La seconda Weimar Italiana – Storia Leggera

Nostra signora dell’ipocrisia di Francesco Guccini è una canzone che pesa come un macigno, soprattutto in questo periodo, è una canzone vecchia di un quarto di secolo ma sembra scritta l’altro ieri, non so se per via dell’ambientazione pasquale o per il fortissimo parallelismo tra la politica italiana odierna e quella dei primi anni novanta e diventa un brano agghiacciante, quasi un campanello d’allarme se si considera il preesistente parallelismo tra la politica italiana dei primi anni novanta e la politica tedesca della repubblica di Weimar.

Forse pubblicare il primo articolo di una nuova rubrica il lunedì di pasquetta non è stata la mia idea migliore, ma alle conseguenze di questa sconsiderata scelta penserò in un altro momento, per ora, voglio approfittare della particolarità di questa giornata, dell’atmosfera pasquale che permea l’aria, per iniziare col botto, per iniziare con una canzone che è un colpo di cannone sparato nello, sparato nell’addome quasi come se fossimo degli artisti circensi, ma l’addome che questa palla di cannone va a colpire non è un addome forte è tonico, quasi scultoreo, è invece un addome rigonfio dalla quantità abnorme di cibo consumato nel pranzo di pasqua e che indomito non teme i fiumi di vino e le montagne di carne che come in un rito di passaggio si appresta a consumare in questa giornata di festa, preludio al quasi religioso digiuno serale, un digiuno che quasi come da tradizione è avvolto da uno strano silenzio occasionalmente interrotto dal lento e inesorabile grugnito di qualcuno che forse ha mangiato e bevuto troppo.

Le immagini proposte da nostra signora dell’ipocrisie, queste immagini pittoresche e al limite del grottesco, fortemente contrastanti tra loro, ad un primo sguardo possono far sorridere o impallidire, soprattutto se non si va a rompere l’illusoria bolla che le avvolge e nasconde ogni cosa. Ma se la bolla esplode, se la maschera di un ormai lontano carnevale viene sollevata, allora possiamo riuscire ad intravedere la realtà, possiamo dare uno sguardo al vero volto di questa canzone, del mondo e del tempo che va a raccontare. Ciò che vediamo sollevando la maschera è una matassa caotica e indistricabile, metafora del temibile caos politico che nei primi anni novanta, come un boa constrictor stava schiacciando l’Italia tra le sue spire letali e riportava nell’aria lo spettro di un altro mondo e di un altro tempo, riportando nell’aria i pensieri, le angosce, le ansie e le paure di un passato oscuro e dimenticato forse troppo in fretta. Tra le spire del serpente lo spettro di Weimar cavalcava sull’Italia.

All’inizio degli anni novanta, l’Italia e più in generale l’intera umanità, stava entrando in una nuova epoca globale che succedeva ad un lungo conflitto psicologico, una guerra combattuta indirettamente e che per oltre quarant’anni aveva contrapposto due mondi, due modi di vivere e di pensare, delineando un preciso ordine internazionale in cui i confini tra l’uno e l’altro mondo erano netti e ben visibili, in alcuni casi, come a Berlino erano materiali, tangibili, erano veri e propri muri invalicabili. Ma la fine della guerra fredda aveva cambiato ogni cosa, aveva abbattuto quei muri e il mondo intero doveva affrettarsi a riorganizzarsi per trovare e definire un nuovo ordine internazionale che potesse sostituire il precedente. Per queste ed innumerevoli altre ragioni, tantissimi altri storici dell’epoca indicato il 1991 come un punto di rottura tra due diverse epoche storiche, Eric Hobsbawm in particolare contribuì forse più di tutti a creare l’immagine di un secolo breve che iniziava con la prima guerra mondiale e terminava con la dissoluzione dell’unione sovietica, e ciò che c’era dopo, era soltanto un futuro misterioso e incerto. Un futuro che ad un primo e superficiale sguardo mostrava la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica come il punto di partenza di un mondo libero da guerre e conflitti, qualcuno addirittura osava ipotizzare la fine della storia e della geografia mentre sognava la nascita di un governo mondiale, qualcun altro, forse più realista, forse con i piedi troppo saldi in una storia umana fatta di incontri e scontri di civiltà, prestava più attenzione ai nuovi e più delicati equilibri internazionali che si stavano formando, osservando che quel positivismo epocale sarebbe presto sfumato lasciandosi alle spalle molti delusi a causa della natura precaria ed incerta di quegli stessi equilibri.

L’Italia di quegli anni, l’Italia dei primi anni novanta, non è ovviamente estranea a questi cambiamenti epocali, soprattutto perché per ragioni geografiche e politiche aveva giocato un ruolo quasi centrale nelle dinamiche della guerra fredda e tra i tanti, era forse il paese che più di chiunque altro era riuscito a trarre un vantaggio reale e dalla rivalità che contrapponeva USA ed URSS. L’economia italiana per oltre 40 anni era si aveva approfittato, in larghissima misura, delle dinamiche dalla guerra fredda e la sua fine comportava la perdita di enormi introiti economici e finanziari per il paese. Introiti e finanziamenti non sempre totalmente cristallini o leciti, ma la cui presenza aveva giocato un ruolo certamente importante nel definire l’assetto economico del paese.
Va da se che la situazione del bel paese all’indomani dello scioglimento dell’Unione Sovietica è molto cupa ed incerta inoltre i forti scossoni che la politica interna aveva subito negli ultimi anni, tra stragi di mafia e scandali legati al finanziamento illecito dei partiti, si erano abbattuti sulla vecchia politica italiana come una tempesta e la vecchia classe dirigente del paese si era ritrovava in una posizione non ottimale, l’atmosfera politica dell’Italia era confusa, era cupa e le folle chiedevano un rinnovamento della stessa classe, così, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, tra le elezioni del 1992 e quelle del 1994 l’Italia visse una lunga quaresima, fatta di digiuni, confessioni, esili volontari, stelle cadenti e nuove stelle nascenti che in quegli anni costruirono la propria carriera politica in maniera minacciosa, puntando il dito ed attribuendo alla vecchia politica la responsabilità di qualsiasi cosa, guerra puniche comprese. Così, quando furono chiamati a scegliere tra Gesù e Barabba, chi per un motivo, chi per un altro, gli italiani scelsero Barabba.

In questo biblico caos istituzionale qualche artigiano di notizie riusciva ad intravedere i tasselli di un drammatico passato che non apparteneva al nostro paese, ma che presentava numerose assonanze alla realtà politica che si stava vivendo in quegli anni. Il caos e l’instabilità politica dell’Italia nei primi anni novanta ricordava forse troppo sfacciatamente il caos e l’instabilità politica vissute dalla Germania all’indomani della prima guerra mondiale, nel periodo compreso tra il 1919 ed il 1933 e col senno di poi, qualcuno sbarrava gli occhi scorgendo, temendo e ricordando il drammatico epilogo della repubblica di Weimar.

Tra il 1992 ed il 1994, nasceva una versione tutta italiana della repubblica di Weimar e questa esperienza avrebbe traghettato il paese per un quarto di secolo, verso una nuova e analoga situazione di caos istituzionale e politico, in cui la “nuova classe dirigente” del 1994 era diventata l’immagine della vecchia politica, i vecchi nuovi astri nascenti erano le nuove stelle cadenti e nuove stelle nascenti iniziavano a costruire la propria carriera politica, in maniera minacciosa e puntando il dito attribuendo alla vecchia politica la responsabilità di qualsiasi cosa, guerra puniche comprese, facendo proprio il vecchio slogan per cui il responsabile era sempre e soltanto di qualcun’altro.

Il futuro di questa nuova ondata di caos e instabilità politica, tutt’ora in evoluzione non è stato ancora dipanato, speriamo soltanto che nostra signora dell’ipocrisia non ci conduca ad una nuova “domenica delle salme”.

Che fine ha fatto la Storia Leggera ?

Alcuni mesi ho pubblicato alcuni video su youtube, annunciando una serie innovativa e rivoluzionaria, in quei video e anche in alcuni articoli annessi ho promesso che avrei realizzato qualcosa di unico, di nuovo e di incredibile, avrei parlato di storia attraverso la musica e la canzone… o almeno, queste erano le mie intenzioni.

L’idea mi era stata suggerita dalla mia vorace fame di musica e grazie al libro “storia leggera” avevo iniziato a buttare giù idee su idee, canzoni su canzoni, testi su testi, musiche e contesti storici che avrebbero costituito la base di questo ambizioso progetto.
Volevo che la musica non fosse solo uno strumento, un pretesto per parlare di storia, volevo che la musica e la canzone fossero i veri protagonisti di quella rubrica e che la storia avesse un ruolo puramente corale, volevo che la storia facesse da sfondo, rendendo reali le immagini che la canzone prescelta dipingeva nella mente dell’ascoltatore, riempiendo una tela fatta di note, pentagrammi e personaggi storici.

Nella mia idea originale avevo anche pensato di arricchire il tutto con delle musiche scelte, costruite ad hoc per quei video, volevo una musica che in qualche modo richiamasse le tonalità e le melodie della canzone di cui avrei parlato, così da rendere ancora più immersiva l’esperienza del pubblico, così da rendere ancora più forte il legame tra la canzone e la narrazione storica e non è passato molto tempo prima che mi rendessi conto che ciò che volevo realizzare, era letteralmente irrealizzabile.

Di quella rubrica sono riuscito a realizzare soltanto due video che non ho mai neanche caricato su youtube, due video in quattro mesi di lavoro sono decisamente pochi, soprattutto se questi unici due video sono ancora oggi incompleti e sono incompleti perché ancora oggi non sono riuscito a trovare o scrivere la musica giusta.
Non sono riuscito a realizzare, per questi due video, un comparto audio che mi soddisfacesse, quella stessa musica che nelle mie ambizioni doveva costituire il cuore pulsante di questa rubrica mi stava impedendo di andare avanti nella produzione di questi video. Così ho cambiato approccio.
Ho deciso di guardare in modo diverso a questa rubrica, le idee si susseguivano rincorrendosi a vicenda nella mia mente questo fino al 19 marzo, il giorno di san Giuseppe. Quel giorno, Erica Mou, una musicista anzi, un artista che adoro, ha pubblicato un articolo in cui parlava della festa del papà attraverso la musica, attraverso le canzoni che avevano accompagnato la sua infanzia e che aveva letteralmente divorato da bambina.
Ho letto l’articolo con interesse senza pensarci più di tanto, poi, questo lunedì, 26 marzo, un nuovo articolo di Erica, in cui raccontava una giornata i cui fiocchi di neve avevano catapultato Roma in una fiaba, in un mondo onirico e dimenticato in cui la musica, come quella neve avvolgeva ogni cosa. Quell’articolo era esattamente ciò che stavo cercando da mesi, ma io questo ancora non lo sapevo, era esattamente ciò che mi serviva, era il tassello mancante che non riuscivo a trovare da nessuna parte, le parole di Erica mi avevano avevano spalancato i miei occhi, occhi che non riuscivano a vedere qualcosa che avevano proprio sotto al naso, come i volti degli sconosciuti che incrociamo in strada e ai quali solo una nevicata sul Colosseo può ridare luce e colore.

Mi ero concentrato così tanto sull’idea di parlare di storia attraverso la musica da perdere da dimenticare perché volessi parlare di storia attraverso la musica, avevo dimenticato cosa realmente volessi comunicare con questa rubrica complicando a dismisura qualcosa di semplicissimo ed ora che ricordavo, posso essere finalmente libero di realizzare ciò che desideravo.
Vorrei dire di essere tornato con i piedi per terra dopo aver perso il contatto con la realtà volando forse troppo in alto, ma verità è che mi ero bloccato proprio perché non riuscivo ad alzarmi in volo, avevo i piedi zavorrati al suolo totalmente immersi in un limitante pragmatismo metodologico che mi impediva di pensare e di lavorare a quella folle e delirante idea, preludio ad un imprudente volo verso il sole, su di bianche ali di cera.

A questo punto molti di voi si staranno chiedendo, che cosa succederà a questo punto alla serie “storia leggera”? verrà realizzata, verrà cancellata, si trasformerà in una banale serie sulla storia della musica? verrà rimandata diventando la nuova serie su roma?

Nulla di tutto questo, mi sono reso conto che la forma del video, nonostante la sua potenza espressiva e comunicativa, non è sufficiente a rendere giustizia per ciò che ho in mente, e che paradossalmente, un articolo scritto può fare molto di più. Non so ancora se realizzerà anche dei video derivati da questi articoli una sola cosa per ora è certa, per tutto il mese di aprile, ogni Lunedì mattina alle 08:00, verrà pubblicato un video, in cui proverò a parlare di storia attraverso la musica e la canzone.

Il Giovane Karl Marx – RECENSIONE

Il 5 aprile 2018 uscirà al cinema “Il Giovane Karl Marx“, ed io ho avuto la fortuna di essere invitato all’anteprima stampa e mi dicono dalla regia che, oltre ad essere “una storia di grande passione politica, impegno e rivoluzione” sarà anche “una grande storia di amicizia e d’amore“.

Provo quindi a scrivere una mia recensione del film, basandomi sul mio gusto personale ed esponendo quelle che sono le mie opinioni in merito.

Prima di cominciare con la recensione vera è propria però, provo a tracciare rapidamente il quadro della situazione, per contestualizzare storicamente gli eventi narrati nel film.

E trattandosi di un film che in qualche modo racconta gli anni giovanili di Karl Marx, credo sia opportuno fornire qualche superficiale dato biografico, che potete verificando scrivendo Karl Marx su google.

Karl Marx nasce il 5 maggio 1818 a Treviri, una città tedesca e all’età di 29 anni, quasi 30, precisamente il 21 febbraio 1848, avrebbe firmato, insieme all’amico Friedrich Engels, il Manifesto del Partito Comunista, un documento che, senza girarci troppo attorno, avrebbe cambiato e segnato per sempre la storia mondiale.

Al di la del pensiero marxista e delle varie critiche al marxismo, Karl Marx è stato certamente un personaggio estremamente “affascinante” e controverso, che con la sua visione del mondo è riuscito a creare una vera e propria scuola di pensiero e proprio a in merito alla figura storica di Marx, mi dicono dalla regia, questo film si ripropone di “illuminarne il pensiero, l’ardore, la passione politica”.

Il Giovane Karl Marx è ambientato negli anni quaranta del secolo XIX, anni in cui i due giovani intellettuali avrebbero dato vita a un movimento che si riproponeva di voler emancipare, i lavoratori oppressi di tutto il mondo.

Gli anni quaranta sono anni molto intensi, il quarantotto in particolare, sono anni di fermento, soprattutto in una “Germania” all’apice della sua rivoluzione industriale, negli stessi anni in Francia gli operai del Faubourg Saint-Antoine si misero in marcia e in Inghilterra il popolo era sceso in strada per manifestare, sono gli anni in cui, parafrasando Guccini, “in europa si incominciava la guerra santa dei pezzenti” e mentre l’europa viveva questi momenti di grande fermento e intensità politica e intellettuale, in “Germania” l’opposizione intellettuale era fortemente repressa, e questa repressione avrebbe in qualche modo costretto Marx e la sua donna a lasciare la “Germania”.

A scanso di equivoci, scrivo “Germania” tra virgolette perché in questi anni la Germania in realtà non esiste ancora o non esiste più, il sacro romano impero era stato disciolto dal Congresso di Vienna e la sua riunificazione sarebbe partita dopo il 1848.

Ad ogni modo, il protagonista del film è un giovane Marx in “esilio”, e durante la sua permanenza francese a Parigi, incontra Friedrich Engels, figlio di un grande industriale tedesco, che ha studiato e conosce molto bene le condizioni di lavoro del proletariato inglese.

Questi due giovani provengono da mondi diversi, provengono da estrazioni sociali molto diverse, ma entrambi sono dotati di una mente brillante, sono giovani, pieni di vita ed energia, sono appassionati, sono grintosi e soprattutto, sono dei grandi provocatori e tutti questi elementi mescolati insieme gli avrebbero permesso di creare un movimento rivoluzionario unitario che come abbiamo già detto, nel bene o nel male, avrebbe segnato per sempre le sorti del mondo.

Passiamo ora alla recensione del Film

A dare il volto a Karl Marx è August Diehl, già apparso in film diversi colossal hollywoodiani come Bastardi senza gloria, Salt, e altri film di rilievo come Treno di notte per Lisbona e Il falsario – Operazione Bernhard (vincitore dell’oscar come Miglior Film Straniero nel 2008).

A dare il volto a Friedrich Engels è invece Stefan Konarske, mentre i panni di Jenny Marx (la moglie di Marx) sono vestiti da Vicky Krieps, portata al successo dal recente Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, dove ha interpretato la musa del couturier inglese interpretato da Daniel Day Lewis.

Il film è nelle premesse e nelle promesse molto interessante, già dal trailer è possibile vedere il doppio volto di questa pellicola, storicamente accurata, arricchita da un ambientazione verosimile sia nella costruzione delle location che nei costumi e la cui natura di film di intrattenimento per il cinema e non di documentario è ben evidente.

Dialoghi, emozioni, sentimenti e situazioni in alcuni casi anche al limite della commedia, contribuiscono a creare un atmosfera  che a mio avviso fantastica, perché è estremamente piacevole e grazie a questa atmosfera riesce a raccontare con una romanzesca semplicità, alcuni degli anni più significativi della vita di Marx.

Gli anni giovanili raccontati in questo film sono gli anni in cui il pensiero di Marx assume una forma tangibile, sono gli anni in cui viene schioccata la scintilla che avrebbe acceso il fuoco che avrebbe bruciato il capitalismo borghese. O che almeno ci avrebbe provato.

Qualcuno tra i più attenti di voi avrà riconosciuto in queste mie parole una citazione al film “Gli Ultimi Jedi”  di J.J. Abrams, della saga cinematografica di Star Wars e non è un caso se ho scelto questa citazione per descrivere questi anni della vita di Marx raccontati da questo film.

Ho scelto queste parole perché voglio che sia chiaro, al di la di ogni ragionevole dubbio, che questo film non è un documentario e che tutti gli angoli smussati da una narrazione romanzata, per quanto mi riguarda, non costituiscono un difetto, ma un valore aggiunto, poiché grazie ad essi i circa 120 minuti di film, sono letteralmente volati.

Per quanto mi riguarda Il giovane Karl Marx fa esattamente quello che un buon film dovrebbe fare, ovvero raccontare una storia, e la storia che racconta è una storia emozionante e avvincente, e nonostante sia tratta dalla realtà, da una realtà storica che non è avvincente, la realtà storica è lenta, è noiosa, è monotona, ci viene raccontata in modo piacevole e con un certo alone di leggerezza, ma la leggerezza non toglie nulla alla storia, non toglie nulla alla realtà e questo film, nonostante la relativa leggerezza riesce a toccare le tematiche proprie del pensiero di Marx e riesce a valorizzarle trasmettendole con immediata semplicità allo spettatore, ed è esattamente quello che speravo di trovare in un film fondamentalmente storico.

Vi confesso che quando ho letto le prime notizie su questo film, quando ho saputo che Raoul Peck aveva realizzato un film sulla vita di Marx, la prima cosa che ho pensato è stata, “chi cacchio è Raoul Peck?“, ma forse questo mio primo pensiero non è tanto importante, la seconda cosa che ho pensato invece, è stata, “speriamo non sia una merda” e per diverse settimane, per diversi mesi, sono stato titubante, non sapevo cosa aspettarmi da questo film, mi chiedevo se ne sarebbe venuto fuori un piccolo capolavoro o se invece si trattava di un disastro annunciato, ero davvero terrorizzato dall’idea di vedere film brutto e noioso ma fortunatamente così non è stato.
Quello che ho visto è stato un film che mi è piaciuto davvero tanto,un film che mi è piaciuto e che ho apprezzato sia da semplice spettatore che da storico che suo modo nel XIX secolo ha lasciato il suo cuore, e sono davvero felice che le mie preoccupazioni alla fine si siano rivelate vane.

Per quanto mi riguarda mi piacerebbe vedere più film “storici” come questo, mi piacerebbe vedere altri film in cui l’essere legati alla realtà storica dei fatti, non precluda l’intrattenimento e il piacere di assaporare una bella storia, anche quando si parte da una storia vera e si trattano temi importanti e profondi, quali possono essere in questo caso i vari temi sollevati dal pensiero di un giovane Marx che si scontra con un mondo che è figlio dei valori universali della rivoluzione francese, ma in cui, quei valori in realtà sono solo una farsa e la vecchia disparità sociale tra l’uomo comune e il nobile non è stata realmente superata, ma ha semplicemente cambiato volto.

Penso che Raoul Peck sia riuscito nell’impresa di realizzare un film relativamente leggero, che può andare bene sia allo spettatore più esigente che a quello più accondiscendente. Ovviamente non è un film per bambini, ma non è neanche un pubblico “selezionato”, non è un film per i soli estimatori di Marx o per cinefili incalliti, e credo che possa essere apprezzato sia da chi ha letto la biografia di Karl Marx, che da chi crede che Marx sia il nome ed Engels il cognome di un unico uomo.

Voi invece? cosa ne pensate?
Fatemelo sapere con un commento.

Occupazione Italiana dell’Istria nel primo dopoguerra e gli effetti nel secondo dopoguerra

Inizialmente questo articolo si intitolava “Foibe: la responsabilità degli italiani nelle stragi”, era un titolo altamente provocatorio e come spiegato nelle premesse, è ovvio che le vittime non hanno alcuna responsabilità nella strage. Le vittime delle foibe hanno pagato per i crimini dei propri padri e nonni, e questo, per il mio codice di giustizia è forse anche più grave.

Il mio intento con questo articolo non è quello di esprimere un giudizio morale sull’accaduto ne di piegarlo alla mera propaganda politica, il mio intento è puramente storico e l’oggetto dell’articolo, se bene chiami in causa le stragi delle Foibe non sono le foibe, ma l’occupazione Italiana dell’Istria negli anni 20 e 30.

Si tratta di un tema a mio avviso fondamentale per comprendere quanto successo nel secondo dopoguerra, soprattutto perché sulla questione delle Foibe spesso sentiamo pronunciare frasi di questo tipo “Gli Italiani sono stati massacrati senza pietà dai Comunisti di Tito, per la sola colpa di essere Italiani.”

Segue quindi un post probabilmente “molto impopolare“, ma purtroppo la realtà storica è un po più complicata della semplice propaganda politica e alcune vicende non sempre sono totalmente bianche o nere. In alcuni casi, e le stragi delle foibe sono uno di questi casi, può capitare che entrambe le parti coinvolte abbiano la propria dose (più o meno ampia) di responsabilità.

Faccio un ultima premessa, ho già spiegato ampiamente in un altro articolo perché nel 1948 alla fine il governo italiano decise di non perseguire i criminali Jugoslavi, in questo articolo mi limito a dire che i crimini dell’Italia e degli Italiani erano di gran lunga più numerosi e diluiti in un tempo maggiore rispetto a quelli commessi dai partigiani Jugoslavi e di conseguenza, insistere sulla punizione dei crimini Jugoslavi da parte del governo italiano, sarebbe costato all’Italia e al suo nuovo ruolo nella comunità internazionale, un prezzo che non poteva permettersi di pagare. Detto questo.

È vero, in Jugoslavia è stato commesso un terribile crimine ai danni degli italiani che si trovavano lì, questo è innegabile e anche se in questo post andrò a spiegare chi erano effettivamente quegli italiani, perché si trovavano lì e perché sono stati massacrati, non voglio in alcun modo legittimare l’accaduto, ciò che è successo è un crimine e rimane un crimine, non ci sono attenuanti, ma le responsabilità comuni non possono essere ignorate. In questo caso specifico abbiamo a che fare con un crimine compiuto come risposta a decenni di crimini ed abusi, ma il fatto che le stragi delle foibe siano una risposta ad altri crimini non le rende un crimine meno grave, ma andiamo con ordine.

Cominciamo col dire che la regione dell’Istria non è una regione storica italiana, storicamente, e per storicamente intendo nelle ultime migliaia di anni, è sempre stata abitata da popolazioni di origine slava. Per molti secoli questi territori sono stati sotto il controllo del sacro romano impero prima, dell’impero Austriaco e poi dell’impero Austro Ungarico, quando nel XIX secolo l’impero egli Asburgo ha cambiato nome.
Nella seconda metà del XIX secolo, quando in Italia si proclamava l’unità nazionale e si combattevano le guerre di indipendenza, gli allora abitanti dell’Istria, così come anche quelli della Dalmazia, non se ne preoccuparono più di tanto, non insorsero contro gli Asburgo per unirsi alla nuova nazione guidata dai Savoia e questo perché non si sentivano parte della tradizione e della cultura italica, un discorso a parte va fatto per la città di Trieste la cui popolazione era per lo più di origini “venete”, per non dire veneziani, ma un unica città in un’intera regione non è sufficiente a definire l’identità regionale.

è come se dicessimo che la luna è stata colonizzata perché un paio di volte, alcuni astronauti terrestri sono usciti a fare una “passeggiata” sulla superficie lunare.

Finito il periodo delle guerre di indipendenza e ufficialmente completata l’unità d’Italia nel 1871 (quando venne annesso anche lo stato pontificio) o se preferite 1861, in Istria non ci furono insurrezioni anti-asburgiche o rivendicazioni di appartenenza all’Italia, perché appunto gli abitanti di quelle regioni non si reputavano italiani, come detto sopra un discorso a parte va fatto per la città di Trieste dove effettivamente qualche “italiano” c’era, e scese in piazza, ma erano comunque 4 gatti, troppo pochi per mobilitare un intera città, figuriamoci un intera regione.

Passano gli anni, passa più di mezzo secolo, inizia la prima guerra mondiale, gli imperi centrali stanno collassando e i capi politici europei se ne rendono conto, sono consapevoli che l’imminente disfacimento degli imperi centrali provocherà un vuoto di potere in vaste aree dell’europa e del nord Africa e non a caso cercano di approfittarne del vuoto per rivendicare il controllo su nuovi territori, fondamentalmente per espandere e aumentare i propri imperi e l’Italia non è da meno. ricordiamo che l’Italia, tra le tante ragioni per cui entra in guerra, dichiara un per nulla velato desiderio di espandere i propri territori e in questo è incoraggiata dai discorsi di Cesare Battisti (da non confondere con il Cesare Battisti terrorista degli anni di piombo), deputato socialista di Trieste al parlamento di Vienna.

L’italia vuole entrare in guerra ed espandere i propri possedimenti e l’unico possibile avversario abbastanza vicino e debole contro cui scontrarsi è l’impero austro-ungarico e come sappiamo si l’Italia riesce ad accordarsi con Francia e Regno Unito per poter conquistare territori Austriaci, de facto la guerra degli italiani è una guerra, fallimentare, di conquista, che ha come fine ultimo la conquista di nuovi territori, tra cui appunto, Istria e Dalmazia.

La scelta dell’Italia cade su Istria e Dalmazia (ed eventualmente altri territori della costa adriatica dei Balcani) per ragioni politiche e strategiche, principalmente perché “sono a portata di bagnarola”, nel senso che la flotta italiana non era proprio una delle migliori del mediterraneo, ma l’Adriatico non era un mare impegnativo e la flotta asburgica non costituiva una reale minaccia.
La guerra termina con una sconfitta militare dell’Italia perché essendo una guerra di conquista, se ti ritrovi ad avere meno territori di quanti ne avessi quando hai iniziato la guerra, è una sconfitta, ma gli alleati gli concedono comunque qualche territorio all’Italia, principalmente per premiare lo sforzo bellico, questo però all’Italia non basta e pretende molto di più di quanto gli è stato concesso (e ci tengo a precisare che, a mio avviso gli è stato concesso anche troppo).

Non stiamo a girarci intorno, nel dopoguerra Istria e Dalmazia vengono occupate “illegalmente” da numerosi migranti italiani, tacitamente appoggiati dal governo, per lo più sono persone che conoscono quelle terre, fatta eccezione per qualche caso isolato (come D”Annunzio) la maggior parte erano migranti stagionali che già prima dell’unificazione si recavano periodicamente nei territori austro ungarici per lavorare soprattutto come operai, in miniere e nelle cave. Insomma, gli Italiani erano frequentatori/lavoratori abituali della regione da più di un secolo e tra la prima e la seconda guerra mondiale, molti migranti stagionali decisero di stabilirsi lì regolarmente, insomma, andarono lì e non tornarono più in Italia. Molti rimasero lì per varie ragioni, un po perché convinti che quelle terre fossero loro di diritto, un po perché quelle terre un tempo appartenevano alla corona asburgica, ma dopo la guerra la corona era caduta e fondamentalmente per il controllo delle terre vigeva la legge del più forte, “la terra è di chi se la piglia” e gli italiani se la presero senza troppi complimenti.

In questa fase gli scontri tra locali e italiani sono molto limitati, perché i piccoli proprietari terrieri locali (che bene o male avevano fatto la stessa cosa degli italiani) conoscevano da generazioni gli italiani e da generazioni avevano lavorato insieme e in breve, ognuno si prese il pezzo di terra in cui lavorava prima della guerra o in cui lavoravano i propri antenati.

I problemi iniziano verso la metà degli anni venti, con la svolta fascista in Italia, e ancora di più con l’ascesa del Nazismo in Germania, negli anni trenta.

L’avvento delle ideologie di razza si tradusse in una rivendicazione totale di quei territori, ormai l’occupazione delle terre è totale ma gli italiani continuano ad arrivare in Istria e il governo fascista assegna loro terre che fino a quel momento erano state occupate dai locali, insomma, in una terra di nessuno il governo fascista decide che determinati terreni debbano appartenere agli italiani e quindi, i non italiani che vivevano lì, vengono cacciati dalle proprie case e terre fondamentalmente con la forza, e questo è il primo di una serie di passi che per oltre vent’anni avrebbe alimentato il rancore nei confronti degli italiani e sarebbe esploso nel secondo dopoguerra con le stragi delle Foibe.

Durante la guerra l’Italia come è noto conduce una campagna di espansione nell’area balcanica, incorrendo in numerose figuracce e ricorrendo spesso al supporto tedesco, e ad un certo punto i popoli slavi, approfittando del poco controllo degli italiani sul territorio, riescono ad organizzarsi in gruppi partigiani e riescono a prendere il controllo di molti territori, va detto, a scanso di equivoci che, dopo l’armistizio del 43 molti soldati italiani si uniranno ai partigiani jugoslavi nella guerra contro i tedeschi.

Finita la guerra, finita l’occupazione nazifascista, c’è un problema politico legato all’ amministrazione di alcuni territori, tra cui la stessa città di Trieste, che da una parte sono stati “liberati” dall’ occupazione nazista dalle milizie jugoslave, dall’ altra, sono abitati soprattutto da italiani che nel corso del ventennio precedente hanno occupato quei territori e dunque sorge una domanda, quei territori devono essere considerati come italiani o jugoslavi?

Per le milizie di partigiani jugoslavi che esercitavano un controllo diretto del territorio, la risposta è semplice, quei territori sono stati liberati dai partigiani e rientrano ora sotto il controllo e l’autorità dei liberatori che sarebbero poi confluiti nel governo di Tito, chi abita in quelle regioni può scegliere se rimanere lì e “giurare fedeltà” al nuovo stato o tornare nella terra dei propri padri, liberamente o con la forza. Gli italiani, discendenti di quegli stessi italiani che qualche decennio prima avevano occupato quelle terre, ritenevano quella terra la propria terra, non vogliono lasciare la propria casa (così come non volevano lasciarla gli istriani quando gli italiani li hanno cacciati), non vogliono andarsene e allo stesso tempo vogliono continuare a vivere in Italia, insomma, vogliono che quei territori rimangano (o comunque diventino) italiani perché da qualche generazione lì vivono degli italiani.

Per intenderci, è un po come il governo Cinese rivendicasse la città di Prato come parte della Cina perché da qualche generazione a Prato vivono soprattutto cinesi…

La situazione è molto delicata oltre che problematica e viene mal gestita dal nascente governo jugoslavo che ricordiamo, non si è ancora consolidato, di fatto molte regioni sono ancora controllate dalle milizie che le hanno liberate e queste milizie non vogliono rinunciare a quelle terre che hanno liberato lottando duramente contro un nemico più forte e meglio organizzato, decidono così di “passare al lato oscuro” ed usare la forza per scacciare gli invasori stranieri, non uso queste parole a caso, commettendo stragi e crimini che sono tristemente noti a noi tutti.

La risposta internazionale alla crisi istriana e in particolare per la gestione della questione Triestina è una sorta di commissariamento internazionale, chiamiamolo così, della città di trieste, l’unica città “italiana” della regione. Trieste di fatto viene posta sotto il controllo internazionale, analogamente a quanto era successo alla Germania e alla Korea, e sarebbe tornata definitivamente sotto il controllo del governo italiano soltanto nel 1971, quasi 20 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il governo italiano si impegnò formalmente di fronte alle Nazioni Unite a rinunciare definitivamente e permanentemente ad ogni rivendicazione territoriale sull’Istria, la Dalmazia e altri territori della costa adriatica dei Balcani.

In conclusione, ripeto, con il racconto di queste vicende non vogliono assolutamente depenalizzare i crimini commessi dai comandanti partigiani Jugoslavi, molti dei quali, successivamente avrebbero assunto posizioni chiave nel governo di Tito, ho già parlato ampiamente, in un altro articolo e in un video delle ragioni politiche e storiche per cui nel 1948 si decise di chiudere la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani e ai danni degli italiani in quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Jugoslava. Il mio intento, con questo articolo, e spero di esserci riuscito, è quello di mostrare che gli italiani massacrati nelle stragi delle Foibe non erano solo “colpevoli di essere italiani”, la loro storia in Istria era breve e connotata di una profonda rivalità con i popoli locali, rivalità che per decenni avevano coperto violenti abusi perpetuati da parte italiana ai danni delle popolazioni slave e il ricordo di questi abusi fu il punto di partenza dei crimini commessi in Jugoslavia da entrambe le parti.

In Istria migliaia di italiani furono massacrati per i crimini commessi dai loro padri o da altri italiani, la loro unica colpa non è quella di essere italiani, ma di non aver preso coscienza della realtà in cui vivevano e di aver preteso, forse troppo presto e con troppa forza, di assumere il controllo di un territorio che non gli apparteneva e nel quale erano una minoranza non bene accetta e forse mai desiderata.

Bibliografia

Si pronuncia “Necker” non Necker – quando un nome è più importante di ciò che rappresenta.

Uno dei commenti più frequenti che mi capita di leggere sotto i video del mio canale youube è “Si pronuncia “Necker” non Necker” o qualcosa di simile, prendo ad esempio nome in particolare perché il video sulla rivoluzione francese, in cui viene fatto tale nome, è probabilmente il più popolare dei video del mio canale, ma potrei fare benissimo mille altri esempi analoghi, soprattutto quando si ha a che fare con nomi o parole provenienti dal mondo antico, in particolare dal mondo greco-latino.

Ho sempre risposto a questi commenti dicendo che il modo in cui si pronuncia un determinato nome è assolutamente irrilevante ai fini storici” tuttavia, alcuni studenti mi hanno fatto notare che spesso, la pronuncia di un nome può fare la differenza tra un buon ed un cattivo voto ad un interrogazione o ad un esame, quasi come se il modo in cui viene pronunciato un determinato modo sia più importante di ciò che quel nome rappresenta.

Prendiamo ad esempio Jacques Necker, non stiamo parlando di Voldemort, di uno stregone rinnegato di cui non si può pronunciare il nome, stiamo parlando di un banchiere francese del diciottesimo secolo che fu chiamato alla corte di Versailles dal re Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia e, a differenza di Voldemort, il suo nome possiamo pronunciarlo. Possiamo pronunciarlo senza paura di sbagliare e indipendentemente dal modo in cui lo si pronuncia, esso non cambierà ciò che rappresenta. Indipendentemente dalla sillaba in cui cadono gli accenti e dal fatto che si utilizzino accenti acuti o ottusi o non si utilizzi alcun accento, Necker rimarrà sempre un banchiere francese del diciottesimo secolo che nel 1777 fu chiamato da Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia nel tentativo di sanare il bilancio dopo una lunga e costosa guerra contro il Regno Unito.

La sua figura centrale in quella serie di eventi che la storia avrebbe ribattezzato Rivoluzione Francese, non dipende dal modo in cui si pronuncia il suo nome, ma dalle azioni e dalle scelte che caratterizzarono la sua carica di “ministro dell’economia e delle finanze francesi”, per utilizzare un etichetta più “moderna”.

Quest’uomo è passato alla storia per essere stato convocato dal Re di Francia ed aver ricevuto l’incarico di sanare il bilancio della nazione, e dopo essere stato licenziato perché nel suo piano di risanamento era previsto un taglio alle enormi spese della casa reale, pubblicò i dati del bilancio della casa reale, rendendo noto alla popolazione parigina che, mentre il popolo moriva letteralmente di fame, il Re sprecava una fortuna in quelle che potremmo definire delle vere e proprie stronzate.

Necker rappresenta tutto questo, rappresenta il punto di partenza della rivoluzione francese e personalmente trovo folle, per non dire sbagliato o inutile, ridurre il suo ruolo nella rivoluzione in una mera questione linguistica…  “si pronuncia Necker non Necker”.

Ovviamente una corretta pronuncia del nome di un così importante personaggio storico è certamente qualcosa di apprezzabile, ma non posso accettare che la corretta pronuncia di questo o di qualsiasi altro nome possa superare per importanza ciò che quel nome rappresenta. Necker non è solo un nome, non è una stringa di simboli fonetici che appare in qualche pagina prima degli eventi della rivoluzione francese, Necker è stato un uomo, è stato un politico, è stato un economista ed è stato una figura chiave nella nascita della stessa rivoluzione francese, ed è soprattutto per questo che andrebbe studiato, è soprattutto su questo che bisognerebbe soffermarsi quando lo si incontra in un manuale, non sul modo più corretto di pronunciare il suo nome.

Studiare storia non significa studiare una successione di avvenimenti, di nomi pronunciati alla perfezione e di date precise al millesimo di secondo.
Studiare storia significa comprendere determinati avvenimenti che hanno influenzato il corso degli eventi successivi, significa comprendere le dinamiche che hanno portato quegli avvenimenti a compiersi in quel determinato modo e non in un altro.
Studiare storia significa prima di tutto comprendere la realtà del mondo e degli eventi passati, significa comprendere la realtà dei rapporti e le relazioni tra gli esseri umani, tra i popoli e le nazioni del mondo. Nomi e date hanno un valore puramente accessorio, servono soltanto a mettere in ordine questi avvenimenti, sono soltanto delle etichette, come quelle che troviamo al supermercato prima di ogni reparto e ci indicano sommariamente il genere di prodotti che incontreremo in un determinato reparto, non sono diversi dalle etichette che vicino ad ogni prodotto ci indica nome e prezzo di quello specifico prodotto. Ma un prodotto non è solo il suo nome e il suo prezzo, è molto altro.

Queste informazioni sono certamente utili, ci aiutano a non smarrirci nel supermercato e non ricevere brutte sorprese una volta alla cassa o appena tornati a casa, sarebbe impossibile fare la spesa se tutti i prodotti fossero contenuti in scatole grige, senza nome e senza prezzo. Così nomi e date ci aiutano a non perderci nella Storia, e non avere brutte sorprese, ma non sono la Storia.

Voglio concludere l’articolo “passando la parola” ad uno dei più grandi scrittori britannici dell’età moderna, mi riferisco ovviamente a William Shakespeare. Shakespeare in uno dei suoi capolavori immortali, Romeo e Giulietta, pubblicato nel 1597, si lascia andare ad alcune riflessioni analoga e al cui interno qualcuno potrebbe rivedere un certo platonismo, facendo pronunciare ad uno dei protagonisti, tale Giuletta dei Capuleti, queste “esatte” parole.

“What’s in a name? that which we call a rose by any other name would smell as sweet”

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”

Nella sua ingenuità Giulietta comprende quello che molti studenti e spesso insegnanti non riescono a vedere, ovvero che un nome non è altro che un nome, una semplice etichetta che ci indica qualcosa, nulla di più, e dunque anche Necker sarebbe sempre Necker, anche se lo chiamassimo in modo differente, ignorando o alterando la cadenza e l’apertura degli accenti che accompagnano il suo “complicatissimo” nome.

Il cuore della COSTITUZIONE – Articolo terzo dei principi fondamentali

Personalmente credo che i principi fondamentali della costituzione, e in realtà tutta la costituzione siano superflui, o meglio, che facciano da contorno e servano a rafforzare e proteggere un unico principio inviolabile.

Questo principio è sancito in maniera indelebile dall’articolo 3 della costituzione ed esso, a mio avviso, rappresenta il cuore pulsante della costituzione, il centro gravitazionale attorno a cui tutto ruota, il cardine stesso della costituzione. Tutti i principi fondamentali e tutti gli altri articoli servono ad adornare e completare questo articolo, che di perse dice tutto quello che c’è bisogno di dire; mi piace pensare che la costituzione rappresenti un insieme di regole che hanno il preciso compito di rendere attuabile quanto comandato nell’articolo terzo dei principi fondamentali.

Per chi non lo sapesse, l’articolo terzo dei principi fondamentali della costituzione recita queste parole:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”

L’articolo in realtà è molto più lungo, e in questo post cercheremo di spiegarlo tutto, ma già queste prime parole ne definiscono l’essenza, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, rileggiamolo, ripetiamolo, ascoltiamolo, ascoltiamo come suona bene, come suonano bene queste parole, sono parole magnifiche, candide, pure, immacolate, sembrano pronunciate da un bambino che con ingenuità crede ancora nelle favole e nella magia, sono parole che toccano direttamente il cuore degli italiani e per non lasciare spazio alle interpretazioni degli adulti, che si sa, hanno smesso di sognare già da qualche anno, l’articolo stesso ci tiene a sottolineare che quel “tutti” non è messo lì per caso, non è una parola usata tanto per usarla, quel tutti è messo lì con ragione di causa non per nulla l’articolo non dice “tutti tranne”, “tutti a condizione che”  o “tutti ma”, no, l’articolo dice solo “tutti”, e in tutto l’articolo, in pochissime parole, ribadisce più e più volte questo concetto di universalità dell’eguaglianza dei cittadini, continuando in questo modo.

Tutti sono uguali “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Alla costituzione non importa che qualcuno sia nato in una regione invece che in un altra, che sia nato in Italia o fuori d’Italia, che i suoi genitori siano italiani o stranieri, alla costituzione non importa che qualcuno sia bello, ricco, cristiano o uomo, per la costituzione qualcuno può essere basso, brutto, uomo, donna o aver cambiato sesso, può essere nato in una famiglia ricca o essere cresciuto in un orfanotrofio, può essere tutto e nulla, l’unica cosa che importa alla costituzione è che questo qualcuno sia vivo, sia libero e che possa godere degli stessi diritti di chiunque altro nel paese, e non c’è etichetta che regga, se qualcuno è un cittadino italiano allora ha gli stessi diritti di chiunque altro, non importa che sia nato cittadino o lo sia diventato in un secondo momento.

Questo concetto di universalità dei diritti è talmente semplice che non avrebbe bisogno di spiegazioni aggiuntive, ma i padri costituenti avevano vissuto in un epoca in cui tali diritti non erano dati per scontati, e l’essere o meno cittadino italiano era stato, per lungo tempo (quasi un ventennio) subordinato ai capricci di uno specifico partito politico, e quindi, per evitare che questi capricci potessero tornare, i padri della costituzione ebbero la lungimiranza di specificare, al di la di ogni ragionevole dubbio, che “tutti” significava “proprio tutti” e che nessuno dovesse essere abbandonato o dimenticato. Un po come in Lilo e Stich “Ohana significa famiglia. Famiglia significa che nessuno viene abbandonato” così nella costituzione italiana essere cittadini italiani significa appartenere ad una grande famiglia, e famiglia, per l’appunto, significa che nessuno viene abbandonato.

E perché nessuno venisse abbandonato, l’articolo terzo della costituzione specifica che

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”.

Mi piace immaginare la repubblica, come un padre ed una madre amorevole, e come tali ha il compito, ha il dovere, di prendersi cura dei propri figli, senza fare alcuna distinzione tra essi, senza fare alcuna preferenza tutti i suoi figli, neanche quanto si tratta di dover scegliere tra il figlio naturale e quello adottivo.

L’articolo dice che la repubblica ha il compito di rimuovere quegli ostacoli che limitano l’eguaglianza e questo significa la repubblica deve prendersi maggiormente cura del figlio malato, che attenzione, non significa ignorare il figlio sano, significa semplicemente non abbandonare chi, con le proprie forze, non è in grado di affrontare da solo il mondo.

Prendo in questo senso ad esempio due bambini, due fratelli, uno perfettamente sano ed in grado di camminare con le proprie gambe, ed uno malato che non è in grado di camminare, il padre, la madre o chi che sia, nel prendersi cura di entrambi è chiamato a fare uno sforzo maggiore per il bambino malato, che non può camminare, rispetto a quello sano, deve prendendolo letteralmente sulle proprie spalle affinché anche lui possa prendere parte alla vita di famiglia, magari durante una passeggiata in spiaggia, alla quale, con le proprie forze, non avrebbe potuto partecipare.

In questa suggestiva immagine familiare, in cui un padre tiene per mano il bambino sano e sulle proprie spalle quello malato, io vedo l’essenza stessa della repubblica italiana. Prendendo sulle spalle il figlio malato il padre non ha abbandona quello sano, e se bene i due figli siano uguali, non è possibile fare il contrario, perché prendere sulle proprie spalle il figlio sano significherebbe lasciare in dietro quello malato.

Abbiamo visto che l’articolo si apre dicendo che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” e nell’essere eguali, non sempre è possibile adottare lo stesso trattamento e la costituzione ne è perfettamente consapevole, sa che un figlio malato avrà bisogno di più cure, di più fatiche e di più attenzioni da parte del genitore rispetto al fratello sano e allora l’articolo continua, specificando che

 è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

In quest’ultimo passaggio possiamo notare, con grande stupore di qualcuno, che non si usa più la parola cittadini, questa parola è stata sostituita da “persona umana”, e questo per ribadire, ancora una volta, il valore universale di questo principio fondamentale, un principio, anzi, una serie di principi che vanno oltre il banale sentimento nazionale, l’essere o non essere cittadini di una o di un altra nazione non conta più nulla, ciò che rende umani e degni di diritti non è un foglio di carta bollata che riconosce l’appartenenza giuridica ad una nazione, ma l’appartenenza innata alla specie umana e in questo passaggio finale, ci viene detto che ogni persona, in Italia, deve essere trattata al pari di chiunque altro e d’avanti alle leggi chiunque è uguale a chiunque altro. L’articolo ci dice che gli esseri umani hanno diritto ad alcuni diritti inalienabili e allo stesso tempo questi diritti rendono tutti responsabili di alcuni improrogabili doveri fondamentali affinché i diritti di tutti vengano rispettati.

Nella sua estrema semplicità, l’articolo terzo dei principi fondamentali della costituzione, nasconde una complessità impressionante, una complessità che forse può essere compresa a pieno solo da un bambino e nel suo essere semplice e complesso, ci dice tutti in Italia sono uguali e che la repubblica deve prendersi cura dei più deboli affinché questi non restino in dietro. Non dice altro.

Mi permetto di aggiungere, come considerazione personale che, nel caso il figlio sano dovesse pretendere di essere preso sulle spalle del padre, e quindi dovesse pretendere di lasciare a terra il fratello malato, in questo caso, credo sia compito e dovere della repubblica fare una ramanzina a quel figlio egoista e capriccioso, che forse, non è stato educato correttamente e dimostra, con questa sua pretesa, di non avere a cuore null’altro che se stesso, ignorando e calpestando così i sogni, la vita ed il futuro del suo fratello più debole e indifeso.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono INCOMPATIBILI con la costituzione

In molti mi avete chiesto di parlare di quello che è successo a Torino tra il leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il direttore del museo Egittologico di Torino Chrustian Greco. E delle recenti dichiarazioni del leader della Lega Matteo Salvini secondo cui l’Islam sarebbe incompatibile con la nostra costituzione.
Volevo realizzare un video per dire la mia a riguardo, ma non sapevo esattamente come impostare il discorso e non avevo voglia di mettere su luci, microfono e telecamera, così alla fine ho optato per un ennesimo post di opinione personale.

Cominciamo col dire che da circa 70 anni, ovvero dal primo gennaio del 1948, l’Italia è uno stato laico. Forse Matteo Salvini e Giorgia Meloni erano troppo impegnati a non portare a termine gli studi e si sono persi quel passaggio storico in cui il vecchio statuto Albertino veniva sostituito dalla nostra attuale carta costituzionale o forse, più semplicemente non hanno mai avuto modo di leggere tutta la costituzione, in fondo hanno iniziato la loro attività politica da giovanissimi e l’articolo 3 della costituzione non è proprio il primo articolo, ed è preceduto da almeno mezza pagina piena di parole complicate, quindi è perfettamente comprensibile che dei leader politici, appartenenti ad una delle principali coalizioni politiche del paese, non sappiano dell’esistenza di un articolo della costituzione che definisce l’Italia uno stato laico in cui ogni culto religioso e confessione religiosa, possono essere professati liberamente, ovviamente nei limiti concessi dalla legge.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 3 della costituzione Italiana.

Ma forse la loro ignoranza non è così genuina, personalmente non credo che Matteo Salvini ne tantomeno Giorgia Meloni siano realmente così stupidi e ignoranti, e questo forse è ancora più grave, perché posso capire chi non conosce qualcosa, io per primo sono assolutamente ignorante in tantissimi campi, ma non accetto che si finge ignoranza, poiché fingendo di non conoscere e di non comprendere la differenza abissale che esiste tra una lingua, una nazione, una cultura e una religione, questi individui alimentano ignoranza e intolleranza, e come saprete se mi seguite da un po di tempo, reputo questi elementi il piatto preferito del terrorismo, quello vero, non quello sognato e forse desiderato da questi abominevoli personaggi politici.

La lotta all’ignoranza, la promozione della cultura e della storia sono ovviamente qualcosa che mi coinvolge e mi riguarda da vicino, non dedicherei così tanto tempo ed energie a fare divulgazione storica e culturale in maniera totalmente gratuita e questo desiderio di diffondere la cultura è qualcosa che ho in comune con il direttore del Museo Egittologico di Torini, questo desiderio è una delle ragioni principali che hanno spinto il direttore Chrustian Greco a promuovere un iniziativa che a mio avviso è assolutamente lodevole, promuovendo una mostra gratuita per chiunque fosse di lingua madre arabo. Io faccio video e scrivo articoli gratuiti per chiunque abbia accesso ad internet, e questo, ci tengo a precisarlo, non significa discriminare chi non ha accesso ad internet.

L’iniziativa di Greco si propone almeno tre obbiettivi.

  1. Avvicinare al museo e dunque alla cultura egizia, un pubblico che normalmente non entrerebbe al museo, abbiamo quindi una promozione della cultura e della storia, sul piano sociale questa iniziativa ha lo scopo di nobilitare un passato ed una storia che il terrorismo internazionale e ancora di più dal terrorismo politico, tendono ad oscurare e discriminare.
  2. Avvicinare alla storia e alla cultura egizia chi viene da una cultura affine a quella egizia e che, per questa sua appartenenza culturale viene quotidianamente discriminato e messo all’angolo, perché non prendiamoci in giro, al giorno d’oggi essere di cultura “araba” significa essere discriminati e questa discriminazione di massa è dovuta alle azioni sconsiderate di pochi individui privi di scrupoli e che ambiscono al potere personale.
  3. Mostrare agli italiani che gli “arabi” non sono tutti terroristi e criminali e che hanno una lunga e ricca storia alle spalle che nulla ha da invidiare alla storia europea, anzi.

Tutto questo è stato preso dalla Meloni, stuprato, calpestato, ricoperto di merda e distorto per fini politici che a mio avviso hanno del vergognoso, perché fanno apparire questa iniziativa che ha il fine ultimo di Includere, come un iniziativa che vuole Escludere qualcuno, e questo asserendo la folle e delirante teoria che agevolare qualcuno significhi discriminare qualcun altro, in questo caso secondo Giorgia Meloni, si discriminerebbero gli italiani.

A questo punto mi rivolgo direttamente a alla signora Meloni.

“Cara Giorgia, nessuno ti vieta di entrare al museo egittologico di torino (anche se, a questo punto, se fossi io il direttore, affiggerei un bel un cartello all’ingresso del museo con la tua faccia e la scritta “io qui non posso entrare” , almeno così potresti dire con ragione di causa di essere discriminata) e nessuno vieta agli italiani di fare visita regolarmente al museo, chiunque può entrare liberamente e normalmente, ma forse tu volevi solo risparmiare i soldi del biglietto e se ti fossi informata un minimo, sapresti che ci sono almeno 12 giornate all’anno in cui chiunque può entrare gratis al museo Egittologico di Torino, inoltre, in tutto l’anno ci sono numerose giornate speciali che permettono a varie categorie di entrare gratis, senza poi considerare tutti i giorni in cui il costo del biglietto è ridotto o puramente puramente simbolico e tutte le categorie, come gli studenti ad esempio, che godono di numerose agevolazioni.
Se dare l’ingresso gratuito, per un periodo limitato di 3 mesi, a chi parla arabo significa discriminare chiunque non parli arabo, allora anche dare l’ingresso gratuito ad i genitori alla festa del papà o alla festa della mamma, significa discriminare chi non ha figli,dare l’accesso gratuito alle coppie il giorno di san Valentino significa discriminano i single (in realtà chiunque vada lì da solo, perché per coppia si intendono letteralmente due persone) ecc, ecc, ecc, o ancora, il biglietto ridotto per gli studenti o per i minori di una certa età e sopra una certa età significa discriminare chi non è studente e chi ha un età nel mezzo tra i 18 ed i 65 anni circa, e ovviamente non è proprio così.
Cara Giorgia, probabilmente avrai notato che non ho scritto “gli italiani” ma ho elencato alcune categorie di persone, e l’ho fatto per una ragione, forse tu non lo sai, ma parlare arabo non significa avere una determinata nazionalità, praticare una determinata religione o appartenere ad una specifica etnia, la lingua non definisce nulla di tutto ciò, la lingua è solo uno dei tantissimi tratti culturali di cui disponiamo e ridurre tutta questa varietà culturale ad un mero aspetto linguistico, per quanto mi riguarda è terribilmente imbarazzante e profondamente ingiusto.

L’accesso al museo Egittologico, nell’iniziativa di Greco è gratuito per chiunque parli Arabo, ma cosa significa questo e dov’è l’errore o forse è meglio dire la malafede di Giorgia Meloni in tutto questo ?
Bisogna fare una premessa per me scontata ma a quanto pare, non lo è per tutti, se da una parte infatti parlare la lingua araba sia una conditio sine qua non per poter la fese islamica, poiché il vero Corano è scritto solo in arabo e questo perché tradurlo significherebbe modificare l’essenza del messaggio, non a caso molti dei problemi legati all’interpretazione del Corano sono derivati proprio dalla sua traduzione, comunque, un islamico deve necessariamente saper leggere, scrivere e parlare la lingua araba per poter prendere parte alla vita religiosa, tuttavia, parlare arabo non rende automaticamente islamici, vi sono de facto, nei paesi islamici o a maggioranza islamica come l’Egitto, numerose minoranze religiose non islamiche che però parlano arabo, in Egitto abbiamo una delle più grandi comunità copte del pianeta ed i copti sono cristiani se bene non di fede romana, sono comunque cristiani e quindi non serve che lo dica, non sono islamici, e pure la loro lingua è l’arabo, e il fatto che parlino arabo, nel caso specifico del museo Egittologico di Torino in questo momento, da loro diritto all’accesso agevolato al museo.

Agevolare qualcuno in qualcosa, per un periodo più o meno limitato di tempo, non significa e non può significare discriminare qualcun altro, perché se così fosse, l’esistenza delle categorie protette sarebbe una discriminazione per chi non appartiene a quelle categorie e non vi sarebbe più alcun dubbio sul fatto che le famose “quote rosa” di cui la signora Meloni è stata ed è una grande sostenitrice e promotrice, siano una terribile discriminazione nei confronti degli italiani di sesso maschile. E in effetti, grazie alle quote rosa una persona dalla dubbia competenza quale la signora Giorgia Meloni, ha potuto costruire gran parte della sua carriera politica, cosa che in un sistema meritocratico probabilmente non sarebbe mai stata possibile.

A questo punto mi sembra evidente che tra Chrustian Greco e Giorgia Meloni e le rispettive ragioni, esista un abisso culturale insormontabile, da una parte abbiamo un direttore museale che ha costruito la propria carriera sui propri studi e le proprie capacità ed ha come obbiettivo unico quello di promuovere la cultura. Dall’altra parte abbiamo un politico dalle dubbie competenze e capacità che ha costruito la propria carriera sfruttando le agevolazioni di cui godeva in quanto donna, ed ha come obbiettivo ultimo, creare una devastante e distruttiva spaccatura culturale, un obbiettivo che a quanto pare condivide con Matteo Salvini, probabilmente il peggior terrorista che abbiamo in Italia.
Personalmente credo che questi due esseri condividano un genuino desiderio di caos istituzionale e politico, credo che uomini e donne come loro nutrano un odio profondo nei confronti dell’italia e del suo popolo, della sua storia e della sua cultura millenaria, una storia fatta di incontri e scontri di civiltà che per millenni hanno plasmato la morfologia di uno dei popoli più variegati culturalmente dell’intero globo. Ma tutto questo a loro sfugge o peggio, fingono di non vederlo, rifugiandosi in un mitico passato che forse non è mai realmente esistito e rievocando gli spettri di anni oscuri, tra i più cupi che questo paese, questo continente e anzi, questo pianeta, abbiano mai vissuto.

Personalmente, da italiano, spero di non dover pagare per l’ignoranza, l’arroganza e l’incompetenza di uomini e donne come Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

 

IL SAGACE VIGLIACCO BADOGLIO e la fuga di Brindisi

All’alba del 9 novembre del 1943, l’allora re d’Italia Vittorio Emanuele III e il capo provvisorio del governo, il generale Pietro Badoglio, lasciarono la capitale d’Italia per rifugiarsi a Brindisi.
Questo avvenimento è spesso indicato come fuga di Pescara, fuga di Ortona o fuga di Brindisi (e questo perché la strada da Roma a Brindisi passa per Pescara e Ortona).

Va però specificato che il re e Badoglio non fuggirono da soli e per iniziativa personale, con loro infatti si mosse l’intero stato maggiore del regio esercito e tutti i membri del governo e ci sono precise ragioni militari, storiche e politiche per cui si decise di lasciare Roma.
La criticità della fuga sta nella sua organizzazione, ma non nelle sue ragioni, e il mio intento è quello di spiegare perché era necessario evacuare la leadership del paese dalla capitale e trasferire il governo e lo stato maggiore in una sede provvisoria più sicura di quanto non fosse Roma nell’estate del ’43.
Va detto inoltre che molti attribuiscono alla frettolosa e disorganizzata fuga, l’assenza di precisi ordini e disposizioni, alle truppe e ai vari apparati statali, per la corretta esecuzione dell’armistizio annunciato soltanto il giorno prima tramite un comunicato radiofonico che però non aveva esposto con chiarezza cosa comportasse effettivamente l’armistizio. Di conseguenza molti ritennero la guerra finita e l’effetto diretto di questo enorme fraintendimento avrebbe caratterizzato in maniera estremamente significativa gli eventi bellici nelle successive 72 ore, ovvero tra l’annuncio dell’armistizio e l’istituzione di una sede provvisoria del governo a Brindisi e quindi l’invio di nuovi ordini e disposizioni.

A mio avviso, la responsabilità di questa situazione di caos in cui fondamentalmente non si sapeva esattamente chi fossero gli alleati e chi i nemici, poiché dopo anni di guerra i vecchi alleati erano diventati i nemici ed i vecchi nemici erano ora gli alleati, non è da attribuire totalmente a quella che fondamentalmente è una situazione di emergenza. La messa in sicurezza del re, del governo e dello stato maggiore è un’antica procedura militare ed è dettata da precise ragioni politiche e militari, e l’intera gerarchia militare, composta da numerosi gradi tra ufficiali e sotto-ufficiali, che collegano lo stato maggiore alle truppe di soldati ne è a conoscenza poiché è uno dei motivi fondamentali per cui esiste una così lunga catena di comando. Mi spiego meglio.

I vari gradi militari, dal soldato semplice al capo dello stato maggiore, esistono per ovviare all’assenza di ordini dall’alto, ogni soldato prende ordini dal suo diretto superiore e in assenza di ordini precisi è lui ad assumere il comando e la responsabilità delle decisioni che prenderà riguarderanno lui e tutti i suoi sottoposti. In questo caso specifico, una volta annunciato l’armistizio, e si presume che un ufficiale militare di carriera sappia esattamente cosa significa questa parola, se non si ricevono precisi ordini o disposizioni dallo stato maggiore, i vari ufficiali presenti sul campo dovrebbero prendere il comando, osservare la situazione e dopo un certo periodo di tempo, più o meno breve a seconda delle circostanze, ma che comunque non dovrebbe durare più di qualche ora, l’ufficiale o il sotto-ufficiale in comando ha il dovere di emanare degli ordini provvisori in attesa di precise disposizioni da ufficiali di grado superiore e questa cosa, nel settembre del 1943 non è stata fatta.
I vari ufficiali del regio esercito, in occasione dell’armistizio, si sono dimostrati inadatti al comando e incapaci di gestire una situazione di crisi e c’è una precisa ragione se non furono in grado di prendere una decisione che potesse sopperire all’assenza di ordini.
La maggior parte degli ufficiali non era qualificata, non era in grado di gestire effettivamente il comando e nella maggior parte dei casi erano stati addestrati e istruiti a non fare nulla in assenza di ordini diretti.

Può sembrare questa una scappatoia politica, il classico scaricabarile con cui si attribuisce parte o la totalità delle responsabilità a “chi ricopriva quell’incarico in precedenza”, e in effetti, parte della responsabilità di ciò che accadde nelle 72 ore dopo l’armistizio fu proprio del precedente governo.
La politica fascista e la sua gestione autoritaria delle risorse e dell’esercito aveva creato una gerarchia fantasma in cui l’assenza di un ordine diretto dallo stato maggiore e quindi dalla leadership fascista, si traduceva in una situazione di stallo, di immobilità, i soldati italiani, a causa dell’autoritarismo fascista non sapevano essere soldati e senza ordini precisi non sapevano letteralmente cosa fare, non erano in grado di prendere una decisione e agire di propria iniziativa.
La situazione che si era creata in Italia dopo l’armistizio non era in realtà una novità per il regio esercito, già in altre occasioni, durante la stessa seconda guerra mondiale, si erano create situazioni analoghe con soldati impegnati in operazioni di occupazione che una volta compiuta effettivamente l’occupazione, non ricevendo ulteriori ordini, invece di continuare l’occupazione come logico che sia, abbandonarono le operazioni di controllo e rimasero lì a non far nulla, o quasi. La campagna italiana nei Balcani, che come sappiamo fu un totale disastro, è piena di esempi di questo tipo, con intere regioni conquistate e poi abbandonate a loro stesse, permettendo così la riorganizzazione delle resistenze locali e delle forze partigiane che si sarebbero scontrate successivamente con i soldati italiani, i quali non erano in grado di respingerli perché sprovvisti di mezzi, armi e soprattutto di ordini. Di fatto non sapevano effettivamente se e fino a che punto combattere le milizie e questo in moltissime occasioni si tradusse in un coinvolgimento diretto degli alleati tedeschi nella gestione del territorio, cosa che avrebbe contribuito a dipingere un immagine dell’esercito italiano come di un esercito di inetti e di incompetenti, ed è vero, è assolutamente vero perché l’esercito italiano non era pronto, non era addestrato e non era in grado di autoregolarsi in assenza di ordini diretti.

Dopo l’armistizio l’assenza di ordini fu dovuta ad una frettolosa ritirata strategica che sotto molteplici aspetti fu necessaria, in primo luogo perché Roma era diventata negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi, un ricettacolo di soldati nazisti e militanti fedeli al fascismo, vi erano quindi troppe forze ostili nei paraggi e questo rendeva la città poco sicura per essere la sede del governo.
Sul piano politico restare a Roma avrebbe avuto certamente un grande valore simbolico, ma i rischi per la sicurezza del re, dei membri del governo e dello stato maggiore, erano troppi.

Col senno di poi sappiamo che soltanto 72 ore senza ordini misero in crisi il regio esercito, provate solo ad immaginare cosa sarebbe successo se lo stato maggiore fosse stato fatto prigioniero dai nazisti, se l’esercito italiano si fosse trovato definitivamente senza i propri comandanti. Spesso si dice che basta mozzare la testa perché il corpo muoia, e questo esempio è perfetto per descrivere cosa sarebbe successo all’Italia se la sua testa coronata fosse stata tagliata.

Pensate cosa sarebbe successo se il re e i membri del governo fossero stati catturati e fatti prigionieri. Sarebbero stati certamente prigionieri politici di un peso enorme e questo peso avrebbe costituito, per i nazisti, un vantaggio enorme nei negoziati, nelle trattative e nella gestione dell’intero conflitto sul territorio italico, ed è per le medesime ragioni che da parte nazista fu dato l’ordine di liberare Mussolini per poi condurlo al sicuro in territori occupati dalle forze tedesche.

Il re, Badoglio e Mussolini ricoprivano ed avevano ricoperto un ruolo centrale nello stato italiano e di conseguenza erano tre potenziali prigionieri politici la cui presenza da un lato o dall’altro “del fronte” avrebbe assunto un valore politico e strategico enorme, probabilmente tale da cambiare non tanto le sorti della guerra ma il ruolo e la posizione dell’italia nel conflitto e nella fase finale del conflitto, nei successivi trattati di pace e negli anni postbellici della ricostruzione. Non dimentichiamo che l’Italia, ha avuto un destino politico molto diverso da quello della Germania dopo la fine della guerra.

Così come per le forze dell’asse Mussolini non poteva essere lasciato nelle mani degli alleati, per gli alleati non era accettabile la possibilità che Vittorio Emanuele e Badoglio cadessero nelle mani dell’asse.

Sempre sul piano politico non va dimenticato che la vita e la sicurezza di un rappresentante dello stato sono di vitale importanza, in particolar modo se si parla dei massimi vertici dello stato e non è un caso se ancora oggi, in tutto il mondo, esistono numerose procedura di emergenza per la messa in sicurezza di capi di stato, dignitari politici e capi militari e in alcuni casi leader di partiti politici.

Restando in Italia e facendo un balzo in avanti di molti anni dal 1943 al 1978, chiamo in causa il rapimento di Aldo Moro, come sappiamo fu un evento drammatico e oscuro della più recente storia italiana, nonostante Moro fosse in quel momento “soltanto” un segretario di partito e non un capo di stato. Immaginiamo le conseguenze politiche per l’Italia se fosse stato rapito il presidente del consiglio dei ministri o il presidente della repubblica.
Sarebbe dilagato il panico, perché ne sarebbe derivata un immagine terrificante, se lo stato non è in grado di proteggere neanche i suoi massimi rappresentanti allora non può proteggere nessuno, allora ogni cittadino è in pericolo e in quel caso crollerebbe l’ordine. Verrebbe a mancare l’illusione di sicurezza che permette alle società di non implodere e ci si troverebbe nel caos più assoluto.

Ora, nel 1943 il caos già c’era, eravamo ancora nel pieno della seconda guerra mondiale e le cose per l’italia si sarebbero fatte ancora più dure per via della guerra civile, mi rendo conto che è quindi molto difficile immaginare uno scenario peggiore, e pure, è quello che sarebbe successo se Badoglio e il re fossero caduti nelle mani dei nazisti.

Difficilmente in epoca moderna dei capi di stato di nazioni di primo piano sul teatro planetario sono stati rapiti o assassinati e quando è successo ci sono state enormi implicazioni e conseguenze, basti pensare in questo senso all’assassinio di J.F.Kennedy, di cui ancora oggi si parla tantissimo nonostante siano passati più di 50 anni, o ancora, l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo che nel 1914 diede inizio ad una guerra mondiale, pensiamo alle innumerevoli guerre civili che da decenni insanguinano l’Africa, un continente dove i capi politici cadono letteralmente come mosche. Pensiamo a tutto questo per renderci conto di quanto possa essere tossico per la sicurezza di una nazione e di un popolo, mettere in pericolo personalità al vertice della gerarchia statale.

Questa non è una novità del nostro tempo e nel 1943, già consapevoli di questi rischi e con un po di sano istinto di conservazione, il re, i membri del governo e dello stato maggiore lasciarono Roma, lasciarono una città pericolosamente circondata da forze ostili per ritirarsi al sicuro in territorio occupato dagli alleati, e così come loro milioni di italiani fecero lo stesso fuggendo da una parte all’altra della Linea Gustav e della Linea Gotica, e in questo modo poterono continuare a guidare la nazione nel tentativo di traghettare il paese fuori dalla seconda guerra mondiale.

Molto probabilmente la cattura del re d’Italia da parte delle forze dell’asse non avrebbe cambiato radicalmente le sorti della guerra, e alla fine, quasi certamente gli alleati avrebbero comunque trionfato sul Reich, tuttavia, è molto probabile che l’Italia ne sarebbe uscita diversamente, magari il re avrebbe salvato la faccia, una faccia che era difficilmente salvabile dopo un ventennio di dittatura fascista, ma Vittorio Emanuele non era di certo un eroe, era un re ignavo come l’ho definito in un altro articolo e preferì salvarsi la vita piuttosto che la faccia e questa scelta è forse la cosa migliore che abbia fatto per l’italia e per gli italiani negli ultimi vent’anni del suo regno.
Scegliere il sacrificio, scegliere l’onore, scegliere di mantenere la capitale a Roma avrebbe avuto un valore simbolico sicuramente importante, ma avrebbe anche richiesto il pagamento di un costo enorme espresso in vite umane, fuggendo a Brindisi il re e il governo sono apparsi come dei codardi, e quella stessa codardia che è costata tantissimo all’Italia, in realtà ha permesso al paese e al suo popolo di risparmiare tantissime vite. Nonostante i massacri e gli eccidi perpetuati del nazismo durante la guerra civile italiana siano tantissimi e siano costati la vita a milioni di italiani innocenti e come dicevo, è difficile immaginare uno scenario peggiore, la cattura del re e di Badoglio di fatto avrebbe costituito uno scenario peggiore e le vittime, potete starne certi, sarebbero state molte di più.

LA DEFENESTAZIONE DI PRAGA quattrocento anni dopo

Il 23 maggio del 1618, alcuni rappresentanti dell’aristocrazia Boema, galvanizzati dal Conte Thurn, fecero irruzione nel palazzo reale di Praga, intenzionati a chiedere al sovrano, Ferdinando II di revocare l’ordine che autorizzava la distruzione di tutti gli edifici sacri non cattolici, edificati nei territori della grande Boemia. In quel momento il re era assente tuttavia nel palazzo erano presenti diversi amministratori regi e la delegazione riuscì a catturare catturarono due governatori imperiali, Jaroslav Bořita z Martinic e Vilém Slavata, inoltre fu catturato anche uno dei loro segretari, Philip Fabricius, e in risposta all’assenza del re, li lanciarono fuori dalle finestre del castello. Questo avvenimento noto come la Defenestazione di Praga è considerato l’atto inaugurale della guerra dei trent’anni.

La guerra dei 30 anni è considerata dalla maggior parte degli storici come uno degli eventi più importanti di tutta l’età moderna, quel periodo di mezzo che separa il medioevo dall’età contemporanea e allo stesso tempo rappresenta l’essenza stessa dell’età moderna.

Iniziamo col dire che la guerra dei trent’anni inizia ufficialmente con la famosa defenestazione di Praga ed è generalmente divisa in quattro o cinque fasi, la prima fase vede il coinvolgimento dell’Austria e della casata d’Asburgo in numerose insurrezioni nella Grande Boemia, durante la seconda frase sarà coinvolta soprattutto la Danimarca e i territori settentrionali del sacro romano impero, segue una fase caratterizzata dell’irruzione della Svezia nelle guerre civili tedesche e in fine una fase francese che porterà allo scontro diretto tra la Francia dei Borbone e i due rami della casata d’Asburgo. La lunga fase di guerre iniziate nel 1618 con la defenestazione di Praga, si sarebbe conclusa soltanto nel 1648 con la pace di Westfalia.

Con la guerra dei trent’anni e in particolare con la sua conclusione, legata alla pace di Westfalia, l’ordine giuridico e la geografia politica dell’intero continente europeo, sarebbero cambiati radicalmente, per diverse ragioni.

La prima importante conseguenza della guerra dei trent’anni riguarda la sfera politica e in particolare il destino politico del sacro romano impero e del nascente impero Austriaco.

Come certamente sappiamo il sacro romano impero, erede della tradizione imperiale romana, fu un istituzione centrale in europa soprattutto in età medievale, ma con l’inizio dell’età moderna e l’espansione dei domini europei oltre l’atlantico, la centralità e l’influenza del sacro romano impero cominciò a diminuire, questo perché a differenza di altre nazioni l’impero non aveva uno sbocco diretto sull’atlantico e questo avrebbe frenato tantissimo la sua capacità di colonizzare e conquistare nuove terre oltreoceano.

In età medievale l’impero e in particolar modo l’imperatore avevano conquistato una posizione centrale anche sul piano culturale, di fatto rafforzando sempre di più il proprio ruolo di “protettore della cristianità”. L’imperatore insieme al papa erano le due cariche più importanti dell’ordinamento politico europeo, ed avevano un valore universale, più in alto del papa e dell’imperatore c’era soltanto dio.
La coesistenza di due poteri universali in competizione tra loro avrebbe dato vita ad una crescente rivalità politica tra il potere temporale dell’imperatore e il potere temporale del papa e come sappiamo, questa rivalità avrebbe caratterizzato in maniera estremamente significativa i secoli della lotta per le investiture. Ma nel XVI secolo quelle lotte e quegli scontri apparivano ormai soltanto come un lontano e sbiadito ricordo, il papato per certi versi aveva trionfato sull’impero e la figura stessa dell’imperatore aveva perso quasi ogni potere politico.
Di fatto all’inizio del XVI secolo, quando in europa esploderanno i vari movimenti protestanti, il potere imperiale era puramente simbolico, e l’imperatore ricopriva una carica quasi del tutto priva di potere e responsabilità politiche ed il suo potere reale è legato solo ed esclusivamente ai territori di cui è effettivamente sovrano e nel caso di imperatori come Carlo V della casa d’Asburgo, questo significava regnare effettivamente su vasti territori e possedimenti e forse fu proprio l’enorme potere che venne a concentrarsi nelle mani di Carlo V che questi riuscì a giungere ad un accordo con i vari principi tedeschi per porre fine alle guerre di religione che tra il 1517 ed il 1555 insanguinarono i territori del sacro romano impero.

L’impero di Carlo V d’Asburgo

Fatta eccezione per questa breve parentesi di apparente compattezza, nel XVI secolo l’impero appariva ormai come l’insieme di numerosi principati che condividevano un passato di gloria e memorie comuni, ma che nella realtà dei fatti, soprattutto in seguito alla pace di Augusta, erano culturalmente e ideologicamente molto distanti.

La coesistenza nei territori dell’impero di principati protestanti e principati cattolici di fede romana e l’estremismo religioso dell’una o dell’altra confessione cattolica avrebbe rappresentato la principale rottura politica.
I cattolici consideravano eretici i protestanti e desideravano liberarsene, dall’altro i protestanti consideravano corrotte le istituzioni romane e a loro volta desideravano liberarle per ricondurle alla via dello spirito e questa intolleranza reciproca si sarebbe manifestata in numerose occasioni e avvenimenti tra il 1517, anno della riforma protestante, e il 1648.

La defenestazione di Praga è l’estrema conseguenza di questa intolleranza religiosa, Filippo II, sovrano cattolico della Grande Boemia aveva ordinato, nei territori del suo regno, la distruzione di tutti gli edifici di culto che non appartenessero al culto romano, ma nel suo regno, grazie anche alle ampie politiche di tolleranza promosse su un piano più elevato dall’imperatore, vivevano moltissimi protestanti tra cui numerosi aristocratici e nobili, come il Conte Thurn e questi protestanti avevano edificato i propri edifici di culto nelle proprie città e nei propri villaggi e non avrebbero accettato tanto facilmente l’idea di doversi convertire forzatamente al cattolicesimo romano.

La prima fase della guerra dei trent’anni nota anche come fase boemo-palatina o se preferite guerra civile boemo-palatina inizia per questo motivo, i protestanti insorgono contro la corona e i cattolici perché semplicemente gli è stato proibito di esercitare il proprio culto religioso.

Le successive fasi della guerra dei trent’anni, fatta eccezione per la fase svedese, avranno tutte questa stessa ragione di fondo e verranno presentate come guerre giuste, combattute non per desiderio di conquista, non per ambizioni territoriali, ma per difendere la libertà di culto dei popoli europei.

In questi anni il dibattito politico e filosofico sul concetto di guerra giusta avrà illustri ed importanti interpreti e questi discorsi, accompagnati da trent’anni di guerra, porteranno alla pace di Westfalia, in cui verrà ridisegnata e rielaborata la politica estera europea e soprattutto verrà rielaborata la geografia politica europea.

L’europa dopo la pace di Westfalia

Dopo Westfalia l’ordinamento politico europeo cambierà radicalmente, e sarà più difficile, ma non impossibile, per le antiche famiglie aristocratiche, scambiarsi i possedimenti ed i regni, i confini nazionali verranno rafforzati e saranno sempre meglio definiti e da quel momento in poi, quei confini rappresenteranno le nazioni.

Una nazione esiste perché i suoi confini sono riconosciuti dalle nazioni con cui confina e a sua volta le nazioni con cui confina sono da essa riconosciute e questo riconoscimento reciproco delle nazioni europee avrebbe caratterizzato la geografia politica in europa almeno fino allo scoppio delle guerre mondiali.

Va detto inoltre, che, mentre sul piano della politica estera avveniva questa trasformazione, anche la politica interna subiva importanti trasformazioni, vedendo la nascita e l’evoluzione di sistemi amministrativi sempre più centralizzati ed efficienti, che avrebbero raggiunto il proprio apice, nell’efficientissima burocrazia prussiana nella seconda metà del XIX secolo. Inoltre, visto che durante la guerra dei trent’anni molti aristocratici avevano organizzato degli eserciti alleandosi con l’una o l’altra forza in gioco e visto che, in particolar modo in Germania, questi eserciti erano stati alimentati da saccheggi, le case regnanti avviarono un importante processo di rielaborazione delle forze militari.

All’inizio della guerra dei trent’anni le forze militari in europa sono ancora fortemente legate alla tradizione medievale e al sistema feudale, e il forte legame tra questi eserciti temporanei e i propri comandanti aveva creato numerosi piccoli eserciti mercenari.
Detto più semplicemente, i vari signori europei erano in grado di organizzare i propri più o meno grandi eserciti e offrire i propri servigi ad altri signori europei in cambio di un compenso e la promessa di poter saccheggiare e depredare villaggi lungo la loro strada. Molti nobili si erano arricchiti in questo modo, è questo il caso di Albrecht von Wallenstein, il cui esercito giocò un ruolo fondamentale durante la fase danese della guerra dei trent’anni e i numerosi successi in Danimarca gli conferirono ricchezza, potere e prestigio tali da poter competere direttamente con la casa d’Asburgo e questo portò molto probabilmente alla sua morte, Wallenstein infatti fu assassinato dopo un importante battaglia durante la fase Svedese della guerra.

L’esempio di Wallenstein è fondamentale e ci fa capire perché, dopo la guerra dei trent’anni i reali europei decisero di riformare i propri eserciti, o meglio, decisero di istituire i propri eserciti nazionali, fedeli alla corona e soprattutto permanenti.
I motivi sono semplici da individuare, in primis la presenza di un esercito regio permanenti riduce notevolmente il potere dei vari signori della guerra, inoltre, la progressiva scomparsa di questi eserciti “feudali” temporanei, riduceva notevolmente il numero di saccheggi che si verificavano in tempo di pace, poiché appunto, non esistendo più eserciti temporanei, alla fine della guerra questi non avrebbero ripiegato le proprie forze su villaggi indifesi in cerca di facili bottini.

 

 

TRIUMVIRATO – Quando un accordo privato decide le sorti di una repubblica

Come certamente saprete il Primo Triumvirato tra Gaio Giulio Cesare, Marco Licinio Crasso, e Gneo Pompeo Magno nel 60 a.c. è stato un accordo privato e non ufficiale che avrebbe permesso a tre uomini politici di ottenere enormi poteri e privilegi.
Ma come è stato possibile, nella perfezione della Repubblica di Roma, che tre uomini, tre privati cittadini, grazie ad un accordo privato, siano riusciti ad ottenere il controllo totale della repubblica e delle sue istituzioni?

Per dirlo in breve, questi tre uomini erano tutti e tre uomini politici che avevano seguito il lungo iter della politica romana del tempo e con questo accordo non ufficiale decisero di allearsi politicamente e di appoggiarsi a vicenda nelle elezioni per le varie magistrature, potremmo definirla come una sorta di archetipo di una moderna alleanza non ufficiale tra partiti politici.

Per fare un esempio contemporaneo e di attualità, chiamo in causa tre leader di partiti politici a caso, ai fini dell’esempio i nomi non sono importanti. Queste tre personalità politiche si incontrano privatamente in una località esterna ai luoghi della politica. quale può essere un resort di lusso, una sagra di paese o una residenza privata e durante l’incontro o gli incontri vengono definiti gli aspetti principali del loro accordo con cui, restando elasticamente fedeli alla propria linea politica e restando politicamente separati, in quanto candidati in partiti differenti che tuttavia corrono in un unica lista e, al momento delle elezioni, facendo confluire i voti raccolti dai singoli partiti nell’unica lista comune, riescono ad ottenere o a far ottenere almeno ad uno dei tre, un importante incarico politico.

Questo tipo di accordi oggi è ufficialmente riconosciuto e consentito, ma nella prima metà del primo secolo A.C. non era propriamente ufficiale come pratica, se bene fosse abbastanza comune che vari uomini politici si accordassero privatamente per il conseguimento di una data magistratura. Il discorso sarebbe cambiato leggermente con il secondo triumvirato, ma questo è un altro discorso.

Tornando al primo Triumvirato, prima di allearsi tra loro Cesare, Crasso e Pompeo avevano già ricoperto diverse magistrature “inferiori” grazie alle quali erano riusciti ad ottenere in alcuni casi incarichi militari più o meno importanti, con tutti i privilegi che ne derivano e questo non è un elemento di poco, anzi, direi che è fondamentale per spiegare le ragioni del potere di questi tre uomini.

L’aver ricoperto incarichi militari in questo dato momento storico è molti importante, perché siamo in una Roma post riforma dell’ordine militare di Gaio Mario, una riforma che rese l’esercito da volontario a professionistico e mercenario, in pratica i soldati iniziavano la carriera militare in primis per la garanzia del soldum (fondamentalmente un salario) e poi per l’onore e la patria, ma quando l’alternativa è la fame, l’onore e la patria passano in secondo piano. Questa trasformazione dell’esercito ha importantissime conseguenze politiche e sociali che avrebbero trasformato radicalmente il volto di roma ed avrebbe portato soprattutto ai comandanti militari un grande, enorme potere politico.

Il potere derivato da un comando militare era dovuto a diversi fattori riducibili per lo più al forte legame che intercorre tra i comandanti ed i propri soldati. Questo legame non è ovviamente un esclusiva dell’esercito romano, anzi, è un qualcosa che ha caratterizzato e caratterizza tutt’oggi qualsiasi organismo militare e questo legame è particolarmente forte quando i comandanti vivono sul campo insieme ai propri soldati e ancora di più quando sono i comandanti a pagare i propri soldati. Certo, la paga dei soldati era versata dalle casse di Roma e non dalla tasca del comandante, ma quando sei sul campo, impegnato in lunghe marce che durano mesi e mesi, oltre i confini, in una terra selvaggia e ostile, contro un nemico invisibile e in un epoca in cui non esiste il diritto internazionale, e che non lo fai un saccheggio al villaggio/città nemica più vicino? non lasci stuprare donne, uomini e bambini che vivono nei villaggi/città che stai saccheggiando ai tuoi soldati? Non prendiamoci in giro, certo che lo fai.
Garantire ai propri soldati questo genere di “privilegi”, e di “libertà” che rendevano meno faticosa la vita militare e inoltre permetteva ai soldati di arrotondare il salario, è una pratica barbarica oggi ampiamente condannata che tuttavia è sopravvissuta almeno fino all’ultimo conflitto mondiale e storicamente si è sempre tradotta, quasi automaticamente in un rafforzamento del già forte legame tra i comandanti ed i soldati sotto al loro comando. Questo legame, questa fedeltà, si traduce a sua volta in peso e influenza politica, perché fondamentalmente i soldati, rappresentano la spada dello stato, inoltre, in epoca romana i soldati votano e il voto dei soldati è in questo momento un voto privilegiato per ragioni che vedremo più in avanti, inoltre anche le loro famiglie votano e il soldato vota il proprio comandante, vota l’uomo con cui ha versato fiumi di sangue e con cui ha rischiato la vita, vota l’uomo che lo ha reso, non dico ricco, ma gli ha permesso di avere una casa dignitosa e magari anche con un pezzo di terra da coltivare.
A tutto questo va aggiunto anche che, soprattutto Cesare, ma anche Crasso e Pompeo, godevano di un enorme e crescente consenso popolare, questo consenso era dovuto al fatto che i tre erano percepiti come “uomini nuovi” della politica romana, fondamentalmente perché politicamente legati a quelli che possiamo considerare, in maniera molto anacronistica, dei partiti populisti che de facto prendevano le distanze dalla vecchia politica, dalle vecchie caste e dalla tradizionale aristocrazia romana, proponendo al contrario riforme, innovazioni e una nuova classe dirigente per Roma che veniva direttamente dal popolo.

Cesare, Crasso e Pompeo sono quindi uomini nuovi che possono godere della fedeltà dell’esercito e  l’esercito, nella politica romana, è sempre stato un interlocutore privilegiato per diversi fattori, in primis perché durante la fase espansionistica l’esercito rappresenta il principale motore economico e sociale per uno stato, e nel primo secolo a.c. Roma è nel vivo della propria fase espansionistica. Se da un lato l’esercito rappresenta la principale spesa per la Repubblica, perché mantenere un esercito permanente così grande costa tanto, è anche vero che le nuove conquiste territoriali che avrebbero portato Roma ad estendere, in questo periodo, il proprio potere sull’intero bacino del mediterraneo, hanno l’effetto di portare sotto il controllo di Roma nuove terre e ingenti ricchezze e fondamentalmente l’esercito non solo si ripaga da solo con le proprie conquiste territoriali, ma il surplus di ricchezza e terra si traduce in un importante introito a vantaggio di tutta Roma.
Procedendo con un altro esempio contemporaneo, potremmo sostituire l’esercito romano con un interlocutore privilegiato della nostra epoca, ovvero le grandi aziende nazionali e multinazionali. In un epoca in cui non c’è più nulla da conquistare sul pianeta e l’economia è diventata più astratta e meno legata alla terra, non è più la conquista geografica a garantire un canale privilegiato con la politica, ma il fatturato e per via delle loro enormi entrate economiche, le grandi aziende e corporazioni da un lato, ed i sindacati dall’altro sono diventate de facto alcuni dei principali interlocutore della politica.
Garantire ai soldati di epoca romana, libertà di stupro e saccheggio si traduce in epoca moderna nel garantire e tutelare i mercati nazionali con misure protezionistiche, si traduce nello strizzare un occhio al settore industriale promettendo misure meno rigide per quanto riguarda le emissioni inquinanti, la sicurezza dei propri lavoratori e l’evasione fiscale, ma anche, dall’altra parte, garanzie per il mantenimento di posti di lavoro e per maggiori tutele in campo di sicurezza sul lavoro.

L’insieme di un crescente consenso popolare dovuto allo scontento per l’inadeguatezza della vecchia classe politica e l’appoggio di importanti interlocutori privilegiati e di mille altri fattori, si traduce in un enorme influenza e peso politico che de facto avrebbe dato a Cesare, Crasso e Pompeo il potere di poter decidere insieme le sorti di Roma, alleandosi e formando quello che sarebbe passato alla storia come il primo Triumvirato.

Museo dell’erotismo di Parigi

Forse non tutti sanno che a Parigi esisteva un museo dell’erotismo.
Questo museo a differenza del Louvre si trovava in un luogo oscuro e nascosto, ed era molto difficile da raggiungere, ma i nostri collaboratori sono riusciti in un impresa degna di Roberto Giacobbo e sono stati lì, dove nessun blog di storia è mai stato prima, o forse ci sono stati ma hanno preferito non parlarne.

Al di la di facili battute questo museo era un luogo davvero affascinante e interessante, soprattutto per chi è interessato a scoprire i segreti della sessualità nel mondo antico.

eh si, i nostri collaboratori hanno gusti un po strani, meglio non fare troppe domande, comunque, quando mi hanno parlato di questo luogo, hanno subito catturato il mio interesse ma non so bene per quale motivo, alla fine ho deciso di non pubblicare nessun articolo o video, almeno fino a questo momento.

Intanto vi do qualche informazione storica sul museo. 
Il museo è stato aperto nel 1997 all’interno di un edificio di cinque piani, e pensate un po, li occupava tutti. Praticamente il sexy shop storico più grande del mondo, ma purtroppo noi, il museo ha chiuso i battenti dopo circa 19 anni di onorato servizio, nel novembre del 2016. Ad ogni modo, solo per amor di cronaca, il museo si trovava a questo indirizzo 72 Boulevard de Clichy, 75018 Paris, Francia.

Allego a questo post due immagini, quella dell’entrata principale e quella di una sorta di locandina che mostra la disposizione dei piani e un indicazione sommaria delle esposizioni.

Al suo interno erano raccolte centinaia e centinaia, di reperti archeologici, storici, ma anche documenti e opere d’arte che sono in qualche modo legati alla sessualità e l’erotismo nel mondo antico (e non).

Per dirla più semplicemente, la collezione del museo spaziava dall’antica arte religiosa indiana, giapponese e africana fino ad arrivare all’arte contemporanea con un focus erotico. Il tutto dislocato su cinque piani oltre ad un’esposizione nel seminterrato (quindi in realtà i piani occupati erano 5 e mezzo).

Un piano era dedicato alle case chiuse, i bordelli legali del 19 ° e 20 ° secolo e in galleria veniva proiettato il film “Polisson et galipettes” (un film documentario del 2002, realizzato con alcune clip dei film erotici muti, realizzati tra il 1905 e il 1930, insomma, un documentario sulla pornografia di inizio secolo). Il museo ospitava anche una collezione di cortometraggi pornografici precedentemente esposti nelle maisons closes (case chiuse). 
Vi erano poi due piani destinati a mostre rotanti, generalmente esposizioni di artisti contemporanei.

Da quanto mi è stato raccontato dai ragazzi, una delle gallerie più suggestive del museo consisteva nella collezione di ceramiche antiche, si tratta di una delle più grandi collezioni di ceramiche antiche con decorazioni erotiche al mondo, per farvi un idea del tipo di ceramiche potete provare a cercare su google “erotic clay roman” o “erotic clay greek” e ne troverete a centinaia, ma certamente non sarà la stessa cosa.

In fine, il museo ospitava una vastissima raccolta di “antichi sexy toys”? davvero non so come definire quegli oggetti particolari e a tratti inquietanti, molti di essi sembrano dei veri e propri oggetti di tortura più che oggetti di piacere, ma non stiamo a sindacalizzare sui gusti degli antichi, forse è meglio.

Mi è stato inoltre riferito che il museo, viene citato nel romanzo Merde Actually, il sequel di A Year in the Merde, perché visitato dal protagonista. E uso questa informazione totalmente superficiale per chiudere il post.

 

Ecco il secondo trailer di INDICTUS | La Terra è di Nessuno

Aspettando la web serie interattiva di Francesco Dinolfo

online su YouTube dal 18 gennaio 2018 

realizzata con il sostegno di Sicilia Film Commission

Martedì 12 dicembre scorso al Cinema Rouge et Noir di Palermo, è stata proiettata la versione cinematografica della web serie “Indictus | La Terra è di Nessuno” in anteprima. 

La serata è stata introdotta dalle parole di Alessandro Rais, Direttore della Sicilia Film Commission che ha sostenuto il progetto nell’ambito del programma “Sensi Contemporanei” – primo bando pubblicato in Italia da una amministrazione pubblica dedicato alla produzione di web serie per under35. 

In seguito all’intervento di Christian Torelli di Reverse Agency, associazione culturale torinese produttrice di “Indictus | La Terra è di Nessuno” insieme a IDA – Immagini D’Autore, e di Francesco Dinolfo, il regista, presentati da Salvo Toscano di Live Sicilia, 420 spettatori nella sala del cinema tutta sold out, un pubblico entusiasta composto da istituzioni, giornalisti, il cast, la crew creativa e curiosi ha assistito alla prima visione in assoluto di “Indictus | La Terra è di Nessuno”.

Un secondo trailer è stato pubblicato oggi, in attesa del 18.01.18, quando sul canaleYouTube Indictus verranno messi online i 7 episodi di ispirazione storica, liberamente tratta dal libro di Goffredo Malaterra che racconta la battaglia di Cerami del 1063, girata nei borghi delle Madonie tra maggio e giugno 2017, recitata in italiano da un cast prevalentemente siciliano, sottotitolata in inglese e arabo, opera prima narrativa di Francesco Dinolfo, regista siciliano under30. 

“Indictus | La Terra è di Nessuno” è una web serie interattiva in quanto l’utente durante ogni puntata avrà la possibilità di scoprire, in qualsiasi momento dello streaming, una pillola di “ciò che non è stato detto”, digressioni narrative chiamate appunto indictus.

La storia dei borghi delle Madonie come non è mai stata raccontata prima, scritta daMarianna Lo Pizzo  e ambientata nel medioevo alla corte di Ruggero d’Altavilla: tra duelli, inganni, tradimenti, panoramiche mozzafiato degli Appennini siciliani, corse a cavallo e un cast di giovanissimi e talentuosi attori, si tratteggiano personaggi oscuri e intriganti, la vicenda personale di Serlon, archetipo dell’uomo moderno alla ricerca della propria libertà e ponte tra le culture che oggi compongono l’ibridazione e la contaminazione dei popoli mediterranei.

Nell’anno in cui Palermo è Capitale Italiana della Cultura 2018 e in cui lo sguardo internazionale si focalizza proprio sulle terre siciliane, “Indictus | La Terra è di Nessuno”è l’opportunità di presentare una nuova immagine della Sicilia all’estero, un racconto epico leggendario che affonda le radici nella Storia meno nota e che si allontana nettamente dall’idea di una terra dilaniata dalla mafia, per restituire all’Isola il suo passato ricco di storia e di cultura. Il messaggio di integrazione sociale e coesistenza, importante per il momento storico e sociale che stiamo vivendo, è veicolato in “Indictus | La Terra è di Nessuno” dal linguaggio tecnologico utilizzato e dalla sinergia di maestranze artigiane siciliane.

Chi non può aspettare fino al 18.01.18 per vedere “Indictus | La Terra è di Nessuno” su YouTube, ha la possibilità di acquistare lo streaming fino al 17.01.18 sulla piattaforma CINEMAF al link https://goo.gl/3UXcPT