che era realmente, una guerra civile alimentata da interessi stranieri. E personalmente trovo che sia un ottima “metafora” per riassumere ciò che è successo negli ultimi giorni nel panorama tech e finanziario, legato alle IA.

La mattina del 20 gennaio 2025 la startup cinese Deepseek, fondata da Liang Wenfeng, classe 1985, ha lanciato il nuovo modello R1, un modello linguistico ad alte prestazioni in grado di competere, e secondo alcuni persino più performante, di ChatGPT 4o di OpenAI, il colosso statunitense leader del settore fondato da Sam Altman.

Le performance di DeepSeek sono state effettivamente sorprendenti e questo è stato visto come un campanello d’allarme per molti investitori, poiché questo modello sembrerebbe essere stato sviluppato, addestrato e attualmente alimentato, con finanziamenti nettamente inferiori a quelli richiesti da ChatGPT.

Da qui due domande: Quello delle IA è davvero, come si temeva, una bolla pronta ad esplodere e DeepSeek ha acceso la miccia?

Il mercato delle IA

Il mercato delle IA si compone di diversi elementi di cui le società IA che stanno monopolizzando il dibattito pubblico, sono in realtà solo la punta dell’Iceberg, mentre più in profondità, ci sono almeno due segmenti di mercato, il primo, forse il più dibattuto, è quello legato all’hardware in particolare aziende produttrici di GPU e più a monte il mercato dei chip logici e microprocessori, che comprende aziende come AMD, Nvidia, e TMSC. L’altro grande segmento invece, forse quello più profondo, è legato ai dataset, i pacchetti di dati, i database, fondamentali per l’addestramento delle IA, in questo senso, coinvolge aziende come Oracle e Snowflake Frasnk Slootman.

Scavando ancora più in profondità emergono almeno altri due segmenti di mercato, quello energetico, fondamentale per il funzionamento dei calcolatori e dei server dati, e quello delle materie prime, fondamentale quest’ultimo per la produzione di Chip. E, visto che le materie prime, le aziende che producono microprocessori e le società che utilizzano GPU su larga scala, non condividono propriamente la stessa collocazione geografica, il settore trasporti viene coinvolto in maniera trasversale, in particolare il trasporto marittimo dall’Asia all’America che quindi rende anche il canale di Panama, un target strategico per il mercato delle IA.

Il lancio di DeepSeek R4 ha causato un vero e proprio terremoto finanziario, facendo crollare diversi titoli quotati a WallStreet, per lo più titoli di aziende vicine ad OpenAI e fortemente interconnesse con il mercato statunitense delle IA, e questo terremoto ha spinto molti a chiedersi se la temuta bolla stesse per esplodere.

Tra i molti che hanno investito, in vari asset legati al settore, vi è anche Warren Buffet, uno dei più celebri e importanti investitori, soprannominato l’Oracolo di Omaha per la sua incredibile abilità nell’intuire e prevedere l’evoluzione dei mercati finanziati, e ad Ottobre 2023, Warren Buffet, o più precisamente la Berkshire Hataway, la sua società di investimento, ha acquisito una quota del 6,46% di Snowflake Frank Slootman, stimando una crescita del 200% entro il 2027.

Snowflake Frank Slootman, come anticipato, è una società che si occupa sostanzialmente di dati, fornendo servizi id archiviazione e analisi basati su cloud, e generalmente definiti data as a service.

Non solo Hatawey, ma anche Morgan Stanley, JPMorgan e altre banche di investimento, nel quarto trimestre del 2023 e nel primo trimestre del 2024, hanno fatto a gara per accaparrarsi una quota di Snowflake e altre società specializzate in archiviazione e analisi dei dati. Il motivo è che queste società gestiscono una materia prima fondamentale per lo sviluppo delle IA, ovvero i dati.

La potenza di calcolo, per quanto anch’essa essenziale, per i grandi modelli linguistici, è invece sempre meno centrale, perché grazie ai nuovi processi di sintesi e distillazione dei dati, è possibile sviluppare modelli estremamente verticali, in grado di performare meglio dei grandi modelli in un caso d’uso specifico, richiedendo una potenza di calcolo nettamente inferiore.

Questo concetto in realtà era già emerso nei mesi scorsi con l’arrivo di modelli più compatti e verticali, in grado di girare localmente, ma DeepSeek ha alzato l’asticella, proponendo R4, un LLM, un grande modello linguistico, che basa il proprio funzionamento sulla distillazione dei dati, realizzando in sostanza un grande modello che è la summa di diversi modelli specializzati, tutti sotto un unico ombrello.

L’effetto, un IA che apparentemente ha stravolto il mercato e fatto tremare wall street, ma se siamo qui a parlarne, evidentemente non è solo questo e sotto c’è dell’altro.

Cosa ha scosso realmente Wall Street?

Un IA cinese, più economica di Chat GPT fa il proprio debutto, e Wall Street va in crisi, almeno in apparenza. Se si guarda ai vari titoli finanziari si osserverà che in realtà ad essere stati colpiti dallo scossone DeepSeek, sono state prevalentemente società di hardware, AMD, Nvidia, TSMC, società che si trovano sotto il fuoco incrociato di Cina e USA. Da un lato col divieto di commercializzare i chip di queste società in Cina, e dall’altro con l’amministrazione Trump, sempre più orientata a premiare chi produce in USA e penalizzare chi importa negli USA, e la maggior parte delle società coinvolte nella “crisi” importano negli USA, producono anche, ma principalmente importano. Società come Snowflake Frank Slootman o Oracle, legate all’archiviazione dei dati invece, non hanno subito alcun contraccolpo.

Non solo, a pochi giorni dalla crisi, tra 27 e 28 gennaio, il presidente Trump, ha annunciato che potrebbe portare i dazi nel settore chip, anche al 100%. Ipotesi che era nell’aria già da tempo e che ora sembra essere stata ufficialmente ufficializzata, segnando un duro colpo a TSMC, la holding di Taiwan, leader del settore chip, che fornisce microprocessori e chip logici all’intero pianeta. Azienda contro la quale Trump si era già scagliato la scorsa estate, in piena campagna elettorale, quando tra le altre cose propose che Taiwan dovesse pagare gli USA per la protezione ricevuta.

è dunque solo una coincidenza? una sovrapposizione di fattori, che ha portato Deepseek a debuttare poche ore prima dell’insediamento di Donald Trump alla casa bianca, e ha portato ad un crollo del mercato IA, a circa una settimana dal suo insediamento? Ovviamente no.

In realtà i due scenari non si escludono a vicenda, e anzi, si completano e rafforzano a vicenda.

Da un lato DeepSeek, ha messo in evidenza l’ondata speculativa legata agli investimenti sulle IA, portando così ad un rallentamento dei finanziamenti globali in un settore che ha assorbito più risorse economiche di quante potesse effettivamente utilizzarle, detto più semplicemente, ha sprecato molte risorse finanziarie, attraverso innumerevoli progetti IA senza alcuna reale utilità e per i quali non c’era alcuna domanda.

La bolla IA è esplosa? Esploderà?

Da quando nel 2022 OpenAI ha presentato al mondo la prima versione di ChatGPT, in molti si chiedono se sia una bolla destinata ad esplodere o se invece rappresenti il prossimo passo per lo sviluppo tecnologico, e come è stato negli anni 90 per la bolla dei “dot com”, un ondata speculativa che vide l’apparizione di innumerevoli siti web, che puntavano ad usare la rete per cambiare il mondo, alla fine, solo pochi di quei siti sono sopravvissuti, solo pochi di quegli investimenti hanno realmente fruttato, mentre milioni di altri andavano in fumo portando con se miliardi di dollari.

Lo stesso sta accadendo per il mercato delle IA, e DeepSeek, non ha fatto altro che spingere sull’acceleratore, mentre dall’altra parte OpenAI (per sua stessa ammissione) procede ancora a rallentatore.

Nell’estate 2024 Sam Altman, founder e CEO di OpenAI aveva infatti annunciato che la tecnologia in loro possesso era molto più avanzata di quanto non sembrasse dai software commercializzati, ma, preferivano rilasciarla per gradi perché il mondo non era pronto, e soprattutto, per evitare un terremoto finanziario. Quello stesso terremoto che Altman ha cercato di evitare tuttavia, alla fine è arrivato comunque, innescato da DeepSeek, uno dei principali rivali asiatici di OpenAI.

Un rivale che lo stesso Sam Altman, considera impressionante, soprattutto per il rapporto qualità prezzo.

Nordio contro il Gioco di Ruolo… cosa dice la scienza?

In un recente intervento alla Camera, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio si è scagliato contro il Gioco di Ruolo, dichiarando che, possono causare gravi danni psicologici e sono associati ad episodi di suicidi.

Alle accuse di Nordio ha immediatamente replicato Federludo, la federazione italiana delle associazioni ludiche, contestando tali affermazioni ed evidenziando come il gioco di ruolo sia riconosciuto dalla comunità scientifica, per gli effetti benefici che ha sulla crescita della persona, lo sviluppo delle competenze sociali e il benessere psicologico. In sintesi quindi, l’esatto contrario di ciò che sostiene Nordio.

Ma chi dei due ha ragione? Cosa dice la scienza in merito? cerchiamo di capirlo ripercorrendo la storia del gioco di ruolo e soprattutto gli studi sul gioco di ruolo.

Breve storia del gioco di ruolo

Cominciamo col dire che il gioco di ruolo (“Role-Playing Game”, GdR) rappresenta un fenomeno culturale unico, che integra aspetti ludici, culturali, creativi, psicologici e sociali. Il nostro obiettivo non è trarre conclusioni, ma porci delle domande, cercando di essere il più possibile superpartes (e mi rendo conto che, da giocatore di ruolo, potrebbe essere difficile). Cercheremo comunque di tracciare in questa sezione la storia del gioco di ruolo, dalle sue origini che affondano in alcune intuizioni e pratiche psicoterapeutiche e nei wargame militari del XIX secolo, fino alla sua evoluzione in un fenomeno globale a partire dagli anni settanta e ottanta del XX secolo.

Il gioco di ruolo, inteso come dorma di intrattenimento basato sulla narrazione e l’interazione tra giocatori, come anticipato, affonda le proprie radici in due ambiti profondamente diversi, distinti ma allo stesso tempo complementari, ovvero la psicoterapia e i wargame.

Le prime forme di GdR infatti furono concepite come strumenti educativi e terapeutici, e ancora oggi la pedagogia moderna, suggerisce l’utilizzo del gioco di ruolo come strumento didattico, nel GdR però vi è anche una forte influenza dei giochi strategici militari, quale base strutturale della parte ludica, che ha permesso al gioco di ruolo di uscire dall’ambito terapeutico e e diventare un elemento ludico. In sintesi, il gioco di ruolo nasce come strumento terapeutico e didattico, per poi fondersi con i wargame, diventando un gioco a tutti gli effetti.

Più nello specifico il gioco di ruolo fa la propria apparizione, in ambito clinico, grazie ad un intuizione dello psichiatra Jacob L. Moreno che, negli anni 30 del novecento elaborò e sviluppò il concetto di psicodramma.

Lo Psicodramma è sostanzialmente l’antenato proveniente dalla psichiatria, del moderno GdR. Moreno infatti concepì lo psicodramma come un’esperienza in cui i partecipanti potevano esplorare emozioni, conflitti e ruoli attraverso l’interpretazione attiva di situazioni simulate. Con tanto di inversione dei ruoli tra i partecipanti, generalmente paziente e terapista, ma non necessariamente, lo psicodramma infatti superò rapidamente i limiti delle sessioni individuali, aprendosi a sessioni e terapie di gruppo ed è ancora oggi ampiamente utilizzato in percorsi di recupero collettivi. Questo approccio, all’epoca era estremamente innovativo in quanto incoraggiava i partecipanti a esplorare le proprie identità in modo sicuro e controllato, promuovendo il benessere psicologico e la crescita personale.

Nei propri scritti Moreno descrive lo psicodramma come una sorta di “teatro della spontaneità” in cui il soggetto può rivivere e affrontare situazioni difficili, reali o immaginarie, al fine di sviluppare nuove prospettive, nuovi punti di vista, elemento fondamentale per superare il trauma.

L’altro antenato del moderno gioco di ruolo sono i Wargame, ampiamente diffusi in Europa tra XVIII e XX secolo. Uno degli esempi di maggiore successo fu il Kriegsspiel, un wargame ideato da Georg Leopold Von Reisswits, un ufficiale prussiano, nel 1812. Questo “gioco”, era tutt’altro che ludico, si trattava in realtà uno strumento didattico e di addestramento tattico strategico, pensato per gli ufficiali prussiani che consentiva ai “giocatori” di simulare un campo di battaglia, disporre le proprie truppe e muoversi così in una battaglia simulata contro un altro giocatore al fine di trionfare in battaglia. Ancora oggi i Wargame sono ampiamente diffusi e utilizzati in campo militare, in versioni più raffinate e sofisticate, e rappresentano uno strumento essenziale per l’addestramento degli ufficiali della maggior parte delle forze armate del pianeta.

Nel XX secolo i wargame subiscono una trasformazione epocale, passano dall’essere uno strumento didattico militare a vero e proprio hobby per appassionati di storia e strategia. Alessandro Barbero, Storico e divulgatore italiano ad esempio, è un grandissimo appassionato di Wargame, e non è l’unico, nel corso dei miei studi in storia, mi sono imbattuto in innumerevoli docenti e studenti appassionati di Wargame. La fortuna dei Wargame Ludici arriva grazie a titoli come Little Wars di H.G. Wells, pubblicato nel 1913, per poi diffondersi, soprattutto in Europa, nel primo dopoguerra e negli anni 20 e 30, grazie anche ad una certa spinta da parte di politiche fortemente militariste che volevano cittadini perfettamente inquadrati in ranghi militari.

Dagli anni 30 in poi abbiamo quindi lo Psicodramma e successivamente il teatro dell’improvvisazione, come strumento terapeutico, che privilegia la narrazione e l’interpretazione e il Wargame, come strumento didattico e ludico che invece si focalizza su aspetti tattici e strategici, ed è solo negli anni 70 del 900 che questi due mondi si incontrano grazie a Gary Gygax e Dave Arneson, che diedero vita a quello che è per molti il primo gioco di ruolo moderno, ovvero Dungeon’s & Dragon’s (D&D), pubblicato la prima volta nel 1974 e che nel 2024 ha compiuto 50 anni, ha visto diversi aggiornamenti nel corso del tempo ed è ancora oggi ampiamente giocato e apprezzato, io stesso sono un giocatore di D&D anche se preferisco titoli più narrativi in cui il “potere decisionale” del dado è meno incisivo, come ad esempio i più moderni e narrativi Apocalypse World o Not The End.

Con l’avvento e la popolarità di D&D il gioco di ruolo, soprattutto negli anni 80 e 90, diventa un vero e proprio fenomeno culturale e nacquero numerosi altri giochi con elementi e caratteristiche più o meno simili tra loro, riuscendo a contaminare anche, a partire dagli anni 90, il mondo del videogioco, con la nascita dei primi RPG e più in avanti, grazie ad internet, dei GdR ByChat, e gli MMORPG.

Gioco di ruolo e scienza

Come abbiamo visto dalla sua storia, il gioco di ruolo nasce sostanzialmente dall’unione di wargame e psicodramma ma questo non ci dice ancora se effettivamente, come sostiene Federludo, aiuta il benessere psicologico o invece come sostiene Nordio, lo danneggia.

Cercando articoli relativi al gioco di ruolo su Google Scholar, motore di ricerca per le pubblicazioni accademiche e PubMed, la National Library of Medicine, sostanzialmente il più grande archivio digitale con pubblicazioni cliniche, troviamo per lo più articoli che parlano dei benefici del gioco di ruolo che, come anticipato, è ancora oggi ampiamente utilizzato in ambito didattico e terapeutico, sia in sessioni individuale che in sessioni di gruppo, inoltre, in ambito pedagogico è un eccellente strumento didattico.

Troviamo però anche altro, alcuni studi ad esempio suggeriscono che in casi rari, il coinvolgimento eccessivo nei GdR, e l’esposizione prolungata all’ambiente di gioco, possa portare a un distacco dalla realtà sociale. In tale senso l’articolo di Zaheer Hussain e Mark D. Grtiffiths, The attitudes, feelings, and experiences of online gamers: a qualitative analysis, del 12 Dicembre 2009, DOI 10.1089/cpb.2009.0059 rappresenta una delle principali e più autorevoli fonti scientifiche.

L’articolo però, va precisato, non parla propriamente di Gioco di Ruolo, quanto più della sua declinazione on-line, come si può infatti leggere nell’abstract, il soggetto dello studio sono “massively multiplayer online role-playing games (MMORPGs)” e non il GDR in sè.

Altro contributo degno di nota è il libro “Dangerous Games: What the Moral Panic over Role-Playing Games Says about Play, Religion, and Imagined Worlds” di Joseph P. Laycock, del 2015“, in questo libro, presente su Jstor, si affronta storicamente l’associazione del gioco di ruolo al satanismo e il panico satanista che si diffuse tra anni 80 e 90, e di come, studi successivi agli anni 90 , hanno dimostrato che queste paure erano infondate e alimentate da pregiudizi culturali.

Più interessante invece è il saggio “The Fantasy Role-Playing Game: A New Performing Art. McFarland” di Mackay, D. (2001), in cui si osserva come in alcuni soggetti vulnerabili, il gioco di ruolo potrebbe essere lesivo, amplificando le tendenze ossessive o dinamiche interpersonali problematiche. Nel saggio si osserva inoltre che queste casi sono tuttavia estremamente rari e non superiori ad altri hobby o giochi, più precisamente, questo tipo di effetto collaterale del gioco di ruolo, non è in realtà legato al gioco di ruolo ma al giocatore, e queste problematiche, per quei soggetti, si presenterebbero in qualunque hobby, compreso il gioco di ruolo.

Conclusioni personali

Per questa sezione metto un disclaimer, da qui in avanti ci saranno osservazioni personali, considerazioni soggettive, basate sulla documentazione scientifica presentata e citata nella sezione precedente.

La scienza ci dà risposte abbastanza chiare a proposito del gioco di ruolo, è probabilmente uno degli hobby e delle attività ludiche più sane che si possano avere, poiché stimola la creatività e le interazioni sociali. A differenza di altri giochi, quando giochi di ruolo, non puoi stare da solo, il gioco ti forza a collaborare con gli altri giocatori, a confrontarti con loro, e soprattutto ad interagire con loro. Si tratta di uno strumento incredibilmente potente, in grado di creare e rafforzare legami interpersonali, come nessun’altra tipologia di gioco è in grado di fare.

Come qualsiasi altro gioco tuttavia, non è esente da problematiche, e il rischio che i giocatori possano isolarsi e chiudersi in un mondo utopico e di fantasia, è presente, ma tale rischio riguarda prevalentemente soggetti fragili che ricadrebbero in quella stessa problematica con qualsiasi gioco, dal calcio al monopoly ai videogiochi, e come osservato e documentato in innumerevoli articoli scientifici e saggi, non è un problema che va dal gioco al giocatore, ma è un problema che parte dal giocatore e indipendentemente dal media, riguarda esclusivamente il giocatore.

Prendiamo ad esempio una persona con diverse difficoltà fisiche, impossibilitato per qualche motivo a muoversi e fare esperienza con il mondo. Quella persona non potrebbe viaggiare e potrebbe fruire del mondo solo ed esclusivamente in maniera passiva, attraverso la lettura, attraverso film, serie tv, ecc. Tuttavia, a quella persona, il gioco di ruolo, in particolare il gioco di ruolo on-line, offre un opportunità unica, gli offre la possibilità di vivere una vita che altrimenti gli sarebbe negata, di fare esperienze impossibili che i comuni mortali possono solo vedere in un film. Un giocatore di ruolo paralizzato dalla vita in già può vivere l’esperienza di lanciarsi all’inseguimento di un avversario fenomenale, e scegliere nella più totale e assoluta autonomia, senza alcun limite “meccanico” presente invece nei videogiochi.

In definitiva un giocatore di ruolo, nel momento in cui inizia il gioco, può essere eroe, esploratore, mente eccelsa o folle mercante, e fare qualsiasi cosa, dalla più nobile alla più deplorevole, e una volta finito il gioco, tornare alla propria routine quotidiana, e in questo, non c’è assolutamente nulla che possa danneggiare la sua psiche, perché semplicemente, nel gioco di ruolo, il giocatore sogna e gioca con la fantasia.

Personalmente trovo assurdo che un politico che ha calcato il palco di un festival che prende il nome di “Atreju”, il fantastico protagonista de la storia infinita, che esalta la fantasia, i sogni e l’immaginazione, possa dire che sognare, giocare con la fantasia e l’immaginazione è qualcosa che può apportare gravi danni psicologici. Come ci insegna proprio Atreju, l’uomo muore quando smette di sognare e il nulla divora ogni cosa.