Sono laureato in storia contemporanea presso Unipi.
Su internet mi occupo di divulgazione, scrivo storie di storia, geopolitica, economia e tecnologia.
In copertina alcuni ebrei provenienti dai Paesi arabi in un campo di raccolta allestito in Israele. La foto risale al 1950, due anni dopo la fondazione dello Stato ebraico, nel quale affluirono molti profughi dai Paesi arabi (Jewish Agency for Israel)
La storia della rivalità tra Ebrei ed Arabi è una storia plurimillenaria che precede ampiamente la nascita di Israele, ed è una storia di cui abbiamo traccia già in testi del III secolo A.C. poi confluiti nella Bibbia, tra gli altri, nei libri dell’esodo e della genesi.
Si tratta di una storia che inizia con la stessa storia ebraica nel mondo cananeo, ed è una storia tutta “semitica”.
Siamo abituati ad utilizzare il termine “semitico” riferendoci al mondo ebraico, ma, va precisato che, gli ebrei sono una popolazione semitica, non l’unica popolazione semitica, anche le popolazioni cananee erano semitiche, così come lo erano assiri, babilonesi, etiopi, arabi ecc.
Sul piano linguistico, il gruppo delle lingue semitiche comprende per l’appunto il babilonese e l’assiro, l’ebraico e l’aramaico, l’arabo e l’etiopico, caratterizzate da un ricco consonantismo, ed indica le lingue parlate nel mondo antico e le loro derivate, tra la penisola arabica e l’Anatolia, e in termini prettamente “culturali” indica quelle civiltà e popolazioni che hanno abitato la regione prima della “contaminazione” ellenica e la conquista latina.
Insomma, persiani, arabi ed ebrei sono tre facce della stessa medaglia, evoluzioni diverse dello stesso seme semitico.
Questa premessa serve per inquadrare il discorso dell'”antisemitismo nel mondo arabo” che in realtà non vuol dire assolutamente nulla, poiché gli stessi arabi sono semitici, ma questa è un altra storia.
Questo post nasce come risposta ad un articolo del 2018, che negli ultimi giorni ha ricevuto numerose condivisioni. L’articolo è a firma di Paolo Mieli, in cui, lo storico e divulgatore presenta e racconta la persecuzione degli Ebrei nei paesi Arabi, prendendo le battute da un saggio di Georges Bensussan, promosso nel proprio editoriale, ma, andiamo con ordine.
Paolo Mieli è uno dei più popolari storici divulgatori italiani, controparte “di destra” del collega Barbero.
In questo suo editoriale pubblicato sul Corriere, racconta dell’Antisemitismo di matrice Islamica, partendo dal saggio dello storico francese Georges Bensoussan «Gli ebrei del mondo arabo» pubblicato in Italia nel 2018 dall’editore Giuntina. Questo articolo, anch’esso del 2018, e di cui l’editoriale è una promo. (non c’è nulla di male in ciò, anche io collaboro spesso con diversi editori per promuovere saggi storici di recente pubblicazione.
In questo caso però, al di la del fine promozionale, l’articolo di Mieli, soffre di molti problemi, figli di una narrazione (avvenuta nel libro) molto faziosa e non comparativa.
In breve, l’autore del saggio si sofferma sui punti di conflitto tra il mondo arabo/islamico e il mondo ebraico, indicando come fonte principale del conflitto l'”emancipazione del mondo ebraico rispetto al mondo arabo”.
Nel dire ciò, prima Bensoussan e poi Mieli, “dimenticano” troppo facilmente, un distinguo importante all’interno dello stesso mondo islamico. Per essere più precisi, dimenticano di citare i circa 1000 anni che corrono tra il V e il XV secolo, in cui, il mondo “islamico” viveva un livello di civiltà immensamente superiore a quello europeo occidentale, che, solo con il rinascimento, ha iniziato ad avvicinarsi ai livelli culturali del mondo arabo, mentre dall’altra parte, con l’avvento degli Ottomani, il mondo arabo iniziava la propria discesa e decaduta.
Senza troppi giri di parole, nel IX secolo, quando la più grande biblioteca europea contava migliaia di copie di qualche centinaio di testi diversi, tutti di matrice religiosa, nella più piccola delle grandi biblioteche arabe, quella di Cordova, vi erano collezionati oltre mezzo milioni di testi differenti, e nella più grande delle biblioteche arabe dell’epoca, la “dimora del sapere” di Baghdad, si stima, fossero conservati oltre 2 milioni di testi. Numeri che le biblioteche occidentali, ci dice Matthew Battles, nel proprio saggio sulla storia delle biblioteche “Biblioteche una storia inquieta” edito da Carocci nel 2004, sarebbero stati raggiunti e poi superati soltanto tra XVIII e XIX secolo.
Sappiamo anche che, nel XIV secolo, quando in Europa iniziò a diffondersi la “ricerca” di testi antichi, i primi filologi si ritrovarono di fronte al grande problema dei “testi palinsesti” ovvero delle pergamene antiche che erano state abrase, quindi cancellate e riutilizzate, e sappiamo che, fu solo grazie all’incontro tra studiosi occidentali e arabi che che i filologi poterono riscoprire gran parte dei testi della tradizione greca e latina che i copisti medievali, in Europa, avevano cancellato per far spazio a testi di matrice teologica e spirituale.
Questa parentesi, in un discorso storico sulle rivalità all’interno del mondo semitico tra “ebrei” ed “islamici”, se si indica l’emancipazione come fattore di scontro, non può essere ignorata, perché ci dice, in modo molto chiaro che, quando la supremazia culturale apparteneva al mondo islamico, c’era una fortissima tolleranza e rispetto per culture diverse da quella islamica, diversamente, quando la superiorità culturale si è spostata ad “occidente” sono iniziati i problemi, gli scontri, l’intolleranza e le persecuzioni.
Andando più in dietro, ai tempi delle crociate, ed è esemplare a tale proposito la terza crociata, in particolare la presa di Gerusalemme da parte delle forze del Saladino le quali, non saccheggiarono i luoghi sacri cristiani ed ebrei, e non fu fatto del male ai civili, diversamente, quando la città fu presa dai crociati, le moschee vennero saccheggiate ed i civili islamici vennero massacrati a migliaia.
Tutto questo, in un saggio storico che parla delle persecuzioni di ebrei nel mondo arabo, non può essere ignorato facendo partire la narrazione dal XVI secolo e ignorando tutto ciò che è successo prima, perhé, nel fare ciò, si va a creare una narrazione distorta e faziosa, piegata da logiche politiche e non finalizzata alla realtà storica.
Il saggio di Bensoussan commette in questo senso un terribile errore di analisi storica, ed è ancora più grave l’errore commesso da Paolo Mieli che, nel raccontare questo libro, asseconda le teorie dell’autore, senza evidenziarne i difetti e le lacune, senza dire che la narrazione è incompleta e faziosa, assecondandola e giustificandola.
I Signori della guerra afgani da oltre 3000 anni “trafficano” in oppio, ma per Saviano “i talebani sono i nuovi narcos” in un analisi errata ed eurocentrica che ignora 3 millenni di storia del medio oriente.
Per Saviano “I talebani sono i nuovi Narcos” , e, questa osservazione è terribilmente sbagliata, sotto molti punti di vista, ma, andiamo con ordine.
I talebani (o meglio, i signori della guerra afgani) trafficano oppio, armi ed esseri umani, da almeno 3000 anni (probabilmente anche di più, ma, dobbiamo fermarci a ciò che è attestato storicamente), praticamente l’hanno inventato loro il “Traffico di droga”, poi però, arriva un genio come Saviano che, ignorando circa 3000 e passa anni di storia del medio oriente e dei suoi scambi commerciali con l’occidente e se ne esce con “i talebani sono i nuovi Narcos”.
Ne abbiamo parlato proprio ieri su tipeee, il web è pieno di gente che parla di Talebani e Medio oriente, in modo eurocentrico, senza sapere un cazzo dell’Afghanistan e della sua storia, perché tanto, della realtà storica di quel paese di quell’angolo di mondo, in realtà, non frega nulla a nessuno, è molto più “conveniente” raccontare una versione romanzata e idealizzata (in positivo o negativo che sia) di cosa sta succedendo o si vuole far credere stia succedendo, così si “vende” meglio, così si guadagna di più.
Il problema però, è che facendo in questo modo si inonda il web (e non solo) di merda fumante eretta su un impalcatura di disinformazione e fake news che dipingono un angolo di mondo, molto caotico e complesso, in modo errato e profondamente diverso dalla realtà I talebani sono i nuovi Narcos perché trafficano in oppio? Non hanno cominciato ieri a trafficare oppio, lo trafficano letteralmente da millenni, definirli i nuovi “narcos” è un insulto alla loro storia, alla storia di quel paese e di quella parte di mondo.
Per Saviano il mondo talebano ruota attorno all’Oppio, i talebani? non sono “studiosi dell’islam” radicalizzati e armati, sono semplicemente dei narcos, interessati ai soldi.
Questa è una visione estremamente ridotta, limitata ed eurocentrica del mondo Talebano, che manca di diversi chilometri il punto della questione.
Forse una più profonda conoscenza del medio oriente avrebbe aiutato Saviano a produrre un analisi più veritiera.
L’Afghanistan, come è noto, è un area montuosa, non particolarmente fertile, popolata da pastori di capre e contadini, che, per secoli, ha vissuto l’occupazione straniera, e per secoli, i suoi abitanti hanno lottato e respinto gli stranieri, conquistando, per la regione, il nome di “tomba degli imperi”.
L’interesse geoplitico per quelle regioni, in passato era determinato dalle vie commerciali che collegavano oriente ed occidente, ma, da qualche decennio, grazie anche al canale di Suez, non è più così. Le merci in transito tra oriente e occidente, non si muovono più via terra, ma via mare, dunque, il contro della regione ha perso quel valore strategico che aveva fino al secolo scorso.
Quell’area montuosa, particolarmente ispida, non ha molto altro da offrire al mondo, se non un terreno particolarmente adatto alla coltivazione del papavero da oppio, che è coltivato lì da secoli, e da secoli è utilizzato dai signori della guerra locali per finanziare la propria lotta contro gli stranieri.
Per intenderci, quando gli afghani combattevano contro l’occupazione britannica, tenevano testa all’esercito dell’allora impero più grande del mondo, grazie ad una profonda conoscenza del territorio e grazie alle armi che potevano acquistare, o meglio scambiare, con i nemici della corona britannica, in cambio di oppio.
Lo stesso in epoca sovietica e in epoca americana e così via.
I proventi del commercio di oppio ed esseri umani, vengono utilizzati principalmente per l’acquisizione di armi che utilizzano per combattere contro altri gruppi talebani e contro occupanti stranieri.
Va da se che, il narcotraffico non è il fine dei vari gruppi talebani ma un mezzo per conseguire il proprio fine, e quel fine è il controllo dell’intera regione afgana.
Ragionare i Talebani in modo eurocentrico, come “nuovi narcos”, significa ribaltare la realtà storica dei talebani, anteponendo la causa all’effetto.
Per Saviano, detto molto semplicemente, i talebani vogliono controllare il paese per produrre più oppio e ottenere maggiore ricchezza e potere. Ma non è così, anzi, è l’esatto contrario, i Talebani, producono e vendono oppio per aumentare il proprio potere economico e controllare una fetta più ampia del paese, del proprio paese.
Ribaltando in questo modo il mondo talebano, ragionandoli come narcos, si produce una narrazione errata del mondo talebano, si produce una narrazione falsa e faziosa del mondo afgano e medio orientale, che viene subordinato a logiche occidentali che in vero non gli appartengono.
Ragionando i talebani come “nuovi narcos” si fa disinformazione, si alimentano e diffondono fake news, che non sono mai un bene.
Paolo Thaon di Revel fu un militare e politico italiano. Primo ed unico Grande Ammiraglio nella storia della marina militare italiana
Paolo Thaon di Revel (1859-1948) al secolo Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel, è stato uno dei grandi protagonisti della storia militare del regno d’Italia, fu infatti il primo, ed unico, uomo a ricevere, nel maggio del 1924 il titolo di Duca del mare ed è stato anche l’unico ammiraglio, in tutta la storia della marina italiana, monarchica e repubblicana, ad essere promosso al titolo onorifico di Grande Ammiraglio nel novembre del 1924.
Il motivo per cui Paolo Thaon di Revel nel 1924 ottenne queste onorificenze è principalmente politico, l’Italia, più precisamente l’Italia fascista, stava cercando di costruire una propria “mitologia” legata alla prima guerra mondiale, concedendo onorificenze e riconoscimenti a coloro che, durante e dopo il conflitto, si erano distinti in modo particolare, e Paolo Thaon di Revel era, agli occhi dei fascisti, l’eroe che a Parigi si era battuto per il rispetto del patto di Londra, de facto un precursore della teoria della vittoria mutilata, ma a parte questo.
La grande guerra di Thaon di Revel
Quando inizia la grande guerra, nel 1915 Thaon di Revel era capo di stato maggiore, tuttavia, in seguito a diverse controversie con l’allora comandante in capo dell’armata, il vice ammiraglio Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi, Thaon di Revel rassegnò le proprie dimissioni al re Vittorio Emanele III al quale sembra si presentò con le seguenti parole
«Maestà devo combattere e guardarmi dagli austriaci, dagli Alleati e dagli ammiragli italiani. Le assicuro che i primi mi danno meno da fare degli altri due».
Non più capo di stato maggiore, Revel ottenne la nomina di comandante in capo del dipartimento militare marittimo di Venezia, dove, con grande lungimiranza, promosse l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie belliche, come treni armati e motoscafi armati siluranti, più noti come MAS, praticamente dei mezzi d’incursione marittima, molto agili e veloci. Fu inoltre un grande sostenitore della teoria della supremazia dell’aria, promuovendo il potenziamento dell’aviazione nautica, precursore dell’aereonautica militare italiana.
Questo è un treno armato
Finita la guerra Revel partecipa, insieme al ministro degli esteri Sonnino, in qualità di delegato navale, alla conferenza di Parigi, dove difese i “diritti italiani sulla Dalmazia” e chiese il rispetto del Patto di Londra. La sua battaglia politica a Parigi fu molto apprezzata dai futuri sostenitori della teoria della vittoria mutilata.
Dal ministero della guerra alle controversie con Mussolini
Nel 1922 entrò a far parte del primo governo Mussolini, come Ministro della regia Marina e, insieme al generale Pietro Armando Diaz(Ministro della guerra) e di Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, in quel momento, Sottosegretario al Ministero dell’Industria e del Commercio, rappresentava uno degli uomini di fiducia del Re nel “primo governo nazionale”.
Durante il proprio mandato da ministro, Revel promosse la costruzione di due velieri da utilizzare come nave scuola, la Cristoforo Colombo e la Amerigo Vespucci, la prima venne ceduta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, all’Unione Sovietica come parte dei pagamenti bellici, la seconda invece è ancora in servizio come nave scuola per la Marina militare italiana.
Revel era uomo di mistica fede monarchica, discendente di un’antica famiglia nobiliare molto vicina alla casa sabauda, e, sul piano politico, la propria fede nella monarchia non cessò mai di esistere, neanche di fronte ai tentativi di persuasione di Mussolini, con il quale, durante il proprio mandato di Ministro della Marina, si scontrò in diverse occasioni, al punto che, nel maggio del 1925, di fronte all’ennesima controversia, non condividendo la riforma dell’ordinamento militare che istituiva un comando supremo di tutte le forze armate, de facto subordinava la Marina all’esercito, Revel, che da tempo chiedeva un sistema di coordinamento delle forze armate, rassegnò nuovamente le proprie dimissioni dal ruolo di capo di stato maggiore.
Revel, un eroe “antifascista” del fascismo.
Durante la seconda guerra mondiale Revel partecipò come uomo di fiducia del Re agli incontri settimanali che si tenevano ogni giovedì al Quirinale, tuttavia sembra che non venne coinvolto direttamente nei negoziati per l’Armistizio probabilmente perché ormai già molto anziano.
Anche se per la propaganda mussoliniana Revel era un “eroe del fascismo” , quando Mussolini, tradì il re e promosse una secessione italiana fondando la RSI, Thaon di Revel rimase fedele alla casa reale rifiutando di aderire alla RSI. La sua inesauribile fede nella monarchia venne “premiata” con la nomina, a presidente del senato e successivamente entrò, in seguito all’abdicazione di Vittorio Emanuele III, entrò a far parte della cerchia ristretta di consiglieri di re Umberto II.
In vista del referendum del giugno del 46, Revel si schierò, per ovvie ragioni, a favore del blocco monarchico, successivamente, con l’avvento della repubblica, Paolo Thaon di Revel si ritirò a vita privata, per poi morire nel 1948 alla veneranda età di 89 anni.
Qualche informazione sulla famiglia Thaon di Revel
La storia di Paolo Thaon di Revel rappresenta solo l’ultimo capitolo della storia di una delle antiche famiglie nobiliari italiane, una famiglia che ha giocato un ruolo importantissimo nella storia italiana, nella storia del regno d’Italia e soprattutto, nella storia della dinastia Sabauda.
Fin dal loro arrivo in Piemonte, avvenuto nel XV secolo, i Thaon, poi Thaon di Revel al seguito della nomina sabauda a signori di Revel, hanno sempre guardato le spalle ai Savoia, furono proprio loro ad elevare i Thaon, da signori della guerra a capo di una compagnia di ventura, al rango nobiliare, prima come signori di Revel e poi come Marchesi, Conti e Duchi.
Per secoli i Revel sono stati dei fedeli servitori e protettori della dinastia sabauda, una piccola ma tenace casa nobiliare italo francese e la loro vicinanza alla casa di Savoia proiettò i Thaon di Revel nel vivo del risorgimento italiano. Ottavio Thaon di Revel, padre di Paolo Thaon di Revel, fu uno dei più stretti collaboratori e consiglieri di Carlo Alberto di Savoia, fu deputato del regno di sardegna ininterrottamente tra la prima e la sesta legislatura e fu senatore del regno d’Italia, inoltre, nel 1848 fu Ministro delle finanze del regno di Sardegna, sotto i tre governi Bolbo, Alfieri di Sostegno e San Martino che si susseguirono in quell’anno, ma non solo. Sempre nel 1848, Ottavio Thaon di Revel, fu cofirmatario dello Statuto Albertino, la prima “costituzione” italiana, rimasta in vigore fino all’entrata in vigore della costituzione repubblicana.
Per il vaticano il DDL ZAN viola il concordato richiedendo di conseguenza all’Italia di modificare la legge affinché si rispettino i termini del concordato del 1984. Il problema è che questa richiesta viola la costituzione italiana ed diritto internazionale, configurandosi de facto come una richiesta illegittima, ed un interferenza nella politica interna di un paese estero, cosa che, non serve lo dica, è illegittima e costituisce uno dei pochissimi “causus belli” legittimi, de facto l’Italia, di fronte a queste interferenze potrebbe decidere di dichiarare guerra al vaticano, cosa che non può fare per via dell’articolo 11 della costituzione, ma questa è un altra storia.
Torniamo al DDL Zan e al concordato e cerchiamo di capire quanto c’è di legittimo e di illegittimo nelle rivendicazioni dello stato del Vaticano.
Due parole sul concordato.
Correva l’anno 1984, il mondo assisteva allo spot diretto da Ridley Scott per la presentazione del nuovo Macintosh, e intanto, in Italia, il presidente del consiglio italiano, Bettino Craxi ed il segretario di stato del Vaticano, Agostino Casaroli, firmavano l’accordo per la variazione del concordato che regolamentava i rapporti religiosi tra Italia e chiesa cattolica.
La variazione dell’84 è una delle più grandi variazioni di quel trattato, realizzato originariamente tra l’Italia fascista e l’Impero pontificio, nel lontano 1929, dal duce Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri.
Questa modifica serviva a sanare una frattura tra l’Italia repubblicana e lo stato vaticano, relativo al ruolo della religione cristiana che, secondo i patti lateranensi, doveva essere in Italia “religione di stato”, ma, la repubblica Italiana, agli articoli 3, 19 e 20, stabilisce che la repubblica non può e non deve avere una “religione di stato”.
Più precisamente l’articolo 19 dichiara che
“tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume [cfr. artt.8, 20]”,
mentre l’articolo 20 dichiara che
“il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività [cfr. artt. 8, 19]”.
Il vaticano chiede di modificare la legge Zan per rispettare il concordato. Può farlo?
Di recente, lo stato Vaticano, ha puntato il dito contro il DDL Zan, asserendo che questi violasse il concordato, chiedendo, pertanto, di modificare la legge.
C’è però un problema in questa richiesta, in realtà più di uno.
Il primo problema è di carattere giuridico, si tratta di un interferenza straniera nella produzione normativa di un paese, questo, per il diritto internazionale, è illegale e per assurdo, costituisce un “causus belli” legittimo, certo, l’Italia non dichiarerà guerra al vaticano, ci mancherebbe, anche perché l’articolo 11 della costituzione lo impedisce, ma comunque, ciò non toglie che la richiesta del vaticano sia quantomeno illegittima.
Il secondo problema, ed è quello più importante, la richiesta del vaticano si scontra direttamente con l’articolo 20 della costituzione.
Articolo che ripetiamo, stabilisce che nessuna “religione o culto” possa esercitare limitazioni legislative.
In altri termini, modificare una legge, per assecondare una religione, e, il concordato riguarda i rapporti tra l’Italia e la religione cattolica, è incostituzionale.
La richiesta del vaticano dunque, arriva come una richiesta “religiosa” e dunque priva di valore sul piano normativo, o come la richiesta di uno stato estero, e dunque illegale sul piano del diritto internazionale?
E, a proposito di diritto internazionale, l’articolo 55 dello statuto dell’ONU, massimo ente di diritto internazionale, di cui l’Italia fa parte e il vaticano ne riconosce l’autorità giuridica, pur non essendo membro, ma semplice osservatore permanente, dichiara che
“Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell autodecisione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno:
a. un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della manodopera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale;
b. la soluzione dei problemi internazionali economici, sociali, sanitari e simili, e la collaborazione internazionale culturale ed educativa;
c. il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.”
Più semplicemente l’articolo 55 dello statuto dell’ONU dice che, in caso di tensioni tra stati, bisogna puntare ad una risoluzione facendo valere valere i “diritti dell’uomo e le libertà fondamentali”, in altri ciò significa che, se ci sono tensioni di carattere giuridico, tra due stati, quali possono essere in questo caso l’Italia e il Vaticano, la risoluzione al problema va ricercata nel rispetto delle libertà e dei diritti e, siccome il ddl zan promuove la tutela dei diritti e persegue chi viola quei diritti fondamentali, e il vaticano si oppone a questa legge, l’ONU, de facto, autorizza giuridicamente l’Italia a procedere con la produzione della legge ZAN, indipendentemente da ciò che è scritto nei concordati e, se questo dovesse essere un problema per il Vaticano, l’Italia ha, grazie allo statuto dell’ONU e alla propria costituzione, il diritto, oserei dire, il dovere, di stracciare il concordato, mettendo così fine ai finanziamenti e agli sgravi fiscali dell’Italia al Vaticano e alla chiesa cattolica.
Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.
Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.
Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?
Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.
Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.
Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?
La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.
Distribuzione demografica in età romana
Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.
Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.
Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.
Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.
Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana. A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.
Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?
Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.
Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.
Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle. Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.
Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.
Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.
Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.
Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.
Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.
Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.
Microsoft ha annunciato il successore di Windows 10, nome in codice, Sun Valley. Il nuovo Sistema Operativo verrà presentato ufficialmente il 24 giugno.
La notizia di un nuovo sistema operativo targato microsoft era già trapelata qualche settimana fa quando Microsoft, annunciando il Windows event di Giugno, ha anticipato che avrebbe annunciato il successore di Windows 10, precisando che non sarebbe stato Windows 10x.
E alla fine il grande giorno è arrivato, Microsoft ha reso noto il progetto Sun Valley, nome in codice del nuovo sistema operativo il cuo nome ufficiale non è ancora formalizzato ma potrebbe chiamarsi realmente Windows Sun Valley, ed ha annunciato la data di fine supporto a windows 10, prevista per il 14 ottobre 2025.
La notizia del nuovo OS è stata un vero e proprio fulmine a ciel sereno, nel giro di poche settimane Microsoft ha fatto un passo importante, ha prima dichiarato che ci sarebbe stato un successore a windows 10, per anni professato dalla casa di redmond come l’ultimo sistema operativo, l’OS definitivo, che sarebbe stato aggiornato vita natural durante.
Come mai quindi Microsoft ha deciso di tornare sui propri passi e presentare un nuovo sistema operativo?
Una risposta ufficiale non l’abbiamo ma possiamo provare ad intuire leggendo tra le righe delle poche informazioni che ci sono state fornite sul nuovo OS, che da qui in avanti chiameremo con il suo codename Sun Valley, in attesa delle specifiche che verranno rese note il 24 giugno.
La prima cosa che possiamo intuire è che Sun Valley (WSV) sarà profondamente diverso da Windows 10, se così non fosse, la Microsoft non avrebbe messo in piedi un nuovo OS. Possiamo quindi aspettarci, oltre a significative modifiche nell’impianto d’uso, anche a livello di “kernel”, e qui entra in gioco una teoria (puramente speculativa) molto interessante.
N.B. Il Kernel è la parte del sistema operativo che distribuisce le risorse.
Con Windows 10, Microsoft ha provato, fin dal 2016, prima con Windows Subsystem for Linux e poi con Windows Subsystem for Linux 2, ad integrare nel proprio sistema operativo un kernel ed una Shell linux complete, limitandosi ad una virtualizzazione dell’ambiente linux legata all’impianto di windows 10 e, nonostante ciò, con WSL2 Microsoft è riuscita a raggiungere un importante livello di integrazione, permettendo alla Shell linux di interagire direttamente e nativamente con il file system di windows 10.
Credo, o forse spero, che la direzione di Microsoft sia una maggiore integrazione, con un sistema operativo più “aperto” che sia un punto di incontro tra il vecchio mondo windows e l’universo linux.
Forse la mia è solo un utopia, ma non vedo altra spiegazione, Windows Sun Valley è nato per la necessità di superare un ostacolo impossibile da superare con Windows 10, e quell’ostacolo, a mio avviso, era nell’integrazione con Linux.
Un suggerimento in questo senso ci arriva dal 2019, quando, alla presentazione di WSL2, Microsoft dichiarò di essere già a lavoro per permettere una maggiore integrazione, lasciando intuire che in futuro sarebbe stato, forse, possibile installare oltre a gestori file alternativi, anche un ambiente grafico alternativo al classico DE Windows, che, fin dalle primissime versioni di Windows, diversamente dai sistemi UNIX, è parte integrante del sistema operativo.
Un cambio di rotta di questo tipo sarebbe un qualcosa di epocale, e Windows Sun Valley sembra promettere un cambiamento epocale nella storia di Microsoft.
Non sappiamo quanto incisivo sarà questo cambiamento, del resto, il nuovo OS sembra chiamarsi “Windows Sun Valley” e non “Sun Valley”, ciò lascia supporre che il DE Windows, rimarrà, ma non sappiamo se sarà “statico” come lo è sempre stato o se invece, per la prima volta nella storia di Microsoft, diventerà una componente opzionale, e dunque, sostituibile.
Il cambiamento è nell’aria, lo intuiamo dalla nomenclatura, dalla denominazione, non più numerica, come osservano Windows Latest e Bleeping Computer, secondo i quali, Microsoft sarebbe intenzionata ad adottare uno schema di denominazione in stile MacOS, utilizzando dei luoghi anziché dei numeri o lettere.
Timeline e nomenclatura dei sistemi operativi Microsoft da MS-Dos a Windows 10
Questa teoria lascia un po’ il tempo che trova visto che comunque, non è la prima volta che Microsoft non usa dei numeri per i propri OS, e anzi, due dei sistemi più famosi della casa di redmond sono proprio Windows XP, ancora oggi uno dei sistemi operativi più usati al mondo, nonostante il supporto sia terminato da qualche anno, e Windows Vista, noto per essere il più grande flop della storia di Microsoft, un sistema operativo rilasciato prematuramente, incompleto e problematico.
Giocando con il passato, possiamo osservare che Windows 10 è stato un degno erede di Windows XP, speriamo quindi che il nuovo os non sia in un Vista 2.0.
Tornando alle speculazioni, sappiamo che da qualche anno, con Windows 10, Microsoft sta puntando alla creazione di un “sistema unificato” per PC, Tablet e Console, nell’ottica di un vero e proprio ecosistema microsoft, è quindi probabile che Sun Valley sia nato per fare un ulteriore passo in questa direzione.
Se è così, e spero sia così, la teoria della maggiore integrazione nativa con Linux e l’avvicinamento al mondo Unix, non sia poi così folle o utopica. Già solo svincolando l’OS dal proprio desktop environment e file system, si farebbe un enorme, importantissimo passo, fino ad ora precluso, verso la realizzazione di un vero sistema unificato e totalmente multipiattaforma, con enormi vantaggi per l’utenza.
Che il nuovo OS Microsoft abbia grandi ambizioni ci viene suggerito dal nome, Sun Valley, la valle del sole, che già in questi termini ha una propria solennità, ma Sun Valley è anche una località dell’Idaho che è stata sulla luna. Si racconta infatti che Jim Irwin, astronauta della missione Apollo 15, quando nel 1971, calpestò la superficie lunare dell’Hadley–Apennine, esclamò che era come “Sun Valley”.
Ma è anche, come anticipato, un richiamo alla nomenclatura dei sistemi apple, e questo lascia supporre che Microsoft, finalmente, abbia deciso di realizzare un sistema più “semplice” ed “intuitivo” all’uso. Windows purtroppo non è mai stato un sistema intuitivo, anzi, è stato sempre molto controintuitivo, basti pensare che Windows Vista, nei suoi 1000 difetti, ha il grande merito di aver risolto uno dei più grandi problemi di Windows, la sua barra di avvio “start” dalla quale bisognava passare per spegnere il pc, e non prendiamoci in giro, cliccare su “start” o su “avvio” per “avviare il programma di spegnimento” non solo non è intuitivo, ma non ha proprio alcun senso.
Detto ciò, dubito che Windows Sun Valley avrà un comparto grafico nativo troppo diverso da quello di Windows 10, avrà, a mio avviso, un DE molto leggero e minimale, molto personalizzabile, e spero sostituibile (ti prego Microsoft, rendimi un bimbo felice, fammi installare Gnome su Windows).
In ogni caso, non ci resta che aspettare il 24 Giugno per sapere di più sul nuovo sistema operativo targato Microsoft, che, nelle premesse, sembra essere forse troppo bello per essere vero. Mi sa che ho aspettative troppo alte.
Ieri (16 maggio 2021) si è tenuta una riunione straordinaria del consiglio di sicurezza delle nazioni unite, per discutere e prendere una posizione a livello internazionale, sulla questione palestinese e decidere se e come intervenire. Spoiler, l’ONU ha scelto di non intervenire.
Come ipotizzavo, l’ONU sceglie di non intervenire concretamente nel conflitto tra lo stato di Israele e lo stato di Palestina. La riunione di ieri del consiglio di sicurezza si è chiusa con un “appello”, non una risoluzione, non un ultimatum ma, un “appello”. L’appello è “basta colpire civili”… e grazie al cazzo.
L’ONU chiede cortesemente, ma senza pretesa di disturbare, che le due parti cessino gli attacchi (da entrambe le parti), ma se non lo faranno, la riunione di ieri non ha previsto “conseguenze”.
“Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.”
L’articolo 41 dice che.
“Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche.”
L’articolo 42 dice che se le misure previste dall’articolo 41 sono ritenute dal CdS non sufficienti, si può procedere con un intervento militare.
“Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite. “
In altri termini, l’ONU, accertata la violazione della pace (stato bellico), oltre ad invitare alla pace, dovrebbe, in teoria, procedere con un embargo, parziale o totale, a seconda della gravità, nei confronti dell’aggressore e, se queste misure non dovessero dare esito positivo, allora, e solo allora, l’ONU può richiedere la formazione di una coalizione internazionale, per coordinare un intervento militare e pacificare la regione.
Il CdS però, non ha richiesto questo, non ha richiesto l’interruzione delle relazioni economiche tra i paesi membri dell’ONU e l’una o l’altra parte coinvolta, limitandosi a richiedere, senza troppe pretese, un cessate il fuoco. Richiesta che assume toni molto ambigui, poiché da un lato condanna apertamente i raid palestinesi contro Israele, dall’altra fa presente che le vittime civili (192 morti, di cui 58 bambini) sono palestinesi, vittime della risposta Israeliana ai raid. Raid che, la stessa ONU colloca in territorio palestinese poiché Gaza non fa parte dello stato di Israele, dunque c’è un accenno di rimprovero allo stato di Israele, ma si ferma lì.
La riunione ha visto i membri del CdS divisi, da un lato USA e UK condannavano Hamas, dall’altra Russia e Cina, appellandosi allo stesso statuto dell’ONU e richiamando la risoluzione 67/19 del 2012, che riconosce lo Stato di Palestina, condannava l’occupazione Israeliana.
Su Hamas va aperta la solita parentesi, gli USA considerano Hamas un organizzazione terroristica, mentre la Cina ritiene Hamas un organizzazione politica legittima. Il diritto internazionale a tal proposito, espresso attraverso la corte di giustizia dell’Unione Europea, la Corte di giustizia internazionale e la corte penale internazionale, non ritengono Hamas un organizzazione terroristica e, dal 2014 hanno richiesto di Rimuoverla dalla lista delle organizzazioni terroristiche.
Tornando alla riunione del CdS ieri, la Francia ha assunto una posizione di neutralità, non si è quindi schierata con Israele o Palestina.
Gli stessi schieramenti, a favore di Palestina e Israele sono emersi anche tra i membri non permanenti, attualmente Kenya, India, Irlanda, Messico e Norvegia, portando de facto il consiglio ad uno stallo.
Non ci sarà quindi alcun intervento reale da parte dell’ONU e l’unica proposta “concreta” è arrivata dalla Cina che si è offerta di Mediare tra i due paesi.
Sulla Cina andrebbe aperta un altra parentesi. La Cina, vive al proprio interno diverse situazioni analoghe a quella della striscia di gaza, e a quelle situazioni, vedi Tibet ed Hong Kong, è solita rispondere esattamente come Israele, tuttavia, la Cina sembra essere in questo caso specifico dalla parte della Palestina e di Hamas, schieramento che trova ragione non tanto nella questione palestinese, quanto nello scontro politico con gli USA che invece appoggiano apertamente Israele. Tutto ciò ricorda enormemente la Berlino degli anni della guerra fredda, con una città (Gerusalemme) capitale di due diversi stati (Israele e Palestina) che, alle proprie spalle hanno due “superpotenze”, USA e Cina.
Nel mezzo, la posizione Europea, che potrebbe rappresentare il vettore della pace e, sul modello francese, andare verso una pace tout court, senza schierarsi dall’una o dall’altra parte, la decisione sulla posizione dell’UE arriverà nei prossimi giorni, al seguito di una riunione straordinaria del Consiglio Europeo, speriamo solo che l’appartenenza alla NATO e l’alleanza con gli USA dei principali paesi dell’unione, non si traduca in un appoggio incondizionato alle rivendicazioni Israeliane che, ricordiamo ancora una volta, violano in più punti lo statuto dell’ONU.
Ricordiamo fine che, a chiedere insistentemente l’intervento dell’ONU, non è Israele, ma lo stato di Palestina. Hamas infatti ritiene che la propria guerra sia giusta (nel senso di legale/legittima) perché si configura come una “guerra di liberazione” dall’occupazione straniera e questo, per l’ONU, in teoria, è l’unico Causus Belli legittimo.
Gladiatori e schiavi nell’antica Roma. Anche se i gladiatori erano Schiavi, le loro condizioni di vita e il loro status sociale e giuridico era diverso da quello degli schiavi comuni.
I gladiatori erano uno schiavi? Si, No, forse, più o meno?
La risposta a questa domanda sta non solo nel diritto romano ma anche nel concetto romano di schiavo e nel suo inquadramento giuridico. A darci una prima bozza di risposta è Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis, in cui, tra le altre cose, ci parla ampiamente delle condizioni di vita e di lavoro di schiavi e gladiatori, distinguendo nettamente le due categorie, ma non solo, Plinio ci dice anche quali erano gli obblighi legali dei possidenti e proprietari di schiavi e gladiatori, distinguendo le due categorie.
Senza troppi giri di parole, lo schiavo in età romana, non è una proprietà, nel senso “moderno” del termine, lo schiavo romano è infatti profondamente diverso dallo schiavo “americano”, il proprietario ha degli obblighi e doveri nei confronti dello schiavo e soprattutto, non ha l’autorità o il potere di ucciderlo, causarne la morte o mettere la sua vita in pericolo. Questi stessi doveri che il padrone aveva nei confronti dello schiavo, non sempre erano previsti per i gladiatori, la cui vita, banalmente, era messa in pericolo quotidianamente.
Lo schiavo romano secondo Plinio e Catone
La condizione dello schiavo romano era molto particolare e, a tal proposito, Guido Bonelli, in un articolo pubblicato nel 1994 sulla rivista Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 48, No. 3 (1994), pp. 141-148 ci dice osserva che Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni, ci dice che per certi versi, secondo Plinio (e anche Vitruvio), in termini prettamente economici, per un padrone/proprietario terriero, era più “conveniente” avere dei lavoratori dipendenti, uomini liberi, che non degli schiavi perché se lo schiavo rimaneva ferito, menomato, mutilato o si ammalava, il proprietario aveva il dovere , forse legale, di curarlo, in pratica, per un periodo lo schiavo non poteva lavorare, ma doveva comunque essere mantenuto ed aveva diritto a cure mediche, vitto e alloggio, che legalmente non potevano essergli negate.
Su questo tema Plinio e Catone assumono posizioni politiche divergenti, Catone sostiene la vendita dello schiavo, Plinio invece ne sostiene la tutela anche sul piano “morale” e, la sua posizione, è in una lettera che il cronista romano scrive ad un amico di nome Valerio chiedendogli di ospitare nelle proprie terre, in Gallia Nerborense, un suo liberto.
Tornando alla convenienza economica del lavoro dipendente, diversamente dallo schiavo, che, al di la delle posizioni politiche, sia Plinio che Catone, ci dicono godere di certe tutele legali, l’uomo libero che rimaneva ferito sul lavoro, poteva essere sostituito durante la “convalescenza” da un altro lavoratore libero o schiavo, senza che il proprietario della villa o del cantiere o altro, avesse alcun obbligo legale nei confronti dell’ex dipendente, ciò implicava un notevole “risparmio” in termini di denaro. Questa “convenienza” si traduce, all’atto pratico, nell’utilizzo di schiavi e uomini liberi per mansioni differenti, affidando, molto spesso, le mansioni più pericolose ad uomini liberi.
Il padrone, detto molto semplicemente, per il diritto romano, non poteva volontariamente mettere in pericolo di vita lo schiavo, né tantomeno ucciderlo, il padrone dello schiavo romano non aveva quindi autorità sulla vita e la morte dello schiavo, ed è qui che risiede l’enorme differenza tra gladiatore e schiavo.
La vita del gladiatore infatti, sebbene esso fosse uno schiavo a tutti gli effetti, il gladiatore poteva essere acquistato, venduto, affrancato, ecc, e, a differenza dello schiavo comune, poteva rischiare la propria vita. La vita del gladiatore, a quanto ne sappiamo, non era tutelata dal diritto romano come quella di uno schiavo comune, poiché per il ruolo di atleta in competizioni cruente, la sua vita e la sua sicurezza erano messe costantemente in pericolo.
Potremmo dire che lo schiavo comune, quello che lavorava nelle campagne, era “assicurato” per eventuali infortuni sul lavoro, mentre lo schiavo combattente o gladiatore, no.
Il gladiatore non era un manovalante, era invece un atleta, un attore e un combattente e la sua condizione sociale è a metà tra quella di uno schiavo e di un soldato, il cui ruolo prevedeva la possibilità di infortuni e morte.
Le uccisioni di schiavi erano “rare”
Sappiamo che l’uccisione di schiavi in epoca romana è molto rara, salvo rarissime eccezioni, quasi mai i padroni uccidevano o mettevano in pericolo di vita i propri schiavi e lo storico britannico William Smith sosteneva che, le uccisioni di schiavi in epoca romana erano rare perché uccidere uno schiavo implicava una riduzione della manodopera.
In altri termini, le uccisioni erano rare perché economicamente non convenienti, poiché l’uccisione privava di una risorsa che altrimenti poteva essere utilizzata o venduta.
Questa tesi è ancora oggi molto diffusa, tuttavia, gli fa eco, una sempre più accreditata tesi alternativa che, partendo dai sopracitati Plinio e Catone, asserisce che, molto probabilmente le uccisioni erano “rare” perché uccidere uno schiavo non era diverso dall’uccidere un uomo libero, in altri termini, l’assassinio di uno schiavo, al pari dell’assassinio di un uomo libero, era considerato comunque omicidio.
Sappiamo però che i gladiatori morivano, non in numero elevatissimo, ma comunque morivano senza che ci fossero conseguenze per i padroni.
Il discorso della convenienza economica persiste, la morte massiva di gladiatori implicava una spesa continua, eccessiva, per i padroni, e dunque, rimanendo nella teoria di Smith, morivano pochi gladiatori perché la loro morte implicava una perdita di risorse, tuttavia, prendendo in prestito il racconto che Appiano, Sallustio e Plutarco fanno delle tre guerre servili, sappiamo per certo che, anche se rara, la morte dei gladiatori in combattimento ea possibile, sappiamo inoltre che il ferimento dei gladiatori, durante i giochi, durante il combattimento o durante l’addestramento, era molto frequente e non avevano alcuna conseguenza di tipo legale per i proprietari, diversamente da quanto accadeva per gli schiavi rurali che lavoravano nelle campagne.
Questo ci porta a pensare che, sul piano giuridico gladiatore e schiavi non fossero proprio la stessa cosa, ma più probabilmente, che i gladiatori erano una tipologia “speciale” di schiavi, per i quali erano previste tutele e regole differenti e che, anche sul piano sociale, gladiatori e schiavi, fossero due entità distinte, non a caso, sempre nel racconto delle guerre servili, Plinio, Plutarco e Appiano, parlano distintamente di Gladiatori e Schiavi insorti, un distinguo importante perché se sul piano sociale, giuridico e culturale i gladiatori erano schiavi comuni, nei loro racconti i tre autori avrebbero parlato solo di schiavi insorti.
Conclusioni
Purtroppo non sappiamo esattamente in che modo Roma distinguesse gli schiavi comuni dai gladiatori, ne sappiamo se il distinguo fosse culturale o giuridico, quel che è certo è che, per Plinio, Appiano, Plutarco, Catone e Sallustio, per citare gli autori romani alla base di questo articolo, tra gladiatori e schiavi c’erano delle differenze. Banalmente potremmo dire, al di la delle condizioni fisiche e della preparazione atletica, che se è vero che tutti i gladiatori erano schiavi, non tutti gli schiavi erano o potevano essere gladiatori.
Apex Legends Season 9 introduce la patch più corposa dal rilascio del gioco, con nuove armi, nuove mappe, nuove leggende e una nuova modalità di gioco.
Ecco le mie prime impressioni.
Apex Legends Season 9 introduce la patch più corposa dal rilascio del gioco, con nuove armi, nuove mappe, nuove leggende e una nuova modalità di gioco.
Direte voi, cosa c’entra Apex con la Storia? nulla, è che il gioco mi piace e volevo condividere con voi le mie prime impressioni.
Introduzione
Ieri è uscita la season 9 di Apex Legends, un gioco che mi piace, mi appassiona, a cui ho dedicato diverse ore di gioco, e di cui attendevo la nuova patch come un bimbo che aspetta l’arrivo di babbo natale.
La nuova Patch, la più corposa mai rilasciata, come è stato ampiamente anticipato, introduce nel titolo relogic, una nuova modalità permanente, di stampo competitivo, fortemente ispirata a titoli come Valorant a cui punta a sottrarre utenza.
Ho provato la nuova modalità Arena 3v3 di Apex Legends, e che come si ipotizzava, fatta eccezione per qualche piccola differenza nelle meccaniche di gioco, è praticamente un Valorant con i pg e la grafica di Apex Legends.
Apex Migliore di Valorant
La grande differenza tra Apex arena e Valorant è che su Apex le partite in modalità arena, durano poco, pochi minuti se una dei due team non è particolarmente in forma, massimo una decina di minuti se i due team sono forti e affiatate, la madia comunque è di pochi minuti per round. Si tratta di una modalità molto frenetica, molto veloce, molto adrenalinica e la possibilità di correre e saltare, oltre al restringimento dell’anello, ereditato dalla modalità Battle Royale, rende questa frenesia estremamente dinamica, e il tutto rende il gioco veloce, e questo, a mio avviso, è un enorme miglioramento rispetto a Valorant (a cui gioco ed ho giocato tantissimo) in cui le partite sono lente, soprattutto se si gioca con team non precostituiti.
Detto molto semplicemente, Apex Arena non da ai player il tempo materiale per camperare, e questa è cosa buona e giusta.
La nuova classe armi per tiratore scelto di Apex Legends
La nuova patch di Apex Legends ha aggiunge una nuova classe d’armi, per tiratori scelti, che include la nuova arma, l’arco Bocek. Si tratta di una classe che a me personalmente piace tanto, principalmente perché si compone di alcune delle mie armi preferite, e dona a queste armi un nuovo potenziamento che le rende molto più versatili, utili sia nella media che breve distanza.
Le nuove armi possono splittare, grazie ai potenziamenti, da colpo singolo di precisione a colpi multipli, in modalità colpo singolo, l’arma è un arma di precisione a medio raggio paragonabile ad un buon fucile di precisione e il colpo singolo è molto potente, fa molti danni, in modalità colpo multiplo invece, l’arma è più simile ad uno shotgun, spara più colpi contemporaneamente ed infligge, complessivamente, un danno simile a quello del colpo singolo, ma distribuito. Il singolo colpo della modalità colpo multiplo infligge pochi danni. Questa modalità funziona benissimo sulla breve distanza ed equivale a lanciare coriandoli sulla media distanza. Al contrario, il colpo singolo, sulla media distanza è estremamente preciso, e sulla breve distanza molto difficile da utilizzare.
Tutti questi elementi sono presenti anche nella nuova arma, l’arco Bocek, che, nei trailer, sembrava sbilanciato ed OP, devo però ricredermi, l’arma è molto più bilanciata di quel che sembrava, è un arma potente ma difficile da utilizzare, come è giusto che sia.
La nuova classe armi ha avuto un impatto significativo sulla vecchia classe dei fucili di precisione, che ha subito diverse modifiche. La prima, più significativa, vede l’ormai ex fucile di precisione Tripletake diventare arma da tiratore scelto speciale, questo significa che non è più possibile usare i mirini da cecchino su quest’arma che nella nuova stagione sarà possono trovare solo nelle capsule rifornimento, e, per chi come me amava quell’arma è un colpo al cuore, ma perfettamente comprensibile, il fucile Tripletake era, ed è, una delle armi più versatili del gioco, potente sia sul lungo raggio che nella breve distanza, è un arma veloce e potente, forse troppo potente per essere un arma comune.
Resta un arma comune il fucile di precisione Longbow, che però, perde il potenziamento perforacranio, rendendo l’arma completa meno potente che in passato. Di contro, c’è un importante fix al fucile di precisione Sentinel, un arma che non ho mai apprezzato particolarmente, perché troppo lenta e legnosa, anche se estremamente potente, l’arma ottiene un importante modificatore che permette ad un buon giocatore di avere una cadenza di fuoco migliorata, se spara al momento giusto. L’arma inoltre, perde il suo terribile rinculo e risulta ora molto più stabile. Altra modifica della Sentinel riguarda il potenziamento con le celle scudo che ora può essere utilizzato più volte.
Elementi rimossi e aggiunti
La classe dei fucili di precisione, con l’arrivo della nuova classe per tiratori scelti, ha subito la maggior parte delle modifiche, ma le altre classi non sono esenti da fix vari. Tra le armi pesanti ad esempio, la pistola Wingman, subisce la rimozione del potenziamento perforacranio, mentre la pistola Mozambique subisce la perdita del potenziamento Hammerpoint, mettendo fine ad una delle combinazioni più potenti del gioco.
Con queste modifiche la classe pistole ne risulta fortemente depotenziata, tuttavia, la pistola Mozambique è una delle due armi, insieme alla pistola leggera P2020, che può essere ottenuta senza spendere materiali, in modalità arena.
C’è però una bella novità per gli amanti degli Shotgun, l’ex shotgun speciale Peacekeeper dalla stagione 9 diventa un arma ordinaria.
Queste modifiche, che vedranno sicuramente delle correzioni nelle prossime patch, sono finalizzate a bilanciare al meglio la nuova modalità Arena dove il gioco chiede una progressione continua.
Modalità Arena di Apex Legends
La modalità arena di Apex è un mini torneo tra due squadre, in cui ci si affronta alla meglio di 5, la prima squadra che vince 3 match, vince la partita.
All’inizio di ogni match ogni player ha a disposizione un quantitativo fisso di materiali, che possono essere aumentati raccogliendo materiali nella mappa, e dunque spesi, al match successivo, per acquistare abilità, medikit, celle scudeo, armi e potenziamenti per le armi. Ogni match vede aumentare i materiali di ogni player di 600, permettendo così, di scegliere armi e potenziamenti sempre più potenti man mano che si avanza nel torneo.
Ogni arma o potenziamento ha un costo in materiale, fatta eccezione per le pistole P2020 e Mozambique, il cui costo è di 0 materiali, e di cui, eventualmente, dovranno essere acquistati solo i potenziamenti.
Un difetto di questa modalità è che i potenziamenti sono sull’intero set, non è invece possibile personalizzare i potenziamenti.
Faccio un esempio molto banale, prendo come arma la pistola shotgun Mozambique, potenziandola aggiungo e poi aumento il livello dell’otturatore, che rende l’arma più veloce e il mirino ottico. Sarebbe stato molto interessante modificare e potenziare solo parzialmente l’arma, aggiungendo magari un otturatore di livello 3 ed un mirino ottico di livello 1 o nessun mirino ottico.
Questo però, avrebbe richiesto più tempo in fase di shop pre match.
Legende nella nuova modalità Apex arena.
Passiamo ora alle leggende, la stampa specializzata in queste ore sta parlando esclusivamente della nuova Legenda Valkyrie, su cui c’è poco da dire, è un nuovo personaggio legato alla saga di Titanfalls, in particolare a Titanfalls II, ha delle abilità molto interessanti che rendono molto più dinamico il gioco, ed è un personaggio creato ad Hoc per la nuova modalità Arena o quasi.
L’abilità passiva e l’abilità base di Valkyrie, sono tra le più performanti nella nuova modalità Arena, le uniche abilità che si avvicinano a quelle di Valkirie sono quelle di Wraith e di Octaine.
Diversamente da Valkirie, pensata per l’Arena, uno dei miei personaggi preferiti, Loba, purtroppo non trova molto spazio in questa nuova modalità. Loba è un personaggio costruito per il looting, le cui abilità sono finalizzate al looting, e, in una modalità in cui non c’è nulla da lootare, la sua abilità passiva e la sua ultimate sono totalmente inutili, molto utile invece, è il salto quantistico.
Migliori Team per la modalità Arena di Apex Legends
La nuova modalità Arena richiede “affinità”, il team deve lavorare insieme, e muoversi in modo strategico e coeso, staccarsi dal gruppo significa morire e far perdere il match alla squadra. Le abilità, diversamente dalla modalità Battle Royale, sono limitate, devono essere “acquistate” con i materiali, prima di ogni match, è quindi importante dosarle con cura, alcune abilità come abbiamo visto sono utili e potenti, altre totalmente inutili, ed è meglio evitarle.
I team, per vincere, devono essere non solo coesi, ma anche bilanciati, avere un team A con soli incursori, Wraith, Fuse e Revenant, per fare un esempio, a meno che non faccia un gioco molto aggressivo, e sia gestito da ottimi giocatori, avrà poche possibilità di vittoria contro un team B che magari è formato da Giblartar, Crypto e Wraith.
Ovviamente un buon giocatore è in grado di vincere una partita anche da solo, e mi è capitato, mentre provavo la modalità arena, io ed un altro membro del team siamo stati abbattuti subito, ed il terzo player, da solo, ha abbattuto tutta la squadra avversaria portandoci alla vittoria.
Restando però, nel caso del giocatore comune, e mettendo da parte i top player, il miglior team per la modalità arena di Apex Legends è un team che comunica, che fa gioco di squadra e che fa le proprie scelte tattiche, sia nell’arena che nello shop, insieme agli altri giocatori. In modalità Arena, avere 3 player che scelgono un fucile di precisione come arma principale, senza troppi giri di parole, significa perdere a tavolino.
Bambini nei gulag, la drammatica storia di 10 milioni di bambini, vittime del sistema di repressione dell’unione sovietica.
Mi è capitato di imbattermi in alcuni vecchi post (e video), di un blog di divulgazione, di cui non farò il nome, intitolati Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin”, che hanno come oggetto la “strage” di bambini avvenuta in URSS ai tempi di Stalin e dei gulag. Gli articoli partono dal presupposto che nei Gulag abbiano perso la vita oltre 20 milioni di persone, tra cui circa 10 milioni di bambini, tuttavia, la verità dei fatti è leggermente diversa, nella stampa specialistica internazionale, sulla base dei dati ufficiali, è emerso che i gulag fecero circa 20 milioni di vittime, dove per vittime si intende arresti, allontanamenti dalla famiglia, ma non decessi. I decessi stimati nei Gulag, si stima fossero circa 1,6 milioni (bambini e prigionieri di guerra inclusi). Ne consegue che, l’assunto da cui partono quei video sono errati, ma andiamo con ordine.
Bambini dei Gulag: la Tragica Storia di 10 Milioni “Piccoli Nemici di Stalin, si tratta di un titolo forte, inquietante, fa pensare che oltre 10 milioni di bambini dell’unione sovietica, vennero deportati nei Gulag, terribili luoghi di prigionia in cui i deportati vivevano in condizioni disumane, assimilabili a quelle dei lager nazisti. Ma l’articolo non si ferma a questo e arriva a concludere che 10 milioni di bambini morirono nei gulag e che il 40% dei prigionieri dei gulag fossero bambini. E nel sostenere ciò, cita una fonte in cui si dice tutt’altro. In cui si parla di orfanotrofi e istituti per bambini figli di deportati e si denuncia l’abbandono, da parte dello stato, di quei giovani allontanati dalle famiglie e costretti a vivere in contesti urbani degradati.
Tra questo titolo e la realtà c’è la stessa distanza che c’è tra l’articolo e il volume che utilizza come fonte, e si configura come un intero universo di possibilità ancora tutte da esplorare, detto in altri termini, il post è pieno di informazioni errate e dati falsi che non corrispondono ai dati ufficiali, che non trovano riscontro nelle fonti e trae conclusioni arbitrarie e soggettive, prive di alcuna connessione con i dati e le fonti.
Il tutto, condito da un accurata analisi di foto e copertine di libri, degne di un post di QAnon. Memorabile a tal proposito il commento dell’autore che, parlando del volume “Children of the gulag” osserva “la copertina del libro “Bambini dei Gulag”, che ritrae non a caso una bambina con uno sfondo di una foresta di pini.”.
A proposito di Children of the gulag, testo mai tradotto in italiano, non so esattamente perché, ma nel post, ogni volta che viene menzionato il libro, viene utilizzato il titolo ” l’autore del post, ogni volta che lo nomina, viene utilizzato il titolo “bambini dei gulag” traduzione letterale che neanche corrisponde al concetto a cui è costruito il libro. Una più accurata traduzione o adattamento del titolo in italiano dovrebbe essere “figli dei gulag” e il perché lo vedremo più avanti in questo post.
Vittima non significa deportazione o morte
Come già anticipato, vittima non significa necessariamente deportazione o morte, cominciamo quindi con il dire parlare di 10 milioni di bambini che, secondo il post avrebbero perso la vita nei nei gulag, questo dato è errato, ed è frutto di un interpretazione soggettiva (e distorta) dei dati presentati in diverse opere e volumi, distorcendo il concetto di vittima, rendendolo quindi un sinonimo di deportazione e morte. Come anticipato nell’introduzione, nei 30 anni di attività dei gulag, hanno perso la vita, nei campi, circa 1,6 milioni di persone.
Soffermiamoci sul concetto di vittima. Sebbene infatti il dato, 10 milioni, appaia effettivamente nei volumi più autorevoli, questo dato non si riferisce ai bambini morti nei gulag, e neanche ai bambini deportati nei gulag. 10 Milioni furono i bambini vittima del sistema di repressione sovietico, al cui apice c’erano i Gulag, ma Vittime non significa automaticamente deportazione nei gulag, ne morte, e giungere a questa conclusione è un’errata semplificazione, anche se capisco che è facile fraintendere il concetto di “vittima” il cui significato è apparentemente univoco viste le “poche sfumature” della lingua italiana.
Cercherò di essere più chiaro possibile, 10 milioni è il numero di bambini, figli di deportati, che sono stati allontanati dalle famiglie e condotti in orfanotrofi, non è il numero dei bambini deportati nei gulag o dei bambini che hanno perso la vita nei gulag. Quei bambini sono vittime indirette della repressione sovietica, possiamo anche dire che vennero deportati, se questo ci fa sentire meglio, e ci aiuta a dipingere meglio i sovietici come mostri disumani, perché comunque quei bambini vennero allontanati forzatamente dalle famiglie e condotti in orfanotrofi e centri di rieducazione minorile, ma quei bambini, non sono finiti nei gulag e non sono morti nei gulag. Dire che nei gulag hanno perso la vita 10 milioni di bambini è semplicemente falso.
Fatta questa precisazione linguistica, passiamo ad analizzare meglio tutti gli altri dati ed informazioni che vengono riportate nel post.
Revisione dei dati e pubblicazioni
In prima battuta il post ci presenta tre dati estremamente importanti e connessi tra loro, l’articolo parla di oltre 20 milioni di morti nei gulag, di cui 10 milioni di bambini, e come ovvia consecutio logica , viene fuori che il 40% dei prigionieri dei gulag erano Bambini, e, altra conseguenza logica di ciò, i Gulag, diversamente da come vengono descritti nella letteratura scientifica, non furono propriamente delle “prigioni politiche”.
Sono numeri da capogiro, sono numeri enormi, soprattutto se consideriamo che i decessi nei gulag interessarono circa il 10% dei prigionieri, il che significa che in un sistema di paesi che nel 1991 contava complessivamente circa 300 milioni di abitanti e che nel 45 contava più di 26 milioni di vittime causate della seconda guerra mondiale, nei Gulag, in teoria, è transitato il 100% della popolazione sovietica. Già qui dovrebbe suonare un campanello d’allarme e far dire, c’è qualcosa che non va.
In ogni caso, l’articolo si apre in grande stile, dichiarando che, nei gulag, tra il 1930 e il 1960, l’anno di dismissione dei gulag, persero la vita oltre 20 milioni di persone di cui, apprendiamo solo dopo, circa 10 milioni di bambini.
Partiamo dal dato generale dei 20 milioni di decessi in 30 anni, significa circa 1,2 milioni di decessi all’anno. Questa informazione è falsa, ha iniziato a circolare nel 1989, con il crollo dell’URSS e sono state riprese nel 2004, al seguito della pubblicazione del libro “Gulag: A History“, della giornalista statunitense Anne Applebaum, vincitrice del premio Pulizer per quest’opera tanto apprezzata dalla stampa generalista quanto criticata dalla stampa specialistica. Il dato degli oltre 20 milioni di decessi nei gulag è stato smentito quasi immediatamente, in realtà già prima della pubblicazione del libro, poiché i volumi che analizzavano i dati e traevano le prime stime storiografiche sul numero di deportati e vittime dei gulag, hanno iniziato ad uscire già dal 93, al seguito dell’apertura degli archivi dell’ex URSS dopo il crollo dell’URSS, dando così accesso al mondo accademico, tra le altre cose, ai registri relativi ai gulag con annessi documenti sui prigionieri.
Secondo le fonti ufficiali, e per ufficiali è bene precisarlo, non si intende le dichiarazioni del governo sovietico e successivamente quello russo, ma i documenti relativi ai gulag e ai prigionieri, insomma, fonti che sono state verificate da diversi studi storici e revisionati a livello internazionale da numerose reviews (mi dispiace per chi ancora vive ancora immerso nella dialettica della guerra fredda), che vedono concordare la maggior parte degli storici mondiali, indipendentemente dalle proprie simpatie politiche, si stima che tra il 1930 e il 1960 transitarono nei gulag circa 20 milioni di prigionieri.
Transitarono, non morirono. Ai decessi arriviamo tra poco.
Il dato più puntuale registrato fino ad oggi, riporta circa 18,5 milioni di persone deportate complessivamente nei Gulag, ma manteniamoci larghi e restiamo sui 20 milioni, così abbiamo cifra tonda ed è più facile fare i conti. Sempre secondo le fonti ufficiali, il picco massimo di prigionieri presenti contemporaneamente nella rete dei gulag, venne registrato nel 1953, anno in cui si registrarono circa 2 milioni di prigionieri presenti in tutti i campi di concentramento dell’Unione Sovietica. Questo dato è presentato nello studio Illness and Inhumanity in Stalin’s Gulag pubblicato da Yale University Press, nel 2017 e revisionato sulla rivista di settore The American Historical Review, Volume 123, Issue 3, June 2018, Pages 1049–1051, pubblicato nel giugno 2018.
Altro dato interessante è quello relativo all’indice di mortalità nei gulag, il post parla di 20 milioni di morti, che su 20 milioni di prigionieri accertati, significa un tasso di mortalità del 100% e come potete facilmente intuire, visto che neanche i campi di sterminio nazisti, che erano campi di sterminio, raggiunsero “una tale efficienza” nello sterminare persone, c’è qualcosa che non torna.
Secondo le fonti ufficiali, l’indice di mortalità medio nei gulag è da stimarsi mediamente del 4%, con picchi del 7% registrati tra il 1940 e 1945. Secondo lo studio Victims of Stalinism and the Soviet Secret, di S.G. Wheatcroft, pubblicato nel 1999 sulla rivista Europe-Asia Studies, Vol. 51, No. 2, i picchi di mortalità vengono registrati negli anni in cui nei Gulag vennero trasferiti anche i prigionieri di guerra nazisti, durante la seconda guerra mondiale. Non è dato sapere a quali torture vennero sottoposti perché fornissero informazioni strategicamente rilevanti. Gli anni tra il 1940 e il 1945, osserva Wheatcroft, sono anche gli anni di maggior affluenza di nuovi prigionieri nei campi, secondo i registri infatti, i nuovi arrivi erano dovuti principalmente all’afflusso di prigionieri di guerra e disertori.
Questi dati ci dicono due cose importantissime, la prima, durante la seconda guerra mondiale l’URSS non rispettò le convenzioni internazionali in merito al trattamento dei prigionieri di guerra, ma questa per il momento non ci interessa e comunque non è una novità. La seconda, che invece ci interessa è che il numero complessivo di decessi avvenuti nei Gulag, in tutto il periodo di attività, approssimativamente l’8% dei prigionieri facendo una media ponderata (e non matematica) di tutto il periodo, si aggira intorno agli 1,6 milioni. Ipotizzando inoltre che molti decessi non vennero registrati, possiamo tenerci larghi e stimare circa 2 milioni di decessi. Due milioni di decessi sono sicuramente tanti, sono più di quelli effettivamente documentati o comunque di quelli identificati dagli studi, sono un decimo dei 20 milioni decantati post, ma soprattutto, 2 milioni di decessi complessivi, sono meno di 10 milioni di decessi minorili. C’è ancora qualcosa che non torna.
Questi dati, pubblicati e revisionati su importanti riviste di settore, sono frutto di diverse analisi comparative che hanno preso in esame oltre ai registri dei gulag, anche le cartelle cliniche dei detenuti, i documenti di arresto, i documenti di rilascio, registri sanitari, mortuari e di natalità, e per non farsi mancare nulla, in alcuni studi, sono stati presi in esame anche i documenti pubblici, prodotti dalle persone, dopo il loro rilascio e che, anche se liberi, erano rimaste sotto stretta sorveglianza da parte della Ceka.
Tutte queste informazioni le abbiamo perché l’elefantesca burocrazia sovietica teneva traccia di qualsiasi cosa, e perché diversi studiosi hanno trascorso diversi anni negli archivi di stato dell’ex URSS a Mosca, catalogare e analizzare fascicoli e raccogliendo dati. Abbiamo innumerevoli sorgenti di dati, fonti documentarie, che ci forniscono dati concordanti e coerenti tra loro.
Appurato quindi che quelle 20 milioni di vittime dei gulag, si riferisce ai prigionieri e non ai decessi e che questi invece ammontano a circa 2 milioni, cerchiamo di capire da dove salta fuori quel 10 milioni relativo ai bambini deceduti nei gulag.
Questo dato lo incontriamo già nel titolo, anche se lì non si fa riferimento ai decessi, si parla solo di “piccoli nemici di Stalin” ed è solo nella conclusione del post che si parla apertamente di decessi. Il post si conclude con una dichiarazione di Aleksandr Yakovlev, Commissario del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, datata 2002. In questa dichiarazione Yakovlev asserisce che sono stati circa 10 milioni i bambini vittime del sistema di deportazione minorile e della repressione sovietica.
Yakovlev ha effettivamente riportato questo dato, ha parlato di 10 milioni di bambini vittime dei gulag, e come abbiamo specificato più volte, fonti alla mano, vittima non significa decessi.
Le dichiarazioni di Yakovlev, coerentemente a quanto emerso dalle fonti di cui sopra, parlano di circa 10 milioni di bambini che si sono ritrovati a fare i conti con la macchina della repressione, attraverso l’arresto dei propri genitori e dei propri familiari, bambini che sono stati dati in affidamento ad orfanotrofi e strutture rieducative e che, molto spesso, sono stati abbandonati a loro stessi.
Nel volume Children of the gulag, pubblicato da C.A. Frierson e S.S. Vilensky tramite Yale University press nel 2010, gli autori hanno concentrato i propri studi proprio sui bambini vittima del sistema di repressione dell’URSS. Di questo volume parleremo in maniera più ampia in un paragrafo dedicato più avanti perché apparentemente il post cita questo volume come fonte, tuttavia, il volume e l’articolo, forniscono numeri diversi, il volume parla di 10 milioni di vittime, il post parla di 10 milioni di decessi, e non serve che ripeta ancora una volta che vittime e decessi non sono sinonimi.
Passiamo all’ultimo dato, il 40% dei prigionieri dei Gulag costituito da Bambini. L’autore del post scrive “Nonostante la visione popolare del Gulag come “sistema di repressione politica”, in questi campi erano pochi i prigionieri classificabili come “politici” e il 40% degli internati erano solo dei bambini, innocenti collegati in qualche modo a genitori colpevoli di qualsiasi accusa.“
Su questo dato ammetto la mia ignoranza, non ho la più pallida idea del dove l’autore abbia reperito questo dato del 40%, la maggior parte degli studi di settore citati fino ad ora non presentano questo dato. Personalmente credo sia una proporzione fatta tra i 20 milioni di prigionieri e i 10 milioni di minori, ma non ne sono troppo sicuro visto che il rapporto in quel caso sarebbe al 50%.
In ogni caso, i minori vittima del sistema di repressione, ovvero, i figli di deportati, come abbiamo visto, furono effettivamente circa 10 milioni, ovvero il 50% rispetto ai deportati. Qui va fatta un altra precisazione, 50% rispetto ai deportati e non 50% dei deportati. Questi 10 milioni di bambini, figli di deportati, non vennero deportati insieme ai propri genitori nei gulag, vennero invece trasferiti in orfanotrofi e istituti rieducativi, se vogliamo, per darci un tono, possiamo parlare comunque di deportazione, ma è una deportazione verso istituti diversi dai gulag, istituti di cui esistono i registri e che sono ampiamente documentati.
C’è però da dire una cosa, alcuni bambini vissero effettivamente nei gulag, questo avvenne perché nacquero nei gulag stessi, da donne deportate durante la gravidanza o che vennero concepiti nei gulag, in seguito a rapporti non sempre consensuali, ma non siamo qui per parlare degli stupri nei gulag. Il numero di bambini che vissero nei gulag, e che non erano prigionieri, vivevano in strutture separate dai gulag e seguivano una dieta più ricca e varia (comunque misera) rispetto a quella dei prigionieri.
Lo studio Glasnost’ and the Gulag: New Information on Soviet Forced Labour around World War II di Edwin Bacon, pubblicato su Soviet Studies, Vol 44, No.6, nel 1992, stima la dieta dei prigionieri nei Gulag, tra le 700 e le 1000 chilocalorie al giorno, una dieta inadeguata alle condizioni di lavoro e le temperature, che richiederebbero una dieta da circa 3300 chilocalorie al giorno. Nel caso dei bambini la dieta è stimata intorno alle 2000 chilocalorie al giorno, analogamente alla dieta dei bambini nei gli orfanotrofi e istituti di rieducazione, dove sappiamo non esistere distinzione nella dieta per “orfani” e figli di deportati.
Purtroppo l’entità dei bambini che nacquero e vissero nei gulag, non è ancora nota agli storici, ma si stima essere nell’ordine delle decine di migliaia.
L’ordinanza numero 00486
Nei primi paragrafi del post, si parla della deportazione di bambini nei campi di concentramento e viene citata l’ordinanza n° 00486, prodotta dal commissario del popolo per gli affari interni dell’URSS (NKVD) in data 15 Agosto del 1937. Secondo l’autore del post, cito testualmente “l’ordinanza documenta l’“Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria”, si dice inoltre che, secondo questa ordinanza “mogli e figli dei traditori” erano classificati “socialmente pericolosi”, non per le loro azioni ma per quello che avrebbero potuto fare in futuro, in quanto parenti di nemici del popolo.
Sorvolando, sul fatto che nel post (non l’ordinanza) si sofferma su mogli e figli dei nemici del popolo, ignorando invece mariti, fratelli, sorelle, genitori e familiari in generale, il post continua dicendo che “mogli e figli adolescenti erano destinati ai lavori forzati, mentre i più piccoli erano destinati agli orfanotrofi della kvd (Narodnyj komissariat vnutrennich – Commissariato del popolo per gli affari interni)” specificando che, la distinzione tra figli adolescenti e figli più piccoli, era arbitraria, più o meno come sono arbitrarie le conclusioni a cui si giunge nel post.
L’ordinanza numero 00486 viene citata, ma non ci viene mostrata, ne ci viene detto cosa effettivamente contenga.
Ho provato a risalire al testo dell’ordinanza, se l’autore del post l’ha citata ipotizzo ne abbia letto il contenuto, da qualche parte deve essere, ma ammetto di non essere riuscito a trovarne il testo, ho però trovato alcuni articoli che annoverano questa stessa ordinanza tra le note bibliografiche, come ad esempio un articolo pubblicato sulla rivista telematica di studi sulla memoria femminile, a cura di Emilia Magnanini, dell’Università Ca’ Foscati di Venezia, in cui viene menzionata l’ordinanza 00486, articolo che si concentra sul tema delle condizioni dei “figli dei deportati nei Gulag”.
I figli dei gulag
L’articolo di Emilia Magnanini usa come fonte primaria per il proprio articolo un volume, pubblicato a Mosca nel 2002, intitolato “Deti Gulaga. 1918-1956” a cura di S.S. Vilenskij, A.I. Kokurin, G.V. Atamaškina e I. Ju. Novičenko, si tratta di un volume dal valore epocale perché una delle primissime pubblicazioni in cui vengono riportati documenti relativi non solo ai deportati nei Gulag ma anche ai loro familiari e tra questi documenti figura anche la famigerata ordinanza 00486 dell’agosto 1937.
Secondo Magnanini, i documenti presentati in Deti Gulaga sono estremamente eloquenti e ci parlano del destino di milioni di bambini e adolescenti che hanno subito gli effetti della repressione che aveva colpito i loro genitori.
Nell’articolo, Emilia Magnanini ci dice testuali parole “la stragrande maggioranza dei minori finiva negli orfanotrofi, negli istituti correzionali o persino nel lager dopo essere rimasti soli perché i loro genitori erano contadini deportati e morti di stenti, o perché erano stati arrestati e fucilati, oppure condannati al lager”
Inoltre, nei documenti ufficiali, osserva Magnanini, ricorre spesso il termine “besprisornye”, termine utilizzato per indicare i ragazzi ospitati negli istituti di rieducazione. L’etimologia di questa parola parte dal concetto di “ragazzi sfuggiti alla vigilanza (degli adulti)”, “ragazzi di strada”, “criminalità minorile”.
L’articolo di Magnanini giunge alla conclusione che, quella situazione di criticità e disagio per molti giovanissimi sovietici, costretti a vivere alla giornata, era effetto della repressione. L’articolo è estremamente critico nei confronti dell’URSS e fa le pulci al modo in cui lo stato sovietico, tra il 1930 e 1960, ha gestito figli dei deportati, de facto abbandonandoli a loro stessi. In tutto questo però, nell’articolo non si fa riferimento, se non in un contesto generale, alle deportazioni minorili. Neanche quando l’articolo cita come fonte l’ordinanza 00486. Detto più semplicemente, l’articolo di Magnanini, che parte dal “Deti Gulaga” e analizza i documenti ufficiali tra cui le lettere e diari dei ragazzi figli di deportati, le lettere e diari degli stessi deportati, oltre ad atti burocratici, non ci dice che i figli dei deportati venivano deportati a loro volta perché figli di deportati o che i familiari adulti dei deportati venissero arrestati in via precauzionale, ne ci parla di bambini deportati e deceduti nei gulag, nonostante i bambini vittima della repressione sovietica sono proprio l’oggetto dell’articolo.
Ci dice invece che questi, i figli dei deportati, rimasti senza genitori e abbandonati a loro stessi, vennero portati in orfanotrofio, i più grandi in istituti correttivi, e in quel clima di degrado e disagio, circondati da altri ragazzini che avevano vissuto un disagio simile o che avevano commesso dei crimini, circondati da “ladruncoli e criminali“, alcuni di loro iniziarono a sviluppare sentimenti avversi e ostili all’URSS, avvicinandosi quindi a gruppi sovversivi e reti di cospiratori anti governative e quando scoperti, perché comunque sotto sorveglianza, vennero deportati a loro volta.
Non c’è in questo una deportazione precauzionale, c’è invece una serie di azioni e reazioni che si alimentano a vicenda.
Nell’articolo di Emilia Magnanini, tra le altre cose, viene riportato il testo (tradotto) di alcune lettere e documenti che raccontano proprio questo disagio e angoscia, questo senso di abbandono vissuto dai figli dei deportati.
Children of the Gulag di Frierson e Vilensky
Tornando invece al post, questi, nella parte centrale arriva al vero topic. In questa sezione vi viene riportata la storia di alcuni bambini ed è indicata come fonte (finalmente appare una fonte) il volume “Children of the gulag” a cura di Cathy A. Frierson e Semyon S. Vilensky edito da Yale University press nel 2010, per qualche motivo italianizzato in “bambini dei gulag” anche se il volume non è mai stato tradotto in italiano.
Premesso che la traduzione “bambini dei gulag” è una traduzione letterale, e non un adattamento e che una più corretta traduzione, che ricalchi il concetto espresso dal titolo del volume, sarebbe “figli dei gulag” (come l’articolo di Magnanini).
In ogni caso, nulla da dire sulle storie che ci vengono raccontate, c’è qualche foto e qualche informazione sui bambini protagonisti delle vicende, in particolare il post si sofferma sulla particolare storia di Engelsina Markizova, bambina della regione di Buriata, vicina alla Mongolia, che venne ritratta con Stalin in un servizio fotografico ufficiale del 1936 poi utilizzato per fini propagandistici.
Voglio però spendere qualche parola sul volume curato da Frierson e Vilensky, il volume, proprio come Deti Gulaga prima d’esso, indica come fonti numerosi documenti degli archivi sovietici declassificati dopo la caduta dell’URSS. Si tratta nella maggior parte dei casi degli stessi documenti utilizzati in Deti Gulaga, a cui se ne aggiungono di nuovi, risultando in questo senso molto più ricco e aggiornato.
La cosa interessante è che uno degli autori di Children of the Gulag è Semyon S. Vilensky, è anche uno dei curatori del volume Deti Gulaga e, nella bibliografia di Children of the Gulag, viene citato tra gli altri riferimenti bibliografici proprio Deti Gulaga. In questo non c’è nulla di anomalo o sorprendente, si tratta di studi simili e in continuità tra loro, separati da circa 10 anni (il primo è del 2002, il secondo del 2010), che partono da una base documentaria comune, fatta di fonti di prima mano, e affrontano aspetti diversi di una problematica comune.
Come per Deti Gulaga, anche Children of the Gulag è un volume di alto profilo, fondamentale per chiunque voglia approcciarsi allo studio dei Gulag e della società sovietica, il volume è ricco di mappe, fotografie, cronologie, appunti e tabelle riportanti i dati ufficiali, insomma, è un opera monumentale, che oltre ad un analisi corale e comparativa di innumerevoli fonti, fornisce ai lettori la più imponente selezione di fonti primarie, che si possa immaginare. Documenti di prima mano fondamentali per la ricerca storiografica che, senza quest’opera, sarebbero estremamente difficili da reperire per chi non vive a Mosca.
Per questi ed altri motivi, Children of the Gulag è stato ed è tutt’oggi molto apprezzato dalla comunità scientifica, ricevendo numerose reviews positive. Tra le varie reviews, , che non sono recensioni, ma più delle verifiche delle fonti, nella primavera del 2011 la rivistaSlavic Review, Volume 70 , Issue 1, edita da Cambridge University Press, alle pagine 197-198, pubblica una delle tante reviews dell’opera.
Nell’articolo, Children of the gulag viene citato come fonte e arriva alla conclusione che, nei gulag, persero la vita circa 10 milioni di bambini sovietici, figli di deportati accusati di essere “nemici del popolo”, ma, in Children of the Gulag ci viene detto che i deportati complessivi furono circa 20 milioni, in linea con gli altri studi di settore e non si fa riferimento a bambini deportati nei gulag, nonostante l’oggetto dell’articolo sia proprio il destino dei bambini vittime del sistema di repressione sovietico. A tal proposito voglio citare direttamente la Reviews di Children of the gulag pubblicata su Slavic Review nel 2011.
“What comes out in these interviews and, indeed, in the entire book, is the way in which this population of victims did not experience a single traumatic moment but a lifetime of crippling blows. In one of these interviews, an orphaned child of “enemies of the people,” Boris Faifman, described his days as a thief in the company of juvenile criminals. Later, Faifman will mourn his parents three times, in his words, first when they were arrested, second when he was told they had died of heart disease in Kolyma, and a third time when he learned the truth—as late as 1962—that they had, in fact, been executed.”
“Ciò che emerge in queste interviste e, in generale, dall'intero libro, è il modo in cui questa popolazione di vittime (si riferisce ai figli dei deportati) non ha vissuto un solo momento traumatico ma una vita di colpi paralizzanti. In una di queste interviste, un bambino orfano di “nemici del popolo", Boris Faifman, ha descritto i propri giorni come ladro in compagnia di criminali minorenni. Più tardi, Faifman piangerà i suoi genitori tre volte, nelle sue parole, la prima quando erano stati arrestato, la seconda quando gli avevano detto che erano morti di malattie cardiache a Kolyma, e la terza quando ha appreso la verità - nel 1962 - scoprendo che in realtà erano stati giustiziati.”
Riassumendo, Boris Faifman, il protagonista di questa vicenda è uno dei tanti “figli dei gulag” che fino al 1962 non aveva idea di cosa fossero i Gulag, che non ha mai visto un Gulag e che (fortunatamente per lui) non è stato deportato in un gulag perché “figlio di nemici del popolo”, deportati ed entrambi giustiziati in un gulag.
L’opera di Frierson e Vilensky, così come il più recente articolo di Magnanini di cui sopra, e come anche Deti Gulaga dello stesso Vilensky, ci parlano del dramma dei ragazzi figli di deportati, delle loro condizioni di vita difficilissime, del loro abbandono, del loro essere vittime dirette e indirette della repressione sovietica ed è per questo che quei bambini sono “figli dei gulag“.
In Children of the gulag, Frierson e Vilensky ci raccontano le storie dei figli dei gulag, ci raccontano storie di abbandono, di sofferenza, di vite distrutte dalla repressione, ci raccontano le storie di quei ragazzi che sono stati abbandonati a loro stessi, a cui lo stato sovietico ha tolto tutto, ha portato via la famiglia e a cui è stata negata una vita normale, normale per quella che era la normalità sovietica dell’epoca, ciò nonostante, non sono storie di bambini deportati nei gulag perché figli di “nemici del popolo” e non sono storie di bambini che hanno perso la vita nei gulag dopo essere stati deportati perché figli di deportati.
Il volume, citato come fonte del post, che non è assolutamente accomodante nei confronti dell’unione sovietica e ne denuncia la crudeltà della repressione a colpi di dati, fonti e testimonianze, mostrando la natura disumana e disgustosa dei Gulag, non ci parla di 10 milioni di bambini che persero la vita nei gulag.
Per fare ciò il volume ci fornisce informazioni accuratissime sugli orfanotrofi, sugli istituti rieducativi, sul tasso di criminalità minorile tra figli di deportati e ci parla anche del tasso di mortalità dei bambini e adolescenti nelle strutture rieducative, mortalità dovuta a pessime condizioni igienico sanitarie, spesso maltrattamenti e in alcuni casi suicidi. Il volume ci dipinge un ambiente sociale terribile per dei minori, un ambiente degradato e carico di sofferenza, in cui permane uno stato di abbandono e un senso di solitudine costante.
Conclusioni
L’articolo decontestualizza e decostruisce le fonti, proponendo una propria narrazione e interpretazione dei fatti, non basata sulle fonti, ma basata su preconcetti e idee di parte. L’articolo ci parla di 10 milioni di bambini deceduti nei gulag, ma nei gulag non hanno perso la vita 10 milioni di bambini, e neanche 10 milioni di persone indipendentemente dall’età. L’articolo confonde il significato di “vittime” facendo passare 10 milioni di bambini che più o meno direttamente hanno avuto a che fare con la macchina della repressione, per decessi di minori.
In URSS al tempo dei gulag sono stati commessi crimini atroci, ben più gravi dell’assassinio, a quei bambini allontanati dalla famiglia, abbandonati a loro stessi e consegnati ad un destino di criminalità, odio e miseria, è stato tolto tutto, ma non la vita e non la loro storia. I loro nomi non vennero cancellati, la loro memoria non venne abrasa, la loro vita venne sì distrutta, ma non eliminata.
I figli dei deportati, come nel caso di Boris Faifman, mantengono il proprio nome, e in un perverso spirito materno, la grande madre Russia che aleggiava sull’URSS ha quasi cercato di “proteggerli” dalla repressione che applicava. Ha cercato di “proteggerli” da se stessa, in modo discutibile e aberrante, mentendo loro sull’arresto dei genitori, sulle cause della morte dei genitori, sul perché venissero portati in orfanotrofio, nascondendo loro informazioni e raccontando loro una verità di facciata nel tentativo di plasmarli come dei “bravi patrioti e servitori della patria“, analogamente a quanto accaduto in Italia con i balilla, in germania con la gioventù hitleriana e in generale, nel mondo cristiano con l’azione cattolica ragazzi, ma pur nascondendo loro la verità su cosa fosse successo ai propri familiari, diversamente da quanto asserito, Frierson e Vilensky, ci dicono che non viene tolta loro l’identità. Nell’articolo viene raccontata la storia di Engelsina Markizova, non ci viene però detto che Engelsina Markizova conosceva il proprio nome, conosceva il proprio passato ed è stata lei stessa a raccontare che quel passato nessuno ha provato a portarglielo via, e questo perché, in quella logica perversa della società sovietica, terminata la prigionia nei Gulag, gli ormai ex prigionieri (sopravvissuti e rieducati) potevano ritornare dalle proprie famiglie e sono milioni gli uomini e le donne che, dopo la prigionia, sono tornati a casa dai propri familiari.
il seguente racconto è satirico, ironico e contiene black humor, si tratta di un contenuto forte, amaro e indigesto. Se ne sconsiglia la lettura a chi potrebbe essere turbato da un racconto blasfemo in cui Gesù fuma erba, beve Birra ed ha un rapporto particolare con la propria sessualità.
AVVERTENZE
Attenzione, il seguente racconto è satirico, ironico e contiene quella che credo sia black humor, ma non ne sono tanto sicuro. Si tratta di un contenuto che per alcuni potrebbe essere forte, amaro e indigesto, o una cazzata. Se ne sconsiglia la lettura a chi potrebbe essere turbato da un racconto “blasfemo” in cui Gesù fuma erba, beve birra e scopa randomicamente con apostoli e legionari romani. Alla fine di questo racconto, la frase “il verbo si è fatto uomo” assumerò tutto un altro significato.
Ultimo avvertimento. Da qui non si torna più in dietro.
Sei sicuro di voler leggere questo racconto? No sul serio? Sei proprio sicuro?
Guarda che se ti incazzi non è colpa mia, io ti ho avvertito.
Il verbo si è fatto l’uomo. Racconto satirico a tema pasquale.
La sera del giovedì santo Gesù e i suoi amici fecero una grande braciata a base cari bianche ed erbe amare, modo biblico per dire salsiccia e friarielli, Gesù aveva origini partenopee non dichiarate, il padre naturale, Arcangelo era originario di Napoli, ma questa è un altra storia. Dopo la braciata, Gesù ed i suoi amici andarono a cazzeggiare e fumare in un giardino, convinti che questi appartenesse alla famiglia di Giuda, i quali però, lo avevano venduto per 30 denari. I nuovi proprietari, vedendo in giardino questo gruppo di balordi, guidati da un capellone seminudo, che fumavano e urlavano, chiamarono le guardie che intervennero repentinamente e portarono via Gesù, organizzatore del festino, accusato di schiamazzi notturni, non venne invece incriminato per la droga perché questa era stata prontamente nascosta da Pietro tra le proprie natiche.
Mentre Gesù seguiva le guardie in prefettura, i suoi amici corsero a nascondersi e si ritrovarono in uno stanzino, a casa di un loro amico, lì, manco a dirlo, ricominciarono a fumare.
Gesù trascorse la notte in cella, poi, rilasciato, si recò al punto di randevu, ma, mentre tornava, perché stanco e assetato, si fermò all’osteria da Pilato, lì incontrò un gruppo di legionari, a suo dire molto simpatici, e si ubriacarono insieme per poi andare ad appartarsi nella boscaglia.
Ormai ubriaco come una spugna, durante il tragitto Gesù cadde ripetutamente, ma i legionari lo aiutarono a rialzarsi, poi, raggiunta una grotta dove Gesù era solito appartarsi, iniziarono a fare alcuni giochetti tipici romani, i legionari infilzarono ripetutamente Gesù con i loro lunghi bastoni, in fine, esausto dalla lunga sessione di dick slap con i tre legionari, cadde in un sonno profondo dal quale si risvegliò con un enorme cerchio alla testa.
La domenica mattina, Gesù indossò degli abiti puliti che teneva nascosti nella propria grotta segreta e lasciò i legionari, ancora addormentati, per dirigersi al punto di randevu, dove i suoi amici attendevano il suo ritorno.
Quando arrivò, busso alla porta, ma gli amici, pensando fosse una guardia, perché nella confusione Gesù aveva indossato gli stivali di uno dei legionari, non gli aprirono, ma Gesù sapeva che loro erano all’interno, lo sapeva e lo percepiva dalla puzza di fumo che trasudava dalle pareti, così bussò più forte, ma loro rimasero ancora in silenzio, allora Gesù, in un ultimo gesto risoluto, bussò per la terza volta e mentre bussava disse a gran voce “a zi, so io, e dai aprite, ho portato le birre“.
Alcuni di loro riconobbero la voce, altri capirono solo “birre” e furono entusiasti, altri ancora, confusi dal fumo, capirono “so Dio, ho portato le birre” , una frase che, se fossero stati lucidi non avrebbe avuto alcun senso, lo sanno anche i bambini che a dio piace il vino, ma loro non erano lucidi e spalancarono la porta.
Ad uscire, per andare in contro al Dio con le birre fu Tommaso, detto il credulone, e il suo primo pensiero vedendo Gesù, fu “ma che cazz” poi vide anche le due anfore con le birre, e la sua delusione si tramutò nuovamente in gioia, gridò quindi al miracolo, poi disse “Cazzo zi, c’hai proprio le mani bucate eh“, Tommaso, era di origine romana, i nonni erano di Acilia, ma questa è un altra storia. Quindi i due italo palestinesi, presero insieme le anfore di birra ed entrarono, e fu subito festa.
Nuovamente ricongiunto il gruppo, Gesù e i suoi amici ricominciarono a bere e fumare e fare gran festa, chi ballava sul cubo, chi giocava con il proprio bastone, chi con quelli degli altri e in quella confusione Gesù insegnò loro alcuni dei giochetti con la lingua che gli erano stati mostrati dai legionari romani.
Quando erba e birra finirono, il gruppo si disperse, ognuno andò per la propria direzione, tornando alle proprie dimore, Gesù, lavoratore precario con una laurea umanistica, che in quel tempo viveva con i genitori, tornò alla casa del padre, che come ogni padre amorevole e severo, vedendolo frastornato e camminare in modo strano, con gli occhi rossi e gonfi come mongolfiere, gli chiese come avesse trascorso la pasqua. Gesù, per non dire a Giuseppe di aver bevuto, fumato e scopato con ogni forma di vita incontrata lungo la strada, perché temeva che questi lo avrebbe picchiato con una grossa trave, fece quello che ogni figlio trentenne e responsabile, che vive con i genitori avrebbe fatto al suo posto. Mentì spudoratamente.
Infamò Giuda, che tanto, a Giuseppe era sempre stato sul cazzo, e disse di essere stato infilzato dai romani, di essere morto e di essere risorto dopo tre giorni.
E Giuseppe, come ogni buon padre amorevole, capì che era una stronzata ed afferrò la grossa trave, poi si ricordò di avere quasi settant’anni e che il figlio passava le giornate in palestra e dunque finse di credergli, come già in passato aveva finto di credere alla storia di Arcanelo, l’amante di Maria che all’epoca aveva 16 anni mentre lui aveva già superato i quaranta, spacciato per emissario di Dio.
il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.
Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…
Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.
Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.
Prologo
200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.
Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.
Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.
Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.
La notizia
La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.
L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.
Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.
Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente
Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.
Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.
I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.
Manzoni e Napoleone
Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.
La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.
Come era percepito Napoleone dai contemporanei?
Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.
Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.
Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto.
Napoleone è morto, viva Napoleone!!!
Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva.
Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.
Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.
Napoleone come idea
Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.
Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.
Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.
Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.
Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.
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