Sono laureato in storia contemporanea presso Unipi.
Su internet mi occupo di divulgazione, scrivo storie di storia, geopolitica, economia e tecnologia.
Il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA Michael Waltz l’ha fatta grossa, e con un colpo da maestro che neanche il nostro amato Razzi si immaginerebbe, ha erroneamente fornito Jeffrey Goldberg, direttore dell Atlantic, accesso a documenti segreti, piani di guerra e informazioni compromettenti su l’attuale gabinetto del presidente USA.
Tutto ha inizio l’11 marzo, quando Waltz aggiunge Goldberg ad un gruppo su Signal, un’app di messaggistica simile a Whatsapp e Telegram, che il Pentagono considera sicura.
Il gruppo si chiama “Houthi PC Small Group” e non è un gruppo tra amici per organizzare una pizzata. A meno che per pizzata non si intenda un operazione militare nel mar rosso. In quel caso si, è il gruppo per una pizzata. Nel gruppo ci sono il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA Waltz, il vicepresidente JD Vance, il segretario della difesa Pete Hegseth, e vari altri membri di spicco del gabinetto di Trump.
Nel gruppo si discute, come in un gruppo tra amici, c’è chi spiega le ragioni, chi dice di non essere d’accordo, chi interviene sporadicamente inviando emoji a caso, intanto il tempo passa e arrivati al 15 marzo l’operazione ha inizio e Goldberg si rende conto che in quei 4 giorni ha avuto accesso ad una miniera d’oro di informazioni classificate.
Ha letto i dubbi di Vance, per il quale intervenire significava aiutare Europa e Cina, perché gli Houthi rallentano il traffico marittimo tra Asia ed Europa, e questo non è in linea con la politica di Trump.
Ed ha letto le motivazioni di Heigseth, per il quale bisognava intervenire per dimostrare il fallimento di Biden, attaccare indirettamente e senza ripercussioni l’Iran, accusato di finanziare gli Houthi e in quanto ai dubbi di Vance sottolinea che gli americano neanche sanno chi o cosa sono gli Houthi. Non c’è quindi da preoccuparsi.
Ci si chiede se sia opportuno discutere di un’operazione così delicata, in una chat di gruppo, si osserva la poca attenzione del consigliere alla sicurezza nazionale che ha aggiunto “per errore” un giornalista ad un gruppo in cui sono state condivise informazioni riservate.
Qualche giorno dopo, il 24 marzo, Goldberg ha raccontato in un audio di 24 minuti, di come è stato invitato nel gruppo, allegando alcune screenshot delle conversazioni tra Hegseith e Vance. LA notizia fa immediatamente il giro del mondo, e subito arriva la replica di Waltz che parla di “errore” seguito da un pietoso affondo di Hegseith, ex giornalista Fox, che accusa Goldberg di essere un giornalista “disonesto”, perché ok l’errore di Waltz, ma lui avrebbe dovuto abbandonare immediatamente il gruppo e non rimanere lì a “spiarli” in silenzio.
La responsabilità della fuga di notizia è magistralmente spostata sul giornalista che, pur avendo avuto accesso a materiale classificato dal consigliere della sicurezza nazionale, non lo ha divulgato.
Considerazioni personali
Voglio far presente che, se uno scandalo di questo tipo fosse scoppiato durante l’amministrazione Biden, tutte le personalità politiche presenti nel gruppo (Vance, Waltz e Hegseith) non avrebbero esitato ad attaccare duramente l’amministrazione, accusare il consigliere di tradimento, chiedere di rimuovere dall’incarico tutti i funzionari disattenti che hanno permesso una gravissima fuga di informazioni, avrebbero probabilmente elogiato il giornalista che pur avendo accesso a quel materiale non lo ha divulgato, tutelando la missione, e non è da escludersi che avrebbero chiesto l’impeachement per il presidente, colpevole di aver scelto collaboratori inaffidabili.
Probabilmente ci sarebbero state anche ripercussioni in UE, soprattutto da parte delle destre vicine a Trump, che avrebbero certamente chiesto spiegazioni per le parole ostili spese dal Vicepresidente degli USA nei confronti dell’Europa, de facto, posta sullo stesso piano di Iran e Cina.
Voi cosa ne pensate? Cosa succederà ora a Waltz? Verrà rimosso dall’incarico o gli verrà perdonato l’errore in buona fede?
Ma soprattutto, la responsabilità della fuga di notizie è di Waltz, che ha aggiunto Goldberg al gruppo, o di Goldberg che non ha rivelato la propria presenza e non è uscito dal gruppo?
L’idea di un Europa unita in un unica nazione è un qualcosa che ci accompagna fin dalla caduta dell’Impero Romano, la fine di quell’impero universale ha infatti lasciato dietro di se un vuoto che negli ultimi 2000 anni molti sovrani hanno provato a colmare, e uno degli uomini che ci è andato più vicino è stato l’Imperatore Carlo V d’Asburgo che, nel XVI secolo riuscì ad unire quasi tutte le corone d’Europa nel tentativo di diventare il monarca della cristianità universale.
In questo contesto storico molto particolare, nel quale non voglio addentrarmi in questo articolo, vennero prodotte una serie di Xilografia molto suggestive che rappresentavano l’Europa nel corpo di una donna, e non una donna qualsiasi, ma l’Europa Regina, sposa dell’Imperatore Carlo X e in questo articolo voglio parlare proprio di una di queste Xilografie, spiegarne il significato e la simbologia.
Xilografie dell’Europa regina
Intorno alla metà del XV secolo, in Europa, iniziarono a circolare diverse raffigurazioni allegoriche dell’Europa, tra le più antiche di cui abbiamo traccia, una xilografia risalente al 1537 realizzata dal cartografo Johannes Bucius/Putsch, mentre la più popolare di queste, nota come Europa Regina o Europa Virgo, venne realizzata circa 40 anni dopo dal teologo tedesco Heinrich Bünting, e venne pubblicata nel testo “Itinerarium Sacrae Scripturae”, una riscrittura della bibbia in forma di libro di viaggi contenente una serie di dieci Xilografie, approssimativamente nel 1581.
Nell’Itinerarium Sacrae Scripturae appaiono circa 10 xilografie, e una di queste è proprio Europa Regina. C’è poi un immagine del mondo rappresentato come un trifoglio con Gerusalemme al centro, e l’Asia come cavallo Pegaso, il mitico cavallo alato.
Il significato di Europa Regina
La Xilografia Europa Regina di Bünting, come possiamo vedere, ci mostra l’Europa nella forma di una donna, e ogni elemento di questa immagine ha un suo peso e un significato ben preciso.
Partiamo dalla testa della donna, che coincide con la penisola iberica e su cui poggia una corona e non una corona comune, una corona ad anello carolingia, simbolo del potere imperiale e la supremazia che in quel tempo la Spagna esercitava sull’intero continente e allo stesso tempo un richiamo al Sacro Romano Impero.
Nella mano sinistra della regina, che coincide con la Danimarca, vi è uno scettro, simbolo di autorità e dominio, mentre nella mano destra, che coincide con l’Italia, è presente un globo, Orbe, che coincide con la Sicilia ed è tradizionalmente il simbolo del potere universale e del dominio sul mondo. Scettro, Orbe e Corona sono insieme insegne imperiali, simboli del Sacro Romano Impero che sottolineano la portata globale del potere europeo che si estende ben oltre i propri confini geografici.
I simboli imperiali sono nelle mani e sulla testa dell’Europa, e il suo corpo è l’Europa stessa, ed è il corpo di una donna, la cui testa è formata dalla penisola iberica, e il suo collo coincide con i pirenei che separano la testa dal busto e dal seno, rappresentati dalla Gallia, mentre i territori della germania e austria e in generale dell’Europa Centrale, rappresentano il torso e la parte centrale del corpo.
Il cuore di questa donna è leggermente spostato in basso, e coincide con Austria e Boemia, in altre rappresentazioni ha la forma di un medaglione all’altezza della sua vita. Infine, dalla Boemia in giù, o meglio, ad est, si distende il resto del corpo, fino ai suoi piedi, un corpo coperto da un lungo abito che ingloba Ungheria, Polonia, Lituania, Livonia, Bulgaria, Moscovia, Macedonia e Grecia
Mentre scandinava e Isole Britanniche sono mostrate parzialmente in forma schematica e separate dal corpo.
Significato storico e politico
Questa Europa non è un europa qualsiasi, e in vero essa rappresenta la sposa dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo, la cui corona includeva la maggior parte dei territori che coincidono con il corpo dell’Europa. Carlo V regnava sul Sacro Romano Impero, i territori austriaci, le terre borgognone e il regno di Spagna e da sovrano di uno degli imperi più estesi d’Europa dai tempi di Roma, ambiva a diventare il monarca universale della Cristianità.
Non è quindi un caso se l’orientamento della donna è verso ovest e la Spagna (Hispania) rappresenta la testa della donna o se il volto stesso della donna assomigli a quello di Isabella di Portogallo, moglie di Carlo V.
Allo stesso tempo i territori asburgici spmp rappresentati come cuore e centro del corpo della donna, e il vestito della donna richiama gli abiti usati all’epoca presso la corte degli Asburgo.
Negli ultimi anni il Lago d’Averno, in provincia di Napoli, è stato teatro di un raro fenomeno naturale, estremamente affascinante e suggestivo, che si verifica in poche altre parti del mondo. Le sue acque, sul finire dell’inverno e l’inizio della primavera, hanno iniziato a tingersi si rosa. Un fenomeno che interessa anche altri laghi in veri angoli del mondo, con elementi simili tra loro.
In questo articolo cercheremo di comprendere il fenomeno e l’importanza del lago d’averno, dal punto di vista storico e scientifico.
Origine del Lago d’Averno
Partiamo dal lago d’averno e le sue origini. Si tratta di un antico lago vulcanico, situato in Campania, nel cuore dei campi flegrei, un ampia area vulcanica attiva da migliaia di anni. La definizione corretta per il lago d’averno è lago di cratere, si tratta infatti di un lago che sorge all’interno del cratere di un vulcano, motivo per cui la sua forma è perfettamente circolare e d è circondato da ripide pareti in cui si aprono innumerevoli cavità sotterranee, caratteristiche tipiche di questa tipologia di laghi.
Il suo nome è molto antico, e si ipotizza gli sia stato attribuito tra i 2700 e i 2400 anni fa, quando nella regione si insediarono i primi coloni greci. Il nome Averno deriva infatti dal termine greco “Aornos” il cui significato letterale è “senza uccelli” e il motivo per cui gli venne dato questo nome è auto esplicativo, era un lago senza uccelli, e il motivo per cui in quel lago non c’erano uccelli è legato all’attività vulcanica della regione.
Nel primo millennio avanti cristo, e almeno fino al primo secolo avanti cristo, gran parte dell’area dei campi flegrei era ricca di fumarole, l’aria era impregnata di un odore acre e sulfureo, che la rendeva particolarmente pesante da respirare, e lo stesso valeva per le acque del lago, ricche di zolfo, dal sapore nauseabondo, e ostili alla vita, non vi erano quindi pesci e di conseguenza, non vi erano uccelli, da qui il nome “Aornos“, ad indicare un lago privo di uccelli.
Lago d’averno tra miti e legende
ll lago d’averno nel mondo antico era immerso in un paesaggio che oggi definiremmo infernale, e il motivo per cui oggi consideriamo infernale un ambiente inospitale, puzzolente, pieno di nebbia e fumi è legato proprio al lago d’Averno che, nel mondo greco venne associato alle antiche battaglie tra Zeus e i Titani, per poi divenire, nel mondo latino, la mitica porta di accesso all’Ade.
La natura suggestiva del lago, spinse i primi coloni grechi ad attribuire al lago un aura di mistero e sacralità, il lago era per gli antichi coloni greci, una prova tangibile della realtà della tangibilità dei propri miti, era un autentico punto d’incontro tra il mondo umano e quello divino, e questa percezione sopravvisse ai greci, radicandosi anche nella mitologia romana.
Se nella mitologia greca, il lago era un residuo delle antiche battaglie divine tra Zeus e i Titani, in epoca romana, il lago divenne la porta d’accesso al mondo sotterraneo e all’ade. A darci testimonianza di ciò, l’Eneide di Virgilio, dove il lago d’averno viene descritto come un luogo oscuro e inquietante, una “profonda grotta” che conduce al regno dei morti. Ma non solo, ci dice anche che la porta degli inferi collegava il regno dei morti a quello dei vivi con uno dei tanti fiumi infernali, l’Acheronte, un fiume spettrale, dalle cui acque rosse come il sangue si allungavano come tentacoli le braccia dei defunti che ribollivano e ed emettevano boati agghiaccianti. Una descrizione inquietante, suggestiva, e che trova perfettamente senso in un contesto ricco di fumarole, sorgenti termali e in cui in alcuni periodi dell’anno fioriscono alcune alghe dando all’acqua un colore rossastro.
Spiegazione del fenomeno delle acque rosa
Noi oggi sappiamo dare una spiegazione scientifica alla maggior parte dei fenomeni osservati dagli antichi e tramandati da Virgilio, e tra questi fenomeni, potrebbe esserci anche quello delle acque rosa che da qualche anno ha interessato il lago d’Averno.
Da qualche anno infatti il Lago d’Averno ha attirato l’attenzione dei locali, della scienza e dei turisti, per un fenomeno particolare: la sua periodica colorazione rosa o rossa. Dal 2022 questo fenomeno è stato osservato e in maniera più intensa, nello specifico, tra febbraio e marzo le acque del lago hanno assunto per qualche settimana una colorazione rossa molto intensa.
Dal punto di vista scientifico il fenomeno è noto da tempo e ampiamente documentato, il cambio di colore è infatti dovuto alla fioritura di alcune alghe e dal cianobatterio Planktothrix rubescens, un microrganismo che in determinate condizioni ambientali, può proliferare rapidamente e produrre pigmenti rossi, come la ficoeritrina, che conferiscono all’acqua una colorazione rossastra.
Le fioriture di cianobatteri sono spesso favorite da un aumento della disponibilità di nutrienti (eutrofizzazione), dalla stabilità della colonna d’acqua, dalla disponibilità di luce e da temperature elevate elevate. E se la maggior parte delle condizioni necessarie alla fioritura sono costanti negli anni, un elemento in particolare è invece variabile, ovvero la temperatura delle acque.
Eventuali riferimenti al fenomeno nell’antichità
Come abbiamo visto, nel mondo antico il Lago d’Averno ha giocato un ruolo centrale nella mitologia greco romana, e nei secoli medievali, l’intera area di Pozzuoli è stata molto frequentata e che vi erano nella regione diversi siti di interesse per i viaggiatori, tutti perfettamente descritti. Ne consegue che, se il fenomeno si fosse verificato nel corso dei secoli, qualche testimonianza autorevole dovremmo averla. Soprattutto nella mitologia greco-romana, dove un fenomeno simile, in un luogo così importante per la mitologia, avrebbe avuto certamente una spiegazione mitica. E se il fenomeno si fosse ripetuto nel tempo, ne avremmo certamente un qualche legame con la tradizione, come accade in altre parti del mondo dove si registrano fenomeni analoghi.
Ma nei campi flegrei, nonostante gli innumerevoli miti legati al Lago d’Averno, non abbiamo nulla di tutto ciò, le descrizioni antiche parlano di un lago d’averno lo descrivono con acque scure e non ci sono riferimenti o menzioni a possibili cambiamenti di colore. L’unico accenno di riferimento alle acque rosse che abbiamo è nella descrizione di alcuni fiumi infernali, che però, non sembrano una spiegazione molto forte.
L’assenza di testimonianze antiche potrebbe suggerire che tali fenomeni erano isolati e poco frequenti, e in effetti anche ad oggi lo sono. basti considerare che, dall’inizio degli anni duemila, il Lago d’Averno si è tinto di rosa soltanto nel 2022 per poche settimane.
Sono finalmente riuscito a recuperare M, il figlio del secolo, la serie Sky con Luca Marinelli nei panni di Mussolini.
E visto che più di qualcuno me l’ha chiesto, vi do il mio parere.
Comincio col dire che la serie mi è piaciuta tantissimo è inquietante, divertente e ci mostra un Italia degli anni 20 molto attuale, diciamo pure che viviamo in un momento storico in cui tracciare un parallelismo con gli anni 20 del secolo scorso, è abbastanza “facile”.
Il Mussolini che incontriamo nella serie è un ottimo Mussolini, ben caratterizzato e forte di discorsi e riflessioni che sono presi direttamente dai suoi scritti, sia pubblici che privati.
Gli scritti pubblici ci mostrano un mussolini “forte”, quelli privati un mussolini più vulnerabile e la serie dosa bene questi momenti.
Piccola nota tecnica, molte scene sono prese direttamente da un ciclo di lezioni di storia del professor Emilio Gentile, tenute circa 15 anni fa, e per chi fosse interessato, sono disponibili come podcast su Audible.
Dico che sono prese da lì, e non da altre opere biografiche su Mussolini, perché Marinelli nella serie si rivolge direttamente allo spettatore, fa alcune considerazioni, battute e provocazioni che troviamo anche nelle lezioni di Emilio Gentile, come battute e provocazioni del professore.
Tornando a Mussolini, sebbene sia un ottimo personaggio negativo, quello ci viene mostrato non è proprio Mussolini, e volendo essere provocatori, non è più Mussolini del Mussolini di raccontato da Indro Montanelli in “Io e il Duce”, solo che lo vediamo dal punto di vista “opposto”.
La serie ci mostra un Mussolini surreale, scaltro e manipolatore ma anche codardo e opportunista, che sa girare a proprio vantaggio anche un evento negativo, mentre Montanelli ci fornisce un racconto molto assolutorio nei confronti del Duce, ci racconta un Mussolini vittima degli eventi, un uomo sostanzialmente buono che si circonda di cattive amicizie e commette “qualche errore” nel tentativo di inseguire il potere.
La verità sta nel mezzo, Mussolini è entrambi i Mussolini e non è nessuno dei due.
Mussolini nel ventennio fece un lavoro meticoloso per costruire attorno a se e alla propria figura un culto quasi religioso, una fede laica nell’uomo e, per usare proprio le parole di Emilio Gentile, divenne un autentico nume vivente, il primo e forse unico vero nume vivente della storia contemporanea… Hitler e Stalin dopo di lui lo hanno imitato, e pur facendo un ottimo lavoro, non sono riusciti a farsi “amare” quanto gli italiani amarono Mussolini.
E questo la serie lo sa, ce lo dice, e prova a decostruire quel mito, raccontando un Mussolini più umano e “miserabile”.
La serie strappa via quell’aura di sacralità e misticismo che da più di un secolo avvolge Mussolini e ci restituisce un uomo, che ha delle paure, che commette degli errori, e ne commette, senza che però questa sua umanizzazione lo assolva, ma anzi, diventa quasi un aggravante.
Nel complesso la serie l’ho già detto, l’ho apprezzata molto, e il fatto che parli più dell’attualità che degli anni 20, forse è un motivo in più per guardarla.
Benito Mussolini, il Duce, o meglio, il Duce del fascismo, perché in realtà questo titolo che rievoca la tradizione romana, non arriva a Mussolini direttamente da Roma, ma lo eredita, in un certo senso, dalla sua precedente esperienza socialista.
Politicamente Mussolini nasce socialista, e la sua visione del mondo, le sue battaglie, le sue idee, sono frutto di una progressiva evoluzione, contaminazione e radicalizzazione, di quel socialismo riformista, belligerante e nazionalista, di cui fu fomentatore e prodotto e che in alcune occasioni gli valse il titolo di duce. Titolo ereditò e mantenne anche durante l’esperienza fascista.
In questo articolo non mi interessa l’uomo o il fascista, in questo articolo parleremo di un duce che divenne il duce.
Il termine “duce” tra etimologia
Incontriamo la prima volta la parola Duce, nel lessico politico italiano, nel XIX secolo, nel contesto del dibattito politico interno al partito socialista italiano. Questo termine, come ben riporta la tradizione, deriva dal latino dux che letteralmente significa «capo» o «guida».
La parola dux è di uso comune in epoca romana, la troviamo in tantissimi documenti e monumenti, e generalmente indica comandanti militari o leader politici di alto rango, o più in generale, figure molto carismatiche. Viene ad esempio, utilizzato in alcuni contesti, per riferirsi a Giulio Cesare.
Tra il medioevo e l’età moderna, il termine mantiene un aura di prestigio, ma è usata sempre meno, è uno degli innumerevoli termini latini che si conoscono, ma sono usati molto raramente fino a sparire quasi del tutto dal lessico comune.
Il duce socialista
Nel XIX secolo tuttavia, la riscoperta del mondo classico ad una riscoperta del termine, che nel frattempo è mutato e a tratti frainteso, e diventa un termine abbastanza generico, e privo di prestigio, per indicare leader politici o militari. Per dirla tutta, nell’Europa sul finire del XIX secolo e inizio del XX secolo, il termine duce, non ha alcuna connotazioni ideologica o politica, indica semplicemente un ruolo, e sarà solo in Italia, tramite Mussolini, che il significato di questo termine muterà nuovamente, ma a questo arriveremo a breve.
Tornando all’Italia di fine ottocento, il movimento socialista italiano, utilizza occasionalmente il termine duce, quasi sempre in contesti informali, per descrivere figure carismatiche all’interno del Partito Socialista Italiano (PSI), questo utilizzo permane anche agli inizi del novecento e viene utilizzato anche per descrivere personaggi di spicco del partito come un giovane Benito Mussolini.
Mussolini è un socialista rivoluzionario, molto carismatico, e soprattutto molto informale nel suo modo d’essere. Mussolini è un “uomo nuovo” della politica, non viene da una grande famiglia e questo termine gli calza a pennello, soprattutto negli anni della militanza rivoluzionaria.
Come abbiamo detto, il termine duce all’epoca è un termine informale, e rimane circoscritto a contesti locali e correnti interne del partito. In sostanza, non rappresenta un titolo ufficiale e Mussolini è uno dei tanti Duce del partito socialista italiano, anzi, romagnolo.
Il duce del fascismo
La fuoriuscita di Mussolini dal PSI e la costituzione del fascismo nel 1919, sono due momenti importanti tanto per mussolini quanto per il termine Duce. Da questo momento in poi, Mussolini inizia a costruire la propria immagine di leader carismatico, e, sebbene il termine duce sia ancora usato dai socialisti, inizia ad essere usato anche dai primi fascisti, in riferimento proprio a Mussolini.
A partire dal 1923 per volontà di Mussolini, il termine duce smette di essere un termine generico e informale, senza colore politico e diventa un vero e proprio titolo. Mussolini non è più uno dei tanti duce socialisti o di altre forze politiche rivoluzionarie o reazionarie, Mussolini non è più il duce del fascismo, Mussolini è il Duce. Questo momento segna la trasformazione del termine in un titolo esclusivo e onnipresente, diventa un simbolo di quel culto della persona, ripreso successivamente da altri leader carismatici, da Stalin a Trump, che cercheranno, e in alcuni casi riusciranno ad emulare la trasformazione di Mussolini in un autentico “Nume Vivente”, per usare le parole di Emilio Gentile.
La trasformazione del termine avviene attraverso la propaganda, gli slogan e l’arte di regime. Il fascismo riuscì nell’impresa epocale di elevare il Duce ad un entità quasi metafisica, legittimata dalla retorica della “romanità” e della “rivoluzione fascista”.
Inutile dire che l’adozione ufficiale del titolo di Duce da parte di Benito Mussolini, in un contesto di enorme polarizzazione politica, portò al totale abbandono di tale termine nell’universo socialista italiano ed europeo, contribuendo a renderlo un titolo esclusivo del fascismo.
Nella notte tra il 27 e 28 febbraio 1933, il palazzo del Reichstag a Berlino, importante edificio della democrazia tedesca dell’epoca, venne avvolto e divorato dalle fiamme. Secondo la versione ufficiale, il responsabile dell’attentato incendiario fu Marinus van der Lubbe, trovato sul posto durante le operazioni di spegnimento. La Germania era in quel tempo guidata dal neoeletto cancelliere Adolf Hitler, alla testa del partito Nazional Socialista dei lavoratori tedeschi (il partito Nazista), e il governo di Hitler trovò nell’incendio un eccellente pretesto per accusare i comunisti di cospirazione e attività sovversive, inaugurando così un epoca di forte repressione politica e sociale legittimata dal Decreto dell’Incendio del Reichstag, con cui sostanzialmente si sospendevano le libertà civili.
L’incendio del Reichstag è considerato il momento culminante della Repubblica di Weimar e l’inizio della trasformazione della Germania nel regime Nazista e ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, il dibattito storiografico sull’effettiva responsabilità dell’incendio rimane un tema caldo.
In questo articolo voglio parlare dell’incendio del Reichstag, del contesto storico in cui avvenne, delle sue implicazioni e la sua eredità.
Cos’è il Reichstag
Se parliamo dell’incendio del Reichstag, è importante capire cos’è il Reichstag. In breve, il Reichstag è un edificio che ospitava, fin dal 1894 la camera bassa del parlamento tedesco, costituito nel 1871. Il Reichstag ha accompagnato la politica sia del Deutsches Reich (l’Impero Tedesco) che della Repubblica di Weimar.
L’edificio del Reichstag è stato progettato costruito, tra il 1884 e il 1894, dall’architetto Paul Wallot, e inaugurato nel 1894 dall’imperatore Guglielmo II, che tuttavia, ne criticò l’estetica neorinascimentale, definendo l’edificio un “monumento al cattivo gusto”.
Come anticipato, tra il 1894 ed il 1933 il Reichstag ha ospitato la camera bassa del parlamento tedesco, questa camera era composta da deputati eletti tramite suffragio universale maschile. Il potere esecutivo invece, rimaneva nelle mani dell’imperatore (fino al 1918) e con l’istituzione della Repubblica di Weimar, passava nelle mani del presidente della Repubblica, che de facto sostituiva l’Imperatore.
Il contesto storico dell’incendio del Reichstag
Nel 1918, con la fine della prima guerra mondiale da cui l’Impero tedesco esce sconfitto, viene istituita la Repubblica di Weimar (1919-1933, si tratta sostanzialmente di un esperimento democratico molto fragile sorto in un epoca post bellica, di grande crisi economiche, in un paese contaminato e divorato da conflitti sociali e instabilità politica. Una serie di fattori che rendono la Repubblica di Weimar storicamente un istituzione debole. Alla base della repubblica c’era la Costituzione di Weimar, approvata nel 1919. Questa costituzione garantiva una serie di libertà civili e suffragio universale maschile, tuttavia, il sistema l’estremo militarismo prussiano e le ambizioni rivoluzionarie portarono ad una forte polarizzazione del clima politico tra estremismi di destra e di sinistra, senza troppo margine di manovra per le forze politiche più moderate.
In questo clima, partiti tradizionali come la SPD (socialdemocratici) e la DNVP (conservatori), persero progressivamente consenso, mentre il Partito Nazista (NSDAP), riuscì a crescere e imporsi rapidamente come principale forza antisistema, sfruttò soprattutto il malcontento popolare.
Nei primi anni 20 la dimensione politica del partito Nazista è marginale, tuttavia, sulla fine del decennio, grazie anche ad elementi strutturali come la crisi economica del 1929, una forte ondata inflazionistica e un tasso di disoccupazione crescente, alimentarono una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni e, in un clima di forte sfiducia istituzionale, quelle forze politiche che si presentavano alla popolazione come paladini dell’ordine contro la barbarie bolscevica, riuscirono ad aumentare rapidamente i propri consensi.
Così, Hitler e la NSDAP, impostarono una forte campagna propagandistica di matrice antisocialista e anticomunista. I comunisti (KPD) ed i movimenti socialisti vennero accusati di minare l’unità nazionale, di cospirare intenzionalmente contro la nazione ed i tedeschi. La strategia propagandistica è un successo al punto che la propaganda antisocialista e anticomunista divenne una delle colonne portanti della strategia politica nazista.
In un primo momento le tensioni politiche crebbero a dismisura, sfociando in un clima di guerra civile latente, con attentati e scioperi, gli scontri di piazza, amplificati dalla violenza delle SA (squadrismo nazista) divennero una routine. In questo clima di disordine sociale il governo di Heinrich Brüning (1930-1932) fece ricorso ad una serie di decreti d’emergenza, con cui scavalcò sistematicamente il Reichstag, accelerando in questo modo l’erosione della già flebile democrazia tedesca dei primi anni 30.
Alle elezioni del 1932, i nazisti divennero il primo partito del Reichstag, senza però ottenere la maggioranza assoluta, tuttavia, grazie ad una serie di fruttuose e prolifiche alleanze tra élite conservatrici e radicali di destra, nel gennaio del 1933, Adolf Hitler riuscì ad ottenere la nomina di Cancelliere della repubblica di Weimar.
La nomina di un cancelliere come Adolf Hitler, portò ad un ulteriore deterioramento del clima politico e sociale, già devastato da un contesto di crisi e forte polarizzazione e per molti segnò l’inizio della fine per la Repubblica di Weimar.
La notte dell’incendio del Reichstag
A poche settimane dalla nomina di Hitler come nuovo cancelliere tedesco, nella serata del 27 febbraio 1933, alle 21:14, un violento incendio divampò all’interno del palazzo del Reichstag di Berlino. L’incendio divorò in pochi minuti l’aula della plenaria e parte dell’edificio. Stando alle cronache dell’epoca, la presenza nell’edificio di materiali altamente infiammabili come tendaggi e documenti, alimentarono rapidamente le fiamme rendendo l’incendio incontrollabile nonostante l’arrivo repentino e quasi immediato dei pompieri sul posto.
Nelle ore seguenti all’incendio i pompieri impegnati nelle operazioni di spegnimento dell’incendio, ritrovarono all’interno dell’edificio Marinus van der Lubbe, un giovane olandese, con simpatie comuniste, che secondo la versione ufficiale indossava indumenti bruciacchiati e portava con se attrezzi da lavoro. Lubbe era sopravvissuto all’incendio e venne immediatamente arrestato con l’accusa di aver appiccato il fuoco per conto del Partito Comunista Tedesco (KPD). Da quel che sappiamo, Lubbe dichiarò di aver agito da solo, tuttavia, per la propaganda Nazista Lubbe operava per conto del KPD e l’evento venne raccontato come una prova evidente di un complotto comunista che innescò una reazione a catena di responsabilità ed accuse politiche culminate nella fine della democrazia di Weimar e la nascita del terzo Reich.
Non troppo tempo dopo l’identificazione di van der Lubbe giunsero sul posto anche Adolf Hitler ed Hermann Göring e fu quest’ultimo a dichiarare, dopo aver appreso delle simpatie del giovane olandese per il comunismo, che l’incendio era stato orchestrato dai comunisti.
Il Decreto dell’Incendio del Reichstag (28 febbraio 1933)
Il vero momento di svolta per la democrazia tedesca fu il giorno successivo all’incendio del Reichstag, il 28 febbraio 1933. In quella data il presidente della repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg firmò un decreto d’emergenza, detto “Reichstagsbrandverordnung” proposto da Hitler e i Nazisti, con cui si sospendeva parte della Costituzione di Weimar, in altri termini, numerose libertà civili garantite dalla costituzione vennero sospese.
Con la promulgazione del “Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato” il governo ottenne il potere di limitare la libertà di stampa, di espressione e di riunione, inoltre poté legalizzare perquisizioni domiciliari e arresti arbitrari. Grazie a questo decreto, fu possibile avviare un imponente campagna repressiva ai danni di comunisti e socialdemocratici, accusati da Hermann Göring di aver attentato al Reichstag. In pochi giorni ci furono migliaia di arrestati e molti intellettuali, sindacalisti, giornalisti e politici furono costretti alla clandestinità.
Non è tutto, con questo decreto, in nome della sicurezza del popolo e lo stato, si conferivano al cancelliere tedesco, in quel momento Adolf Hitler, una serie di poteri straordinari, che rendevano superfluo il parlamento tedesco accelerando la trasformazione della Germania in uno stato autoritario e totalitario. Il Reichstagsbrandverordnung, prodotto come decreto d’emergenza, rimase in vigore per tutta la durata del Terzo Reich.
Teorie e dibattiti storiografici
Come abbiamo visto, secondo la versione ufficiale, sostenuta dalle autorità naziste, l’incendio del Reichstag fu un attentato di matrice comunista per destabilizzare il governo e di tale attentato uno degli esecutori materiali fu il giovane olandese Marinus van der Lubbe, il quale ha sempre dichiarato di aver agito da solo.
Questa versione della storia tuttavia non sembra convincere del tutto, e nel tempo ci sono state varie revisioni da parte di numerosi storici che mettono in discussione alcuni punti della narrazione. Uno degli aspetti maggiormente criticati della versione ufficiale è il ruolo di Lubbe nell’intera vicenda, secondo diversi autori infatti, la velocità e la portata dell’incendio non sembrano compatibili con la possibilità che un giovane abbia agito da solo. Molti ipotizzano che l’incendio possa essere stato organizzato e attuato dagli stessi Nazisti e che van der Lubbe non sia altro che un capro espiatorio finalizzato alla repressione politica.
A sostegno di questa tesi, l’estrema rapidità con cui è stato scritto, presentato e approvato il Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato. Secondo alcuni storici, un altra prova a sostegno di questa tesi, sono testimonianze di chi assistette all’incendio. Molti infatti hanno sostenuto la presenza di squadre delle SA (le milizie naziste) all’interno del Reichstag prima dell’incendio, e alcuni sostengono l’esistenza di documenti mostrerebbero una pianificazione preventiva di misure repressive. Tali documenti tuttavia potrebbero non avere alcun legame diretto con l’attentato e potrebbero essere scollegati da un articolato piano eversivo e limitarsi ad una mera strategia repressiva da attuare in caso di ascesa al potere.
Conseguenze politiche e ascesa della dittatura
Il 5 marzo 1933 si tennero nuove elezioni parlamentari, quelle che ad oggi sono ufficialmente le ultime elezioni della Repubblica di Weimar. Quelle elezioni furono profondamente influenzate dall’incendio del Reichstag e dalla successiva repressione nazista che costò al Partito Comunista Tedesco oltre il 4,6% dei consensi rispetto alle elezioni di Novembre, mentre il Partito Nazionalsocialista di Hitler guadagnò oltre il 10%, conquistando il 43,9% dei consensi, imponendosi nuovamente come primo partito, senza però ottenere, ancora una volta, la maggioranza assoluta di seggi (288/647).
Pur non avendo la maggioranza assoluta, Hitler riuscì ad ottenere l’incarico di cancelliere, sostenuto dai conservatori del DNVP e il 23 marzo 1933, il Reichstag approvò la Ermächtigungsgesetz, una legge che conferì al cancelliere il potere di emanare leggi senza il consenso del parlamento, una legge che sostanzialmente conferiva ad Hitler pieni poteri, segnando de facto la fine della democrazia tedesca.
Il Papa non è solo il capo della chiesa cattolica, ma è anche il sovrano assoluto dello stato Vaticano, uno stato che sorge nel cuore di Roma entro le mura di “città del vaticano”, ed è l’unica e ultima monarchia assoluta al mondo.
Il governo dello stato vaticano è affidato a diversi funzionari, principalmente cardinali, scelti e nominati dal Papa e generalmente risiedenti al Vaticano. Nella gerarchia della Chiesa, il Papa nomina Cardinali, Arcivescovi e Vescovi, questi invece ordinano i sacerdoti.
Il Papa, la cui carica è a vita, ma può dimettersi, è a sua volta eletto dai Cardinali riuniti nel Conclave, quest’ultimo ovvero è un organo collegiale che si riunisce esclusivamente per l’elezione del nuovo papa a circa 15 giorni dall’inizio della sede vacante. La sede vacante inizia con la morte o dimissione del pontefice.
Il collegio cardinalizio, ovvero l’insieme di tutti i cardinali, può essere convocato dal pontefice per definire l’andamento spirituale e politico della chiesa, e tale convocazione può avere forma più o meno estesa, a seconda delle decisioni e della rilevanza delle decisioni che verranno prese.
Il concistoro
Come anticipato, il collegio Cardinalizio può essere convocato dal papa in vari momenti e modalità ed una di queste modalità è detta concistoro, si tratta di un’assemblea solenne della Chiesa Cattolica Romana, presieduta dal Papa e composta dai cardinali del Collegio Cardinalizio e rappresenta uno dei momenti più antichi e significativi del governo ecclesiastico.
Il termine concistoro deriva dal latino consistorium che significa luogo di riunione o assemblea. L’oggetto di questa assemblea è solitamente relativo a questiono dottrinali, disciplinari o per la creazione di nuovi cardinali, vi sono tuttavia anche altre possibili “motivazioni”.
In effetti l’evoluzione storica del Concistoro è estremamente ampia e complessa, i primi esempi di concistoro di cui abbiamo traccia risalgono al IV secolo. All’epoca i vescovi si riunivano intorno al Papa per discutere questioni dottrinali. A partire dal XII secolo tuttavia, il concistoro divenne un organo amministrativo, molto strutturato e dal 1215, a seguito del Concilio Lateranense IV, il ruolo del concistoro venne formalizzò. Da quel momento il concistoro gode di potere decisionale in materia di fede, elezione dei vescovi (e cardinali) e riforme legislative.
In epoca più moderna, a partire dal Rinascimento, il concistoro ha visto aumentare la propria valenza politica, ed è diventato uno strumento estremamente importante nel determinare gli equilibri tra Santa Sede prima e lo stato vaticano poi, e le varie potenze europee. A partire dal 1870, con il Concilio Vaticano I, in cui si definì il dogma dell’infallibilità papale, il concistoro si è fortemente ridimensionato, ed ha perso gran parte del potere e peso decisionale acquisito in precedenza, diventando tuttavia, un momento chiave nella selezione dei cardinali e nella preparazione dei conclavi.
Struttura e Partecipanti
Esistono diverse forme di Concistoro di cui siamo a conoscenza, tutte presiedute dal Papa. Tra questi abbiamo il Concistoro Ordinario, generalmente convocato per questioni routine, come la canonizzazione di santi o nomine episcopali. Il Concistoro Straordinario, riservato a temi urgenti o complessi, come crisi dottrinali o riforme istituzionali, abbiamo poi il Concistoro Pubblico, una cerimonia aperta ai fedeli, spesso per la creazione di nuovi cardinali e in fine, il Concistoro Segreto, una sessione riservata ai cardinali per discutere argomenti delicati, tra cui le possibili dimissioni del pontefice.
Concistoro e dimissioni
Nel proprio pontificato, Papa Francesco ha convocato diversi concistori tra cui un concistoro straordinario nel 2014, per discutere la famiglia, in preparazione al Sinodo del 2015 o il concistoro del dicembre 2024, cui ha creato 21 nuovi cardinali. Nel 2013 invece, il predecessore di Bergoglio, Papa Benedetto XVI ha convocato un concistoro segreto, alla cui conclusione ha annunciato le proprie dimissioni, l’inizio della sede vacante e il successivo conclave in cui come sappiamo, venne eletto Papa Francesco.
Conclusione
In definitiva quindi, il concistoro rappresenta una delle colonne portanti del governo ecclesiastico, sintetizza in esso tradizione e adattamento ai contesti storici. Durante il Concistoro il Papa esercita quello che è detto munus petrinum (compito di Pietro), garantendo continuità dottrinale e rispondendo alle sfide contemporanee e la sua convocazione segnala sempre un momento di svolta, sia per la vita interna della Chiesa sia per il suo rapporto con il mondo.
Sul finire di febbraio 2025, più precisamente il 26 febbraio, durante la propria degenza in ospedale, e il susseguirsi di bollettini clinici complessi che hanno messo in agitazione milioni di fedeli, Papa Francesco ha convocato un concistoro. Non si conosce ancora l’oggetto di tale vertice ecclesiastico, ciò che sappiamo è che il Collegio dei Cardinali Elettori è al momento composto da 138 cardinali, 21 dei quali nominati a dicembre 2024, e al massimo possono esserci 150 cardinali elettori. È quindi improbabile che il concistoro convocato d’urgenza da papa francesco presso l’ospedale gemelli di Roma, serva per la nomina di nuovi cardinali, siamo inoltre in pieno giubileo ed è quindi da ritenersi altamente improbabile un grande dibattito dottrinale, anche perché il policlinico gemelli non è proprio il luogo più adatto per dibattiti dottrinali.
Molti ipotizzano ad un possibile passo in dietro di Papa Francesco, che come il proprio predecessore, in un momento di grande sofferenza, scelse le dimissioni rimettendo la guida della chiesa cattolica nelle mani di un nuovo papa, più “giovane” e in salute.
Un Viaggio nella Storia, nell’Architettura e nel Simbolismo
Nel cuore antico di Pechino, sorge la Città Proibita, uno dei monumenti più iconici della storia cinese che, per quasi mezzo millennio è stata il cuore pulsante della politica Cinese. Tra il 1420 e il 1912, la Città Proibita ha ospitato il centro politico e cerimoniale dell’Impero cinese, e tra i suoi edifici hanno camminato 24 imperatori delle dinastie Ming e Qing.
Il suo nome, “Città Proibita” è estremamente evocativo e affonda le proprie origini nel corso dei secoli. In questo articolo andremo alla ricerca delle sue origini ed esploreremo la sua funzione nel periodo in cui è stata il centro di potere più importante dell’Impero Cinese e dell’intera Asia.
Le Origini della Città Proibita
La storia della Città Proibita inizia in tempi relativamente recenti, siamo nel XV, la Cina è governata dalla dinastia Ming, e sul trono imperiale siede l’imperatore Yongle, terzo sovrano della suddetta dinastia Ming. Il regno di Yongle durerà tra il 1402 e il 1424 e rappresenta un punto di svolta nella politica cinese. Yongle decise di trasferire la capitale imperiale dalla tradizionale Nanchino a Pechino. La scelta è di natura politica, Trasferire la capitale, e con essa l’intera corte imperiale a Pechino, significa consolidare il controllo imperiale nella regione settentrionale dell’impero, che in quel periodo era oggetto di diverse incursioni mongole.
Portare la capitale a Pechino permette all’imperatore di controllare meglio l’esercito impegnato al nord, e quindi respingere con maggiore efficacia lee incursioni mongole. Qualcosa di analogo è stato fatto più di un millennio prima, anche nel mediterraneo, da diversi imperatori Romani, che spostarono la corte militare da Roma alle regioni più bellicose, come l’area germanica e l’oriente. Pensiamo a Costantino. Ecco Yongle è una sorta di Costantino dell’impero cinese dei Ming, e Pechino in un certo senso la sua Costantinopoli.
Per trasferire la capitale, e costruire per l’intera corte imperiale palazzi ed edifici che permettessero di amministrare il paese, furono impiegati, secondo la tradizione, oltre un milione di operai e artigiani, e nel 1420 venne inaugurata, nel cuore di Pechino, la “città proibita”.
Un complesso edilizio senza eguali, che si estendeva su una superficie di circa 72 ettari interamente circondato da mura alte 10 metri e profondi fossati. All’interno delle mura sorgevano oltre 1.000 edifici, la maggior parte dei quali adibiti a palazzi residenziali per funzionari e ospiti, ma non mancano templi, giardini e cortili. L’intera città proibita è stata progettata, sia dal punto di vista architettonico che organizzativo, secondo i principi del feng shui riflettendo così la cosmologica cinese e ponendo l’accento sull’armonia tra cielo, terra e uomo.
Il Significato del Nome: Perché “Proibita”?
Per quanto riguarda il nome, questa in origine si chiama Zǐjìn Chéng, un termine composto da tre parole, ovvero Zǐ, Jìn e Chéng che insieme formano appunto 紫禁城 (Zǐjìn Chéng), il cui significato può essere tradotto letteralmente in Città Proibita della Porpora Celeste, questo perché il termine 紫 (Zǐ) significa “porpora” o “viola”. Tale colore, secondo la tradizione cinese, era associato alla Stella Polare, stella che, nella cosmologia cinese rappresentava il centro celeste dell’universo. Il colore porpora è associato anche all’Imperatore, questo perché secondo la tradizione, l’Imperatore era il “Figlio del Cielo” e la sua residenza rappresentava la dimora terrena del potere divino.
Il termine 禁 (Jìn) invece significa “proibito” o “vietato”. Questo è esplicativo del fatto che l’accesso alla Città riservato solo a pochi privilegiati, per lo più nobili, funzionari, o al più, ospiti dell’imperatore. Pertanto, l’accesso alla città era rigidamente controllato e alla maggior parte della popolazione non solo non era consentito accedervi, ma era proprio vietato l’accesso.
In fine, il termine 城 (Chéng) significa semplicemente “città” o “fortezza”.
Come anticipato, Zǐjìn Chéng significa “letteralmente” Città Proibita della Porpora Celeste, mentre una traduzione più “concettuale”, un adattamento del nome, potrebbe essere Fortezza/Città Proibita dell’Imperatore, e in effetti, Zǐjìn Chéng non è altro che la “fortezza dell’Imperatore” e nell’uso comune col tempo è diventata la Città Proibita.
La Funzione della Città Proibita
La Città Proibita è un centro di potere a tutti gli effetti, un po’ come lo è ad oggi il “Vaticano” o Washington DC, e volendo fare un parallelismo con Washington la città proibita in senso stretto, è un po’ come se fosse la Casa Bianca. Ma la città proibita non è solo la residenza imperiale, è appunto una città, ed ospita anche il centro amministrativo e cerimoniale dell’Impero, e si articola in due grandi aree interne alle mura.
L’area più interna, è detta Nèicháo ed era riservata alla vita privata della famiglia imperiale, analogamente al giardino e il secondo piano della Casa Bianca. Questa parte della città comprendeva i quartieri dell’imperatore, della sua consorte e del suo harem. Non mancano giardini, biblioteche e sale per la meditazione.
L’area più esterna invece, è detta Wàicháo ed ospitava amministrativi, e quelli dedicati alle attività ufficiali, un esempio noto è la Sala della Suprema Armonia (Taihe Dian), che ospitava le cerimonie più importanti, come l’incoronazione degli imperatori e la nomina dei funzionari di corte. Volendo sempre mantenere il parallelismo con la White House e Washington, è come se la Taihe Dian fosse lo studio ovale dell’imperatore cinese mentre altri edifici nella Wàicháo assumevano altre funzioni che possiamo associare ai vari dipartimenti, al congresso e al pentagono.
La Città proibita però non è solo una residenza e luogo amministrativo, ma è anche un un simbolo del potere assoluto dell’imperatore. E in questo possiamo associarla ad altri edifici che nella storia occidentale abbiamo imparato a conoscere meglio, pensiamo alla Domus Aurea di Nerone, alla città del Vaticano, alla Reggia di Versailles di Luigi XIV o la White House.
Declino e Rinascita
La città proibita è stata il centro del potere imperiale tra il 1420 ed il 1912. Nel 1912 la Città Proibita il proprio ruolo politico, simbolico e la sua funzione di sede del potere imperiale a seguito della caduta dell’imperatore Puyi, l’ultimo imperatore cinese della dinastia Qing.
Sebbene la città non fosse più sede del governo, Pu Yi e molti dei suoi funzionari, rimasero “prigionieri” nella Città Proibita fino al 1924, quando Feng Yuxiang prese il controllo di Pechino con un colpo di Stato e negli anni seguenti, la città proibita è stata progressivamente abbandonata. Nel complesso, guerre e rivoluzioni del XX secolo hanno contributo a danneggiare enormemente la città proibita, almeno fino agli anni 80.
Nel 1987 l’UNESCO ha inserito il “palazzo imperiale delle dinastie Ming e Qing” tra i siti patrimonio dell’umanità, e da quel momento la città Proibita ha visto una seconda vita questa volta come città museo, non più aperta ad una cerchia ristretta di funzionari imperiali, ma totalmente aperta al pubblico e si stima che ogni anno attiri milioni di visitatori da tutto il mondo.
Conclusione
La Città Proibita è molto più di un semplice palazzo imperiale: è un libro di storia scritto in pietra, legno e oro. Attraverso la sua architettura e il suo simbolismo, racconta la storia di un impero, delle sue tradizioni e del suo rapporto con il divino. Oggi, mentre camminiamo tra le sue sale e cortili, possiamo immaginare la vita di imperatori, cortigiani e servitori che hanno plasmato il destino della Cina per secoli. La Città Proibita, con il suo fascino senza tempo, continua a ispirare e a stupire, offrendoci una finestra sul passato glorioso di una delle civiltà più antiche del mondo.
Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.
Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.
Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.
A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.
Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.
Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.
Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo
Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.
Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.
Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.
Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.
Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).
Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.
In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.
Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.
Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.
Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.
Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.
Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.
Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.
Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964
Lo scandalo del Piano Solo
Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.
Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».
Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.
All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.
Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.
Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.
La commissione di inchiesta sul piano solo
La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.
Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.
La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.
Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.
Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.
Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.
Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.
Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.
Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano
Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.
Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.
Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.
Conclusioni
Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.
Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.
Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.
Chi sono i cardinali papabili al prossimo conclave? Ecco tutti i nomi che gli esperti stanno discutendo in queste travagliate ore in cui le condizioni di salute del pontefice, Papa Francesco, sono sempre più complesse e oggetto di preoccupazione e speculazione per i fedeli.
Da quando è stato ricoverato al policlinico Gemelli di Roma è emersa una polmonite bilaterale, sempre più grave, che ha sollevato diversi dubbi e timori sulla possibilità che il papa possa tornare in salute e alla guida della chiesa e , sebbene lo stesso francesco in più occasioni abbia dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi e rimanere alla guida della chiesa fino alla fine, si comincia a speculare su possibili dimissioni, come già fatto da Ratzinger prima di lui.
Nel chiacchiericcio generale, sul web iniziano ad apparire le prime voci ed ipotesi sul futuro della chiesa, ipotesi sostenute dalla recente nomina di 22 cardinali, di cui 21 elettori (con meno di 80 anni) , e si discute della direzione che verrà presa dalla chiesa nel prossimo pontificato. La chiesa di domani sarà una chiesa progressista e innovatrice, in continuità con Francesco e Benedetto XVI o sarà una chiesa più conservatrice e tradizionalista? Ci saranno nuove e maggiori aperture, o si andrà verso un nuovo oscurantismo generale?
Figure chiave nell’interpretazione delle due principali correnti politiche attualmente note nella curia romana, sono i cardinali Pietro Parolin, Matteo Maria Zuppi e Gerhard Muller, i primi due progressisti, il terzo un conservatore “trumpiano”, ma non sono i soli e per quanto influenti nelle rispettive correnti, probabilmente non sono realmente “papabili”.
La curia vaticana
La curia vaticana, o romana, è un centro di potere politico di rilevanza globale, e sebbene il papa sia il monarca assoluto dello stato vaticano e della chiesa, non ha in realtà quasi nessun controllo su ciò che fanno i membri della curia, sulla carta il potere del papa è totale, ma, all’atto pratico, non ha il tempo materiale per assicurarsi che migliaia di funzionari vaticani, operino come “il papa comanda” e anzi, nella maggior parte dei casi, questi funzionari sono legati a specifici Cardinali che indicano allo stesso santo padre, possibili nuovi candidati.
La curia è quindi il vero centro di comando, politico, della chiesa cattolica, lì si formano i cardinali che in alcuni casi diventeranno papi, e nella maggior parte dei casi spingono coloro che diventeranno papi.
Prendendo in prestito un termine dal complottismo, il “deep state” del vaticano, è estremamente profondo, radicato, difficile da ripulire. Ciò nonostante, negli ultimi vent’anni circa, i papi Benedetto XVI e Francesco, hanno fatto un enorme lavoro di riorganizzazione della curia romana, rimodellandola affinché potesse emergere e affermarsi la corrente progressista di cui entrambi i papi sono stati esponenti e promotori, rendendo sempre più marginale, almeno in apparenza, la corrente conservatrice.
Ad oggi la curia romana sembra essere prevalentemente progressista, e la maggior parte dei 138 membri elettori del collegio cardinalizio sono stati nominati da papa Francesco e in misura minore da Benedetto XVI.
Configurazione del collegio cardinalizio
Per essere più precisi, sollo 4 cardinali elettori su 138 sono stati nominati da Giovanni Paolo II, per loro quattro quindi il prossimo potrebbe essere il terzo conclave, altri 22 sono stati nominati da Benedetto XVI, per loro quindi il prossimo sarebbe il secondo conclave. I rimanenti 112 sono stati nominati cardinali da papa Francesco, selezionati da una curia rinnovata dallo stesso Francesco e Benedetto XVI.
Non tutti i cardinali nominati da Francesco tuttavia, sono di corrente progressista “bergogliana”, e anzi, uno dei leader della corrente conservatrice della curia vaticana, Gerhard Muller, è stato uno dei primi 16 cardinali creati da Francesco. La sua nomina a cardinale risale al 22 febbraio 2014, in quella stessa data è stato creato cardinale anche Pietro Parolin, attualmente segretario di stato della santa sede, da molti considerato uno dei più stretti collaboratori ed esponenti della corrente bergogliana del “partito progressista” vaticano.
Le correnti politiche del vaticano
Basandoci sulle fonti aperte di cui disponiamo, e trattandosi della politica del vaticano sono davvero pochissime, per lo più dichiarazioni dei singoli cardinali e pochi dati biografici forniti dallo stesso vaticano attraverso un portale dedicato al Collegio Cardinalizio. Possiamo dire che al momento le correnti politiche note in vaticano sono almeno due. Quella progressista e quella conservatrice.
Per quanto riguarda la corrente progressista sappiamo che ci sono diversi attriti tra i progressisti, soprattutto su alcuni punti radicali come l’apertura della curia alle donne e la benedizione delle coppie omosessuali, dando di fatto vita a due correnti progressiste, una che potremmo definire “riformatrice bergogliana” ed una più “moderata“.
Oltre le due correnti progressiste sappiamo esistere almeno una corrente conservatrice, più tradizionalista, che vede in Gerhard Muller, il principale referente e, secondo le parole dello stesso Muller, i conservatori nella curia vaticana potrebbero essere molti di più di quello che sembrano, poiché molti temono Francesco e per questo sono più riservati, militando de facto tra i progressisti moderati.
Per quanto riguarda queste tre “correnti” se da un lato è facile individuare in Gerhard Muller il leader dei conservatori, più difficile è decifrare la leadership progressista, che vede Matteo Maria Zuppi e Pietro Parolin, dallo stesso lato della barricata, entrambi stretti collaboratori di Bergoglio ma con approcci differenti. Zuppi ha più volte espresso pareri a favore di aperture radicali e grandi stravolgimenti nella chiesa, ciò lo rende potenzialmente il punto di riferimento di un ipotetica corrente riformatrice, mentre Paoloni, anche in vista del proprio ruolo politico (è pur sempre il segretario di stato Vaticano) pur esprimendo pareri forti, come il netto no alle deportazioni di palestinesi dalla striscia di Gaza, posizione per la quale ha proprio usato il termine deportazioni, nel complesso risulta tra i più moderati della corrente progressista.
Una partita a tre
I dati che abbiamo sulla curia romana ci suggeriscono almeno uno scontro a tre, tra progressisti riformisti, moderati e conservatori, ma che tuttavia potrebbe essere molto più articolato di così, ed è molto probabile che nelle infinite sfumature tra una corrente e l’altra, si celino quei tasselli mancanti all’opinione pubblica e il mondo esterno, che potrebbero rivelarsi determinanti per far confluire più correnti su uno stesso nome.
È il classico gioco politico del compromesso, dove le varie correnti scendono a patti tra loro, facendosi concessioni reciproche, affinché il prossimo papa possa andare bene più o meno a tutti, e se non va bene, che almeno non vada di traverso.
Ne consegue che in maniera quasi scontata, nello scontro politico che avrà luogo nelle sale chiuse della Cappella Sistina, al fine di ottenere una maggioranza qualificata di due terzi del collegio elettorale (almeno nei primi 33 scrutini, poi sarà sufficiente una maggioranza semplice) per l’elezione del prossimo papa, i nomi con posizioni più radicali verranno quasi certamente esclusi esclusi dai giochi. Anche se in realtà, non è detto e tali nomi potrebbero essere “esclusi” nelle prime fasi, a maggioranza qualificata, e riapparire nella seconda fase in cui per la vittoria è sufficiente la maggioranza semplice.
Ad oggi non sappiamo con certezza quanti progressisti e conservatori e che tipo di progressisti e conservatori ci sono, secondo Muller i conservatori, che la pensano come lui, ed hanno posizioni molto radicali e tradizionaliste, sono molti di più di quanto si pensi e potrebbero esserci significative infiltrazioni conservatrici anche tra i progressisti e i bergogliani.
I papabili secondo la stampa
Secondo la maggior parte dei media, i cardinali papabili al prossimo conclave, se mai dovesse esserci un conclave con questi cardinali elettori, sostanzialmente un conclave nei prossimi due anni, divisi tra progressiti, moderati e conservatori, sono:
Partiamo dai progressisti, il nome più “probabile” sembra essere quello di Matteo Maria Zuppi, seguito da José Tolentino de Mendonça e Robert Francis Prevost.
Matteo Maria Zuppi (69 anni), creato cardinale il 5 ottobre 2019 da Papa Francesco. Monsignor Zuppi nasce a Roma l’11 ottobre 1955 ed è ordinato sacerdote nel 1981. Nella sua carriera ha ricoperto vari ruoli, tra cui quello di ausiliare di Roma e arcivescovo di Bologna e dal 2022 è presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Zuppi è una figura di spicco della corrente progressista, ha spesso espresso posizioni a sostegno del dialogo interreligioso e l’impegno per la pace, come dimostrato dalla sua missione in Ucraina per il rientro dei minori ucraini. È visto come un sostenitore della chiesa sinodale e dell’inclusività ed ha suscitato non poche critiche tra i conservatori quando si è espresso a favore della benedizione di coppie omosessuali e l’apertura della curia vaticana alle donne.
José Tolentino de Mendonça (58 anni), creato cardinale il 5 ottobre 2019 da Papa Francesco. Originario del Portogallo, ha ricoperto l’incarico di Archivista e Bibliotecario della Santa Romana Chiesa. Anche lui progressista di spicco e scrittore prolifico, De Mendonça ha più volte sottolineato l’importanza di un approccio aperto e inclusivo nei confronti delle questioni sociali e spirituali. È promotore di un cattolicesimo che ponga al centro la fede e vada oltre le diversità.
Robert Francis Prevost (68 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco. È stato vescovo di Chiclayo in Perù prima di diventare Prefetto del Dicastero per i Vescovi. Le sue posizioni politiche sono apertamente ed espressamente in favore di riforme sociali e pastorali nella Chiesa.
Per quanto riguarda i moderati, il nome più probabile sembra essere quello di Pietro Parolin, seguito da Luis Antonio Gokim Tagle e Claudio Gugerotti
Pietro Parolin (69 anni), creato cardinale il 22 febbraio 2014 da Papa Francesco. Attualmente è il Segretario di Stato della Santa Sede, ed ha alle spalle una lunga carriera diplomatica e politica all’interno della Chiesa. Diplomatico e moderato d’eccellenza, Parolin è considerato uno degli uomini di fiducia di papa Francesco, che ha sempre cercato di mantenere un equilibrio tra le diverse correnti all’interno della chiesa, promuovendo il dialogo soprattutto su temi e questioni globali.
Luis Antonio Gokim Tagle (67 anni), creato cardinale il 24 novembre 2012 da Papa Benedetto XVI, è uno degli ultimi Cardinali creati dal predecessore di Francesco, nonché uno dei 26 cardinali elettori ad aver già preso parte ad un Conclave. Da molti è considerato uno degli uomini di fiducia di Benedetto XVI e potrebbe aver avuto un ruolo chiave nell’elezione di Francesco. Pur essendo moderato, è aperto a posizioni progressiste su temi come l’immigrazione e la giustizia sociale, ciò lo rende un candidato ideale sia per riformisti che moderati.
Claudio Gugerotti (68 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco, è attualmente Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, ha una vasta esperienza diplomatica, interreligiosa, interculturale, e soprattutto politica.
Per quanto riguarda i conservatori, Gerhard Muller, figura di spicco della corrente conservatrice in realtà non sembra essere uno dei papabili, tuttavia, ci sono diversi cardinali, a lui molto vicini le cui posizioni più moderate potrebbero rivelare qualche sorpresa. Tra di loro Angelo Fernandez Artime, Roberto Repole e Domenico Battaglia
Angelo Fernandez Artime (63 anni), creato cardinale il 30 settembre 2023 da Papa Francesco è Rettor Maggiore dei Salesiani ed ha alle spalle una lunga carriera nell’educazione cattolica. Sebbene sia visto come conservatore per il proprio impegno nella formazione tradizionale dei giovani, è da molti considerato il più moderato dei conservatori, e potrebbe essere scelto grazie al sostengo di parte dei moderati e dei conservatori.
Roberto Repole (59 anni), creato cardinale il 7 dicembre 2024 da Papa Francesco, è uno degli ultimi cardinali creati da Papa Francesco (almeno al 19 febbraio 2025), nonché uno dei più giovani tra i papabili. Anche lui è un ibrido Conservatore Moderato, è infatti considerato conservatore su questioni dottrinali, ma aperto al dialogo su questioni sociali. Per molti potrebbe essere uno dei “conservatori” di cui parlava Muller.
Domenico Battaglia (60 anni), creato cardinale il 7 dicembre 2024 da Papa Francesco, anche lui è tra gli ultimi cardinali nominati da Francesco. Arcivescovo di Napoli, noto per il suo impegno nelle periferie sociali, con posizioni non completamente decifrate, anche lui su diversi temi dottrinali risulta un conservatore, tuttavia, l’attenzione e l’impegno molto innovativo sulle problematiche sociali, fanno di lui un soggetto controverso. Non è chiaro se sia un conservatore infiltrato tra i moderati o un moderato infiltrato tra i conservatori.
C’è in fine il grande outsider, che in realtà, non sembra essere accreditato tra i papabili, ovvero Gerhard Muller, cardinale conservatore radicale considerato da molti il leader del partito “trumpista del vaticano” per le proprie posizioni politiche e sociali. Muller ad oggi non sembra godere di grandi consensi tra gli altri cardinali, ma a suo dire, i conservatori che la pensano come lui sono molti di più di quanto non sembri. Fuori dal vaticano Muller piace alle destre radicali e soprattutto piace a Trump.
Chi sarà il prossimo papa?
Con l’attuale composizione del Collegio Cardinalizio, e i suoi 138 cardinali elettori, per eleggere il prossimo Papa saranno necessari almeno 96 voti, 19 in più di quelli che furono necessari per eleggere papa Francesco. Sarà quindi una partita molto serrata, che con molte probabilità eleverà al soglio pontificio un progressista moderato o un moderato progressista.
Se da un lato non sappiamo dire con esattezza quale corrente trionferà, possiamo dire con una certa sicurezza che difficilmente verrà eletto un conservatore radicale, poiché gli ultimi 2 pontificati, durati complessivamente un ventennio, hanno visto una chiesa in continua trasformazione e apertura, una chiesa che in quell’apertura ha visto una maggiore crescita. Nel mondo cristiano papa Francesco è generalmente molto più apprezzato rispetto a Benedetto XVI che nel proprio pontificato, pur portando avanti politiche di apertura e rinnovamento della chiesa, ricordiamo che Benedetto XVI è stato il primo papa su Twitter, ha continuato a mostrare un immagine conservatrice di se e della chiesa. Almeno nella dottrina e nell’estetica.
In un momento storico come questo, in cui il mondo sta vivendo sempre più divisioni e conflitti, la chiesa non può mostrarsi impreparata, e non può diventare un ulteriore strumento di divisione, e questo i membri della curia ed i cardinali lo sanno perfettamente. La Chiesa, più che i suoi fedeli, in questo momento, ha bisogno di una guida che ponga l’accento sulla fede, sull’inclusione, sull’attenzione ai deboli, sull’assistenza, sulla cura e sulla pace. Una pace che non può essere una resa alla prepotenza e trionfo della violenza, ma una pace che sia forte e d’esempio. Ritengo quindi che molto probabilmente il prossimo papa sarà una persona di fiducia di Francesco, che erediterà la volontà dei suoi due predecessori e continuerà il percorso di rinnovamento della chiesa cattolica.
Immersa nel cuore di Roma e separata dai sette colli di Roma dal Tevere, sorge Città del Vaticano, un’anomalia politica, culturale e filosofica unica al mondo. Il Vaticano è infatti l’unica monarchia assoluta elettiva al mondo, il cui capo dello stato, un sovrano assoluto, è eletto in una cerimonia segreta e ricca di mistero, che risale al XIII secolo, ovvero il Conclave.
Il Conclave è un momento decisivo non solo per le sorti del Vaticano, ma anche per la cristianità, esso infatti elegge il capo della chiesa cristiana, che è anche il monarca assoluto a capo dello stato Vaticano. Tale figura, se epurata del suo significato spirituale, può essere visto come una sorta “re-filosofo” platonico, che incarna l’ideale classico di un governante illuminato che guida non solo con il potere, ma soprattutto con saggezza, virtù e visione etica, che nel caso del Papa è una visione “cristiana”.
Secondo il filosofo greco, il migliore dei governanti è colui che possiede una profonda conoscenza della verità e del bene, ed è capace di orientare la società verso il bene comune.
In questa chiave di lettura, nella figura odierna del Papa, coesistono due istituzioni, la prima è il capo politico di uno stato di modestissime dimensioni, appena 44 ettari, la seconda, in quanto capo di una confessione religiosa tra le più diffuse al mondo, esercita un’influenza globale sull’intero mondo cattolico, e una parte significativa del più ampio mondo cristiano. Nel complesso, come anticipato, si configura come una sorta di “filosofo-re” che, almeno su carta, non governa per ambizione personale, ma per servizio del bene comune, impegnandosi a promuovere valori universali come giustizia, pace e solidarietà (ovviamente con un interpretazione cattolica).
L’elezione del Papa
L’elezione del Papa avviene attraverso una cerimonia elettiva a porte chiuse nota come Conclave, ad oggi regolato dalla Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1996.
Secondo il Codice di Diritto Canonico, il conclave può essere convocato dopo un periodo di Sede Vacante, al seguito della morte o delle dimissioni del pontefice precedente, non prima di 15 e i 20 giorni successivi all’inizio della vacanza papale. Questo arco temporale è fondamentale per consentire ai cardinali elettori, di raggiungere Roma e partecipare alle Congregazioni Generali. Si tratta di incontri preliminari di carattere politico, volti a discutere lo stato della Chiesa e prepararsi spiritualmente al voto.
I cardinali elettori sono membri del Collegio Cardinalizio, l’organo elettivo del Vaticano, e si compone di tutti i cardinali che, alla data di inizio della sede vacante, avevano meno di 80 anni. Questa soglia anagrafica è stata introdotta nel 1970 da papa Paolo VI con la Costituzione Apostolica Ingravescentem Aetatem. È importante precisare che I cardinali ultraottantenni, pur non potendo partecipare al voto, possono prendere parte alle cerimonie liturgiche e alle Congregazioni Generali, fungendo da consulenti informali.
Durante il Conclave, tutti i partecipanti sono tenuti a osservare il giuramento di segretezza, pena sanzioni canoniche severe in caso di violazione.
La segretezza è un elemento fondamentale per l’elezione del papa, per questo motivo, le votazioni si svolgono presso la Cappella Sistina e prima dell’inizio del Conclave, la cappella viene sottoposta a rigorosi controlli tecnici e bonifica da dispositivi elettronici o sistemi di comunicazione. Lo stesso per gli ambienti residenziali dove alloggeranno i cardinali durante il periodo elettorale, la Domus Sanctae Marthae, e gli stessi cardinali. Non è infatti consentito utilizzare o disporre di qualsivoglia dispositivo di comunicazione con l’esterno. In altri termini i cardinali sono completamente isolati dal mondo esterno.
La votazione segue un protocollo rigoroso: ogni cardinale scrive il nome del candidato prescelto su una scheda anonima, utilizzando la formula latina “Eligo in Summum Pontificem” (“Eleggo come Sommo Pontefice”). Le schede vengono quindi piegate e inserite in un’urna d’argento. Per essere eletto, un candidato deve ottenere una maggioranza qualificata di due terzi nei primi scrutini. Se, dopo 33 votazioni infruttuose, nessun candidato raggiunge tale soglia, si procede a una votazione a maggioranza semplice tra i due candidati più votati.
Una volta eletto, il cardinale che ha assunto l’incarico di decano ha il compito di chiedere al cardinale eletto se accetta l’incarico e quale nome desidera assumere come pontefice. Se il cardinale accetta, questi viene fatto vestito con gli abiti papali e successivamente si procede con la comunicazione al mondo esterno.
Le schede “elettorali” vengono bruciate in una stufa collegata a un camino visibile dall’esterno. Se il voto non produce un vincitore, viene aggiunta una sostanza chimica che genera del fumo nero (fumata nera), se invece è stato eletto un papa, la fumata è bianca.
A questo punto, il cardinale protodiacono annuncia pubblicamente l’elezione dal balcone della Basilica di San Pietro, pronunciando la frase rituale: “Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!” (“Vi annuncio una grande gioia: abbiamo un Papa!”).
Questa cerimonia è mutata ed evoluta nel corso del tempo e, secondo la tradizione, ha origine da un evento molto particolare datato 1270.
Il primo Conclave
Il primo Conclave, inteso come elezione papale con i cardinali riuniti in clausura risale al 1198, mentre la formalizzazione ufficiale della procedura che prevede la messa sotto chiave dei cardinali durante l’elezione del pontefice, risale al 1274 con il Concilio di Lione e la Costituzione Apostolica Ubi Periculum di Papa Gregorio X, con cui si istituiva il “conclave” per impedire ritardi nelle elezioni e interferenze politiche esterne.
Siamo in anni in cui l’elezione del papa significa eleggere uno degli uomini più potenti d’Europa, il potere del papa non è solo spirituale, ma anche temporale, ma soprattutto, siamo nel vivo degli scontri tra papato ed impero. Eleggere il papa è una questione economica, politica e geopolitica, determinante per le sorti d’Europa, in pochi possono permettersi di sfidare il potere del papa e in molti vogliono assicurarsi l’amicizia del papa, spingendo quindi per l’elezione di un papa “di famiglia” o comunque “amico”.
In questo contesto, l’elezione di papa Gregorio X fu una delle più complesse della storia pontificia. Gregorio X viene incoronato papa il 1 settembre 1271, e succede alla morte di papa Clemente IV, avvenuta 19 mesi prima, il 29 novembre 1268. Per questa elezione i cardinali si erano riuniti a Viterbo, presso il palazzo papale, ma per interessi politici e influenze e interferenze esterne, non riuscivano a trovare un accordo. Fu così che, secondo la tradizione , la città di Viterbo in un certo senso insorse, mise letteralmente sotto chiave i cardinali, chiudendoli nel palazzo, li mise a pane e acqua, (soprattutto tolse loro il vino), e scoperchiò il tetto. La pressione cui furono sottoposti fu tale che, in pochi giorni riuscirono ad eleggere il nuovo pontefice.
Questo racconto ci è arrivato attraverso varie fonti, attribuisce l’iniziativa a diversi individui, ciò che è certo è che nel 1274, tre anni dopo la propria traumatica elezione, Gregorio X convocò il secondo concilio di Lione, e il 16 luglio 1274 venne promulgata la costituzione apostolica Ubi Periculum, con cui si introduce e istituisce il Conclave, dal latino “cum clave” che deriva appunto dalla locuzione “clausura cum clave“.
Quando si parla di Democrazia, generalmente si intende un sistema di governo fondato sull’uguaglianza delle opportunità e sulla partecipazione collettiva, tale interpretazione politica si contrappone nettamente ai regimi autarchici, nei quali invece, il potere è concentrato in poche mani o in una singola persona.
Tuttavia, non sempre la democrazia è interpretata in questo modo, e spesso anche in democrazia si rischia di virare verso posizioni autoritarie, superando e denigrando uno dei principi portanti della democrazia stessa, il “compromesso politico” in favore di sistemi maggioritari e più “forti”, basati sul principio che chi “chi ha la maggioranza decide”.
Ma la democrazia non funziona così, o meglio, per come è stata concepita e definita nel corso dei secoli, non dovrebbe, e anzi, per millenni la filosofia ci ha ampiamente messo in guardia dalle ombre che aleggiano e minacciano la democrazia, ombre che periodicamente, e seguendo un copione ben definito, hanno prevalso sulla democrazia, portando alla nascita di sistemi autoritari, sempre più pericolosi.
In questo articolo cercheremo di esplora il concetto di democrazia, le sue origini, le sue criticità, e di identificare le maggiori e più note e facilmente riconoscibili minacce alla democrazia di cui abbiamo conoscenza storica.
Etimologia e significato del termine “democrazia”
Cominciamo con l’etimologia della parola, poiché tutto parte da essa. Il termine “democrazia” deriva dal greco, più precisamente dalla composizione di due parole, demos (popolo) e kratos (potere), e la traduzione letterale dell’unione di queste due parole è “potere del popolo“, ne consegue che tale significato persista e definisca anche (e soprattutto) il termine che deriva dall’unione di queste due parole, ovvero Democrazia.
Democrazia però non è solo il potere del popolo, ma è anche il modo in cui e con cui, il popolo esercita tale potere, ed è usato generalmente per rappresentare diverse forme di governo caratterizzate da una serie di elementi comuni suggerendo l’idea che i governi “democratici” siano in sostanza espressione della volontà del popolo, della collettiva, e non di singoli individui o gruppi ristretti, come potrebbe invece essere in sistemi autocratici o oligarchici dove invece a governare sono rispettivamente un solo individuo o un gruppo elitario.
Se l’idea tali governi siano espressione della volontà colletta, è un qualcosa di solido e persistente nelle varie declinazioni di democrazia, la misura e la dimensione di quella volontà è un qualcosa di più volatie e mutevole, che in sistemi democratici differenti, può assumere forme differenti. Si pensi alle democrazie dirette, alle democrazie presidenziali, alle democrazie parlamentari, ecc.
In queste varie declinazioni, ognuna delle quali interpreta in maniera differente la volontà della collettività, si celano alcune insidie della democrazia, che espongono le varie forme di democrazie a contaminazioni più o meno pericolose. La maggior parte di queste minacce sono sintetizzabili nel rischio che la democrazia possa in qualche modo confluire in sistemi autoritari, in cui si possa prediligere una parte della collettività a scapito della sua interezza, e solo una parte del popolo, della collettività, degli elettori, la “maggioranza”, risulta essere fonte e di legittimazione del potere, con l’effetto di una forte polarizzazione politica, che rende impossibile o quasi, ogni forma di compromesso e confronto politico.
Questa distorsione della democrazia, si radica nell’idea distorta per cui ci sia una parte che ha il compito di governare, e una parte, che deve rimanere in panchina. Come vedremo nella prossima sezione, questa visione non ha nulla a che vedere con la democrazia, e anzi, rappresenta la sua morte.
La filosofia della democrazia
Fin ora abbiamo ragionato sull’etimologia della parola democrazia, visto le sue possibili declinazioni e accennato in via puramente teorica alle sue insidie. Da qui in avanti ripercorreremo la storia filosofica della democrazia, dall’antichità greca ad oggi, nel tentativo di capire che cos’è la democrazia oggi.
Tra i primi filosofi che si sono occupati del concetto di Democrazia, incontriamo, come già successo per il concetto di politica, Platone, e la sua La Repubblica, opera in cui il filosofo greco, narrando un dialogo con il proprio maestro Socrate, si ritrova ad esprimere le proprie idee di governo ideale, e nel fare ciò, dedicherà importanti sezioni dell’opera alla critica dei governi noti, tra cui anche la democrazia ateniese, una forma di governo che per Platone è incline al disordine e alla tirannide. Come vedremo, le critiche che il filosofo greco muove alla democrazia hanno un sapore quasi profetico e ci mostrano con qualche millennio di anticipo e straordinaria lucidità, le problematiche che nel mondo contemporaneo abbiamo riscontrato in modo diversi, in diversi sistemi politici, tra cui l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti d’America.
Per Platone la democrazia diretta ateniese è una sorta di regime in cui il popolo detiene il potere senza alcuna qualificazione o competenza specifica per governare, e alla base di questa democrazia diretta vi è un principio di uguaglianza formale che non tiene conto delle differenze qualitative tra gli individui. senza troppi giri di parole, per Platone non tutti hanno la capacità non solo di governare, ma anche di scegliere i governanti, di conseguenza, in un sistema in cui tutti i cittadini hanno lo stesso diritto di partecipare alla vita politica, indipendentemente dalle proprie capacità o virtù, si inibisce la capacità e la possibilità di un buon governo e si favorisce l’ascesa di demagoghi, ovvero di leader populisti in grado di manipolare le passioni, le paure e le opinioni della massa, al fine di ottenere maggiori consensi. Questo fenomeno, conduce inevitabilmente alla tirannide, poiché i demagoghi una volta al potere tendono a consolidare il loro controllo eliminando ogni forma di opposizione.
Altra enorme criticità delle democrazie dirette, secondo Platone, sta nella loro instabilità, poiché esse lasciano ampio all’anarchia delle opinioni e dei desideri individuali, elementi di disturbo che tendono a prevalere sul bene comune. In altri termini, per Platone la democrazia è un regime in cui “ognuno fa ciò che vuole“, dando luogo a una società frammentata e priva di coesione, che tenderà a scegliere come guida chi gli permette di fare ciò che vuole, e allontanerà chi invece punterà al bene comune.
A tale proposito il brano “La sete di libertà” del libro quarto della repubblica, offre un immagine estremamente vivida e profetica.
“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano a sazietà, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati despoti. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della libertà, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”
Esempi storici di questo tipo, che avverano la profezia di Platone, ne potremmo fare all’infinito, da Cesare ed Augusto, passando per Napoleone ed i dittatori del novecento, fino arrivare ai grandi populisti contemporanei, la storia dell’umanità ha visto l’ascesa di innumerevoli “coppieri“.
Lasciandoci Platone alle e avanzando di una generazione anche Aristotele, maestro di Alessandro Magno e allievo di Platone, si occuperà di definire il concetto di democrazia e le forme di governo democratico. Aristotele ne parla nel libro Politica, dove descrive la democrazia come una forma di governo mista, capace di integrare elementi di monarchia, aristocrazia e politica e come il proprio maestro, anche Aristotele non è esente dal sottolineare alcune criticità e insidie della democrazia, mettendo in guardia soprattutto dal rischio di oclocrazia, ovvero il dominio della folla irrazionale e priva di virtù.
L’etimologia di questo termine è simile a quella di democrazia, il suffisso cratos è lo stesso, ma cambia la radice, da demos (popolo) a oclos (folla), ed indica appunto un regime in cui le decisioni sono prese in modo impulsivo e passionale, senza alcun riguardo per la legge o il bene comune, da quella che sostanzialmente considera una folla irrazionale.
Aristotele critica aspramente questa forma di governo, poiché ritiene che essa sia particolarmente priva di moderazione e di equilibrio tra le classi sociali, elementi che ritiene fondamentali affinché si possa esercitare il potere in maniera giusta.
Per Aristotele quindi, l’oclocrazia è quindi una distorsione della democrazia che e si manifesta quando i cittadini meno virtuosi prendono il sopravvento e corrompono la democrazia, quasi ne abusano.
Tornando ad Aristotele, il filosofo greco ritiene che la deriva della democrazia in oclocrazia possa essere evitato attraverso la politeia (politica), attraverso l’attuazione di forme di governo miste che combina elementi democratici e oligarchici, garantendo così una maggiore stabilità e giustizia sociale. È quasi come se ci stesse dicendo che l’oclocrazia nasce dall’eccesso di democrazia e di libertà, visione ereditata dal proprio maestro.
La storia, soprattutto recente, è ricca di esempi di democrazie evolute in oclocrazie, alcune delle quali hanno permesso l’ascesa di vere e proprie dittature, non solo in Europa e non solo nel novecento.
Tornando al concetto di democrazia, ha accompagnato la nostra storia solo per brevi tratti e nella maggior parte dei casi, l’umanità ha preferito altre forme di governo. Se l’Europa classica ha conosciuto varie forme di democrazia, in particolare quella di alcune polis greche e la repubblica romana, a partire dal primo secolo a.c., in particolare da Cesare in avanti, le democrazie classiche sono sparite, lasciando il passo a nuove forme di governo, come l’Impero e le monarchie, tutt’altro che democratiche.
Eccezion fatta per la breve esperienza dei comuni dell’Italia medioevale, la democrazia è tornata ad affacciarsi sull’Europa solo di recente. Più precisamente torna a far parte del dibattito politico e filosofico a partire dal XVII secolo, soprattutto con autori come John Locke e Jean-Jacques Rousseau, che nei propri scritti hanno ridefinito il concetto di democrazia, gettando le basi per le democrazie moderne, che all’atto pratico sono un esperienza politica totalmente nuova e profondamente diversa dalle democrazie “classiche”.
Le democrazie moderne pongono l’accento sul ruolo dei diritti individuali e della volontà generale, con alcune differenze tra i vari filosofi che si sono susseguiti nel tempo. Per Locke ad esempio, l’esercizio del potere doveva basarsi sul consenso dei governati, mentre per Rousseau, la democrazia diretta rappresentava l’unica forma legittima di governo, poiché solo in questo modo era possibile avere un espressione autentica della volontà collettiva. Di tutt’altro avviso invece è Hobbes che critica la democrazia ritenendola instabile e preferendo un sovrano assoluto per garantire ordine e sicurezza.
Kant vede la democrazia come una repubblica razionale e giuridica, ponendo tutta l’attenzione sul diritto e le regole, poiché solo il diritto, metodico e rigoroso è in grado di produrre un sistema politico che possa garantire pace e libertà. E se per Kant, alla base della democrazia c’è il diritto, per Marx, la democrazia è altro, non è infatti solo una forma di governo, ma una “fonte di governo” che sposta la costruzione istituzionale dal basso, immaginando una società autogestita. C’è quindi una sorta di ritorno alla democrazia diretta.
Come per Platone e Aristotele anche gli altri autori, citati e non, che si sono occupati del concetto di democrazia, ne hanno intravisto possibili criticità, rendendo evidente un principio, la democrazia non è perfetta perché riguarda gli esseri umani, e il rischio più comune, evidenziato in tutte le declinazioni della democrazia, vede la maggioranza assumere posizioni autoritarie, per imporre decisioni.
Compromesso politico vs. dittatura della maggioranza
In sostanza, la democrazia è una questione da gentiluomini, richiede un certo rispetto reciproco, l’ammissione e il riconoscimento reciproco dei propri limiti e il ricorso al compromesso politico, inteso come la capacità di mediare tra interessi diversi per raggiungere soluzioni condivise. In teoria, nei sistemi democratici, il compromesso è essenziale per garantire stabilità e inclusività ed evitare che le decisioni siano dettate unilateralmente dalla parte vincente. Qualunque essa sia. Poiché, in caso contrario, avremmo a che fare con una tirannia, una dittatura della maggioranza.
Tale principio fondante, non è tuttavia implicito e spesso viene oscurato dal principio deviante e deviato per cui “chi vince decide“, e in quei casi si rischia di trasformare la democrazia in una vera e propria “dittatura della maggioranza“, un sistema politico in cui, a seconda della maggioranza, le minoranze vengono marginalizzate e i loro diritti e le loro istanze quasi del tutto ignorate. Tale dinamica si contrappone in maniera netta e radicale ai principi fondanti della democrazia, e riflette in vero quel rischio da cui giuristi e filosofi ci hanno messo in guardia per secoli.
La dittatura della maggioranza non è solo un sintomo della tirannia e dell’oclocrazia, ma è anche causa ed effetto di alti fenomeni, tra cui, la polarizzazione politica, che rendono estremamente difficile, se non del tutto impossibile, il dialogo tra schieramenti diversi e contrapposti, alimentando tensioni sociali.
Ma la natura pluralistica degli schieramenti politici non dovrebbe essere fonte di divisione, ma un punto cardine per la ricerca di un compromesso che però, in alcuni casi viene visto come una rinuncia ai propri valori e principi, un “inciucio” che non fa bene alla propria parte, poiché non fa l’interesse esclusivo della propria parte, puntando invece agli interessi comuni di tutte le parti. E così, il bene comune, che per Aristotele era il punto d’arrivo della politica, diventa il suo principale ostacolo. Qualcosa da scardinare e superare.
Nei sistemi autarchici tuttavia, il compromesso politico è praticamente assente, il potere è centralizzato e le decisioni sono imposte dall’alto senza alcuna reale consultazione pubblica. Questo perché fondamentalmente non serve, perché il governante è stato eletto dal popolo e in quel momento il popolo ha esercitato ed esaurito il proprio potere, può quindi tornare ad essere spettatore fino alle prossime elezioni, se mai ci saranno prossime elezioni.
In questi contesti, o nei contesti che tendono in questa direzione, il concetto stesso di compromesso diventa irrilevante, poiché non esiste un reale spazio comune per il confronto tra diverse visioni del mondo. El più esiste un luogo in cui le forze politiche possono accusarsi a vicenda, in quelle che risultano essere sterili e inutili dibattitti polarizzati. Ma che dovrebbero invece essere luoghi di confronto finalizzati al compromesso.
Se hai letto e apprezzato l’articolo e vuoi supportare il nostro progetto di divulgazione, ti invito a condividere l’articolo e seguirci sui nostri social. Per te non cambia nulla, ma per noi ogni singolo follower e condivisione può fare la differenza.
Usiamo i cookie per ottimizzare la tua navigazione. Se sei d'accordo, continua. Altrimenti, puoi scegliere di non accettarli.AcceptRead More
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
In ottemperanza degli obblighi derivanti dalla normativa nazionale (D. Lgs 30 giugno 2003 n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali, e successive modifiche) e europea (Regolamento europeo per la protezione dei dati personali n. 679/2016, GDPR), il presente sito rispetta e tutela la riservatezza dei visitatori e degli utenti, ponendo in essere ogni sforzo possibile e proporzionato per non ledere i diritti degli utenti.
Il presente sito non pubblica annunci pubblicitari, non usa dati a fini di invio di pubblicità, però fa uso di servizi di terze parti al fine di migliorare l'utilizzo del sito, terze parti che potrebbero raccogliere dati degli utenti e poi usarli per inviare annunci pubblicitari personalizzati su altri siti. Tuttavia il presente sito pone in essere ogni sforzo possibile per tutelare la privacy degli utenti e minimizzare la raccolta dei dati personali. Ad esempio, il sito usa in alcuni casi video di YouTube, i quali sono impostati in modo da non inviare cookie (e quindi non raccogliere dati) fino a quando l'utente non avvia il video. Potete osservare, infatti, che al posto del video c'è solo un segnaposto (placeholder). Il sito usa anche plugin sociali per semplificare la condivisione degli articoli sui social network. Tali plugin sono configurati in modo che inviino cookie (e quindi eventualmente raccolgano dati) solo dopo che l'utente ha cliccato sul plugin.
Cookie
Se lasci un commento sul nostro sito, puoi scegliere di salvare il tuo nome, indirizzo email e sito web nei cookie. Sono usati per la tua comodità in modo che tu non debba inserire nuovamente i tuoi dati quando lasci un altro commento. Questi cookie dureranno per un anno.
Se visiti la pagina di login, verrà impostato un cookie temporaneo per determinare se il tuo browser accetta i cookie. Questo cookie non contiene dati personali e viene eliminato quando chiudi il browser.
Quando effettui l'accesso, verranno impostati diversi cookie per salvare le tue informazioni di accesso e le tue opzioni di visualizzazione dello schermo. I cookie di accesso durano due giorni mentre i cookie per le opzioni dello schermo durano un anno. Se selezioni "Ricordami", il tuo accesso persisterà per due settimane. Se esci dal tuo account, i cookie di accesso verranno rimossi.
Se modifichi o pubblichi un articolo, un cookie aggiuntivo verrà salvato nel tuo browser. Questo cookie non include dati personali, ma indica semplicemente l'ID dell'articolo appena modificato. Scade dopo 1 giorno.
Contenuto incorporato da altri siti web
Gli articoli su questo sito possono includere contenuti incorporati (ad esempio video, immagini, articoli, ecc.). I contenuti incorporati da altri siti web si comportano esattamente allo stesso modo come se il visitatore avesse visitato l'altro sito web.
Questi siti web possono raccogliere dati su di te, usare cookie, integrare ulteriori tracciamenti di terze parti e monitorare l'interazione con essi, incluso il tracciamento della tua interazione con il contenuto incorporato se hai un account e sei connesso a quei siti web.
Per quanto tempo conserviamo i tuoi dati
Se lasci un commento, il commento e i relativi metadati vengono conservati a tempo indeterminato. È così che possiamo riconoscere e approvare automaticamente eventuali commenti successivi invece di tenerli in una coda di moderazione.
Per gli utenti che si registrano sul nostro sito web (se presenti), memorizziamo anche le informazioni personali che forniscono nel loro profilo utente. Tutti gli utenti possono vedere, modificare o eliminare le loro informazioni personali in qualsiasi momento (eccetto il loro nome utente che non possono cambiare). Gli amministratori del sito web possono anche vedere e modificare queste informazioni.
Quali diritti hai sui tuoi dati
Se hai un account su questo sito, o hai lasciato commenti, puoi richiedere di ricevere un file esportato dal sito con i dati personali che abbiamo su di te, compresi i dati che ci hai fornito. Puoi anche richiedere che cancelliamo tutti i dati personali che ti riguardano. Questo non include i dati che siamo obbligati a conservare per scopi amministrativi, legali o di sicurezza.
Dove i tuoi dati sono inviati
I commenti dei visitatori possono essere controllati attraverso un servizio di rilevamento automatico dello spam.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.